I vaccini contro il coronavirus che arriveranno dopo saranno migliori?

Decine di centri di ricerca sono in ritardo rispetto a chi ha già avviato i test su esseri umani, ma sono convinti di poter offrire soluzioni più efficaci

(Ricardo Ceppi/Getty Images)
(Ricardo Ceppi/Getty Images)

I primi vaccini contro l’attuale coronavirus (SARS-CoV-2) potrebbero essere disponibili tra la fine di quest’anno e i primi mesi del 2021, ma non è detto che siano i più efficaci. Per questo motivo, numerosi centri di ricerca stanno continuando a lavorare allo sviluppo di altre soluzioni, che arriveranno in ritardo rispetto alla concorrenza ma che potrebbero offrire migliori livelli di protezione contro la COVID-19 e a prezzi più bassi. A oggi i vaccini in fase di test sugli esseri umani sono circa 35, mentre ce ne sono altri 88 ancora in fase di produzione e di analisi in laboratorio sugli animali: molti di questi non saranno pronti prima della fine del 2021.

Carl Zimmer, apprezzato divulgatore e giornalista scientifico del New York Times, ha consultato i centri di ricerca e le aziende dove si stanno sviluppando i vaccini che arriveranno in un secondo momento, cercando di capire se e quali vantaggi potrebbero portare rispetto alle prime soluzioni dei prossimi mesi. Questi vaccini arriveranno quando milioni di persone avranno già ricevuto le dosi di quelli della prima ondata, che devono comunque ancora dimostrare di offrire una protezione sufficiente contro il coronavirus.

Diversificare
Molti dei vaccini attualmente nelle ultime fasi di test si basano sul medesimo principio: insegnare al nostro sistema immunitario a riconoscere come una minaccia una particolare proteina che si trova sull’involucro del coronavirus, e che il virus sfrutta per penetrare nelle cellule dove poi avvierà i processi per replicarsi. Questa strategia è ritenuta promettente, ma diversi ricercatori invitano a non farvi troppo affidamento e a differenziare gli approcci, in modo da avere alternative nel caso in cui un sistema non si rivelasse così efficace.

Tra chi sta provando a differenziare c’è un gruppo di ricercatori dell’Università di Washington (Stati Uniti), al lavoro per sviluppare un vaccino basato su milioni di minuscole particelle virali, ognuna delle quali contiene copie di parte della proteina presente sull’involucro del coronavirus. Secondo i ricercatori, questo approccio dovrebbe suscitare una risposta immunitaria più consistente, offrendo maggiore protezione contro la COVID-19. I primi test su cavie di laboratorio hanno dato risultati incoraggianti, ma occorrerà attendere la fine dell’anno per l’avvio dei test sui volontari.

Un approccio simile a quello adottato dall’Università di Washington è seguito da alcuni altri centri di ricerca, come il Walter Reed Army Institute dell’esercito degli Stati Uniti. Entro la fine di quest’anno i ricercatori avvieranno una prima sperimentazione su un gruppo di volontari, una buona occasione per mettere a confronto soluzioni simili adottate da laboratori diversi.

Anticorpi e linfociti T
Quasi tutti i vaccini già in fase di sperimentazione sugli esseri umani cercano di indurre una risposta immunitaria tramite gli anticorpi, la prima linea di difesa del nostro organismo. Alcuni ricercatori pensano però che questa strategia potrebbe rivelarsi inefficace, per come si comporta il coronavirus, e che ci si dovrebbe concentrare sui linfociti T, le cellule del sistema immunitario che si occupano di attaccare le cellule colonizzate dal coronavirus, distruggendole prima che si trasformino in mini fabbriche per produrre nuove copie del virus.

All’Istituto Butantan di San Paolo del Brasile, i ricercatori stanno lavorando a un vaccino che contenga alcune parti specifiche del coronavirus, per vedere se sia possibile attivare i linfociti T in modo da distruggere il virus vero e proprio nel caso in cui si venga contagiati. Lo sviluppo richiederà ancora alcuni mesi, ma se si rivelasse promettente, un vaccino di questo tipo potrebbe offrire una valida alternativa all’approccio più tradizionale e basato sugli anticorpi seguito da chi ha già avviato i test sui volontari ed è più avanti nel percorso verso la produzione del vaccino.

Spray nasale
Altri ricercatori stanno invece lavorando alla modalità di somministrazione delle dosi: tutti i vaccini ora nella fase dei test clinici prevedono il ricorso a un’iniezione intramuscolare, ma una somministrazione tramite uno spray nasale potrebbe rivelarsi più pratica ed efficace, considerato che il coronavirus inizia la sua colonizzazione del nostro organismo dalle vie aeree superiori (naso e bocca).

Codagenix, una società di New York, ha avviato una prima sperimentazione con un vaccino spray basato su una versione sintetica del coronavirus, derivata da quella naturale. Hanno modificato parte del materiale genetico del SARS-CoV-2, comportando 238 mutazioni, e lo hanno poi inserito nelle cellule di alcuni primati non umani. Le cellule si sono messe a produrre copie della versione sintetica del coronavirus, incapace di fare danni e portare alla COVID-19. Gli esperimenti condotti finora hanno mostrato che la presenza del coronavirus modificato ha indotto il sistema immunitario delle cavie a reagire, imparando a neutralizzare la minaccia, ma senza il rischio che si sviluppassero sintomi come avviene con il SARS-CoV-2 vero e proprio.

Inattivazione
Altri ricercatori stanno seguendo approcci più tradizionali e già sperimentati in passato con altri virus. Il sistema prevede di inattivare le particelle virali tramite particolari sostanze chimiche: i virus diventano innocui, ma sono comunque in grado di suscitare una risposta immunitaria da parte dell’organismo, che impara a riconoscere la minaccia senza il rischio di sviluppare la malattia.

Il processo di inattivazione è molto delicato e le autorità di controllo richiedono standard molto alti per assicurarsi che ogni dose sia sicura, priva di contaminanti o di virus ancora attivi. La società francese Valneva sta seguendo questa strada, così come alcuni produttori cinesi, ma il successo di questo sistema deriverà anche dai costi e dai tempi per la produzione delle dosi.

Tempo e denaro
E proprio il tempo e la velocità nel produrre grandi quantità di vaccini potrebbero favorire chi arriverà dopo. Molti dei vaccini in fase di sperimentazione e che dovrebbero essere disponibili per primi si basano su soluzioni mai adottate prima su larga scala, come necessario per affrontare una pandemia. Si dovranno adottare sistemi di produzione mai utilizzati prima, con il rischio che qualcosa possa andare storto. I vaccini che arriveranno dopo dovrebbero avere meno problemi di questo tipo, perché in molti casi sono basati su tecniche produttive impiegate ormai da decenni e che si sono rivelate piuttosto affidabili.

Zimmer fa l’esempio di Codagenix, l’azienda che sta sviluppando il vaccino spray, e del recente accordo stretto con il Serum Institute, la più grande azienda produttrice di vaccini al mondo per numero di dosi realizzate ogni anno (contro il morbillo, l’influenza e altre malattie). Sfruttando le conoscenze e le pratiche sviluppate negli anni e con miliardi di dosi, Codagenix potrebbe produrre una grande quantità di vaccini a prezzi molto più bassi di quelli prospettati per i vaccini della prima ondata.

Utilizzando queste e altre soluzioni, i prezzi per una dose potrebbero raggiungere i 2 dollari circa, a fronte dei 19 dollari per dose che Pfizer chiede al governo degli Stati Uniti, sulla base di uno dei contratti stretti finora tramite la prenotazione di alcuni milioni di dosi.

Diversi osservatori segnalano che probabilmente non ci sarà un solo vaccino contro il coronavirus a prevalere nettamente sugli altri, perché molto dipenderà dai livelli di efficacia offerti da ogni soluzione e dai costi delle singole dosi. In un simile scenario anche chi è in ritardo e arriverà dopo, magari con vaccini più economici, potrà avere grandi opportunità per fare affermare le proprie soluzioni. Saranno comunque necessari ancora diversi mesi per capire se i vaccini dati per “quasi pronti” siano efficaci a sufficienza, e soprattutto in grado di offrire una protezione per lo meno nel medio periodo contro una malattia che conosciamo da circa 8 mesi.