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  • Mercoledì 23 settembre 2020

L’insospettabile paese dietro i più grandi successi musicali pop degli ultimi anni

Tantissime canzoni che sappiamo a memoria sono state scritte o prodotte da autori svedesi, come racconta il nuovo numero della rivista The Passenger, tutto sulla Svezia

La Svezia è il paese di cui si occupa il nuovo numero di The Passenger, il libro-magazine della casa editrice Iperborea dedicato ai viaggi, uscito il 23 settembre. Attraverso illustrazioni, saggi, infografiche, reportage e consigli di romanzi e canzoni, racconta «l’eccezionalismo» di un paese «estremo», come si legge nell’introduzione, noto per il welfare invidiabile, il progressismo, l’accoglienza (nel 2015 ospitò, con i suoi 10 milioni di abitanti, 160mila rifugiati), che hanno però come risvolti un «rigore etico che a volte si impiglia in un moralismo retrogrado» e «uno slancio idealista che rischia di infrangersi contro gli scogli della realtà».

In questo numero potete leggere della disponibilità del mondo adulto ad ascoltare le istanze dei ragazzini, alla base del successo dell’attivista ambientalista diciassettenne Greta Thunberg; da dove vengono i Democratici svedesi, il partito nazionalista che ha radici in un movimento neonazista; la storia che ha messo sotto sopra l’Accademia svedese facendo saltare l’assegnazione del premio Nobel nel 2018; perché Spotify e altre startup tecnologiche svedesi hanno così successo, e un ritratto dello scrittore biologo ed entomologo Fredrik Sjöberg, che vive nell’isola di Runmarö, dove studia sirfidi e altri insetti.

L’albergo Gustafsons nel Värmland, una regione nel sud-ovest del Paese
(Giulia Mangione – Prospekt Photographers)

Tutte le fotografie sono state realizzate da Giulia Mangione, artista visuale e fotografa documentaria. Il suo primo libro, Halfway mountain, pubblicato nel 2018, è stato selezionato per il Premio come miglior libro all’importante festival di fotografia Les rencontres d’Arles, in Francia. I suoi lavori sono stati esposti all’International center of photography (New York), al Musée de l’Élysée (Losanna), al Foto-forum (Bolzano) e alla Fotogalleriet (Oslo). Vive in Norvegia.

The Passenger Svezia sarà presentato mercoledì 23 settembre da Fuori, a Milano (trovate tutti i dettagli qui). I numeri usciti finora hanno parlato di Turchia, India, BrasileBerlino, Norvegia, Grecia, PortogalloIslanda, Paesi Bassi e Giappone. Oltre che sul sito, potete seguire la rivista su Instagram, Facebook e Twitter.

La copertina del libro, che ritrae Nina Rung, criminologa e femminista, che nel 2014 ha fondato un’associazione impegnata nella prevenzione della violenza domestica (Giulia Mangione – Prospekt Photographers)

Di seguito un estratto che racconta perché alcune delle canzoni di maggiore successo in tutto il mondo degli ultimi 25 anni – come Baby one more time di Britney Spears, Roar di Katy Perry e Shake it off di Taylor Swift – sono state scritte o prodotte da autori svedesi rimasti nell’ombra. L’articolo è stato scritto da Jan Gradvall, giornalista che si occupa di televisione e musica dagli anni Ottanta.

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La fabbrica di hit
di Jan Gradvall
Traduzione di Alice Traverso

La musica pop è in continua evoluzione. Ogni anno – se non ogni mese – il sound, lo stile, il ritmo e l’attitudine cambiano. Nessuno riesce mai a prevedere quale sarà la mossa successiva, e una volta raggiunta la vetta delle classifiche, la popolarità di un artista può rapidamente diminuire. Il pop è un prodotto da consumare fresco.

C’è però una cosa nella musica pop che è rimasta costante negli ultimi 25 anni: le hit di maggior successo nel mondo sono scritte da svedesi, da autori e produttori discreti che rimangono volutamente dietro le quinte. Nella prima metà del 2020 il brano più ascoltato su Spotify è stato «Blinding lights» di The Weeknd, una pop star canadese con genitori etiopi, che è diventato l’artista più ascoltato su Spotify. Ma basta una ricerca per scoprire che chi ha scritto e collaborato a «Blinding lights» è… svedese.

Lo stesso vale per il 2019 e per tutti gli altri anni dell’ultimo ventennio: dietro i più grandi artisti pop del mondo si nascondono autori e produttori svedesi. Ariana Grande, Lady Gaga, Justin Timberlake, Ed Sheeran, Justin Bieber, Sam Smith, Katy Perry, Taylor Swift, Selena Gomez, i Maroon 5, P!nk, Britney Spears, i Jonas Brothers, Madonna, Ellie Goulding e molti, molti altri ancora. Tutti lavorano con svedesi.

Una dj a Trädgården, a Stoccolma.
(Giulia Mangione – Prospekt Photographers

Dai primi anni Duemila, circa il 25 per cento dei brani al primo posto nella classifica Billboard hot 100, che include i cento singoli più ascoltati negli Stati Uniti, è stato scritto da svedesi. Ci sono state settimane che metà dei titoli nella Top 10 aveva firma svedese.

Nel Ventesimo secolo le capitali della musica pop erano Londra e New York. Lì venivano scritte e registrate la maggior parte delle canzoni di successo; negli anni Duemila Stoccolma e Los Angeles, dove attualmente lavorano decine di autori svedesi, hanno preso il loro posto. In totale, a oggi si contano circa cinquanta svedesi che appartengono all’élite internazionale degli autori. Sarebbe divertente analizzare le liste dei collaboratori dei maggiori artisti internazionali, per calcolare il peso del «fattore svedese».

Nel disco Rebel heart di Madonna, per esempio, sono stati coinvolti otto autori svedesi. (Aggiungiamo che Madonna ha anche lavorato con la stilista Bea Åkerlund e con i registi Jonas Åkerlund e Johan Renck, tutti svedesi.) Per l’album Delirium Ellie Goulding ha collaborato con undici svedesi, Adam Lambert ha inciso The original high assieme a 19 svedesi.

Negli ultimi anni il miracolo del pop svedese ha suscitato interesse anche a livello internazionale. È il caso di The song machine, libro del giornalista del New Yorker John Seabrook, e di Flat pack pop, documentario realizzato dalla Bbc (il cui titolo si riferisce al modo in cui Ikea impacchetta i mobili da montare). Ma l’ascoltatore medio non ne ha la minima idea.

Che sia così è anche piuttosto normale: non sono gli autori delle canzoni che dovrebbero stare al centro dell’attenzione, ma gli artisti, gran parte dei quali proviene tuttora dal mondo anglosassone.

Quando parliamo degli Stati Uniti, non c’è evento più importante del Super bowl, la finale del campionato di football americano. L’edizione del febbraio 2015 è stata la trasmissione più vista nella storia della televisione americana. A inizio partita solo in territorio statunitense i telespettatori erano 114,4 milioni. Quando poi Katy Perry è salita sul palco per il tradizionale show dell’intervallo, il numero è salito a 118,5 milioni.
Lì, nel più americano di tutti i contesti, Katy Perry ha suonato cinque hit che sono state al numero uno della classifica Billboard, tutte e cinque scritte in collaborazione con lo svedese Max Martin. (La sesta canzone della performance aveva invece firma norvegese.)

La stessa cosa è accaduta nel 2018 e nel 2019 quando Taylor Swift e P!nk hanno stabilito record di incassi con i loro tour negli Stati Uniti e nel mondo. Le loro canzoni più famose sono frutto di collaborazioni con svedesi.
Come si è arrivati a questo? Come è riuscito un piccolo paese sperduto nei pressi del Circolo polare artico – con solo dieci milioni di abitanti e una lingua che nessuno fuori dalla Scandinavia capisce – a diventare leader mondiale della musica pop? Per capire questa storia bisogna risalire alla metà degli anni Ottanta.

A partire dall’autunno del 1987 la musica pop è cambiata. I meriti vanno innanzitutto a «Pump up the volume» dei M/A/R/R/S, a «Beat dis» di Bomb The Bass e a «Theme from S-Express» di S-Express. Tutti e tre i brani raggiunsero le vette delle classi che inglesi. E tutti e tre erano realizzati da dj – non da musicisti.

I dj inglesi erano stati a loro volta influenzati dai pionieri dell’hip hop del Bronx, artisti quali Grandmaster Flash e Afrika Bambaataa che, dieci anni prima, avevano iniziato a usare i giradischi come strumenti. L’idea che i dj potessero iniziare a produrre la propria musica mise radici anche a Stoccolma, dove un gruppo di capelloni che lavoravano sotto il nome di SweMix passò dal remixare brani di altri al registrare la propria musica.

Uno di loro era Dag Volle. Quando nel 1988 pubblicò il suo primo singolo, «Gimme some mo’», cominciò a farsi chiamare con il nome d’arte Denniz Pop. In un’intervista radiofonica ha dichiarato: «Ho scelto il cognome Pop perché all’epoca era una specie di bestemmia. I generi che contavano erano solo la house, l’hip hop e roba del genere.»
Per realizzare il suo progetto successivo, Denniz Pop si mise in contatto con Alban Uzoma Nwapa, un dentista nigeriano di Stoccolma che gestiva la discoteca Alphabet street e si faceva chiamare Dr. Alban. Insieme realizzarono qualcosa di davvero radicale: «Hello Afrika», un pezzo dance senza basso, e «No coke», entrambi diventati successi mondiali.

Poco dopo Denniz Pop e alcuni colleghi fondarono Cheiron, uno studio di registrazione all’interno di un bunker di cemento che in breve tempo si guadagnò la reputazione di fabbrica di hit. L’esperienza come dj aveva insegnato a Denniz Pop che una canzone doveva essere riconoscibile in pochi secondi. Sulla base di questa intuizione portò la sua successiva collaborazione, quella con la band Ace of Base, in cima a tutte le classi che mondiali. Sulla carta,

la costellazione di Ace of Base era ancora più improbabile del dentista nigeriano – dopotutto erano un gruppo reggae bianco di Göteborg – ma nessuno poteva resistere a canzoni come «All that she wants» e «The sign».

Nello studio di registrazione Cheiron, Denniz Pop diede vita a un nuovo modello di lavoro orizzontale, senza gerarchie e in cui più autori con diversi punti di vista collaborano allo stesso brano. L’approccio è stato paragonato all’arte pittorica italiana del XV secolo in cui qualcuno dipingeva le mani, un altro i piedi, un terzo si occupava dello sfondo. Le voci sulla fabbrica di hit di Stoccolma fecero il giro del mondo.

Bambini giocano in una fontana nel quartiere di Rinkeby, a Stoccolma
(Giulia Mangione – Prospekt Photographers)