È giusto infettare persone sane per testare un vaccino contro il coronavirus?

Ricercatori e premi Nobel propongono di farlo su gruppi di volontari per accorciare i tempi: non sarebbe la prima volta, ma l'iniziativa pone diversi problemi etici

(AP Photo/Siphiwe Sibeko)
(AP Photo/Siphiwe Sibeko)

Il vaccino contro il coronavirus sviluppato presso lo Jenner Institute di Oxford (Regno Unito) è considerato uno dei più promettenti, tra i tanti in fase di studio e sperimentazione in giro per il mondo. Ora i ricercatori che lo stanno realizzando vorrebbero accorciare il periodo necessario per verificarne la sicurezza e l’efficacia, facendo ricorso a una soluzione con implicazioni etiche non indifferenti: infettare direttamente individui sani con il coronavirus, col rischio di sviluppare una malattia per la quale oggi non esiste una cura, per valutare la capacità del vaccino di proteggerli.

Adrian Hill, direttore dello Jenner Institute, è tra i 125 sottoscrittori di una lettera aperta indirizzata a Francis Collins, direttore dei National Institues of Health (l’agenzia del governo degli Stati Uniti dedicata alla ricerca biomedica), per chiedere che sia presa in considerazione la possibilità di organizzare test su gruppi di volontari sani da infettare con il coronavirus, in modo da avere più dati sulle potenzialità dei vaccini che decine di laboratori stanno sviluppando in tutto il mondo. La lettera, diffusa sul sito dell’iniziativa “1Day Sooner”, ha attirato molta attenzione nella comunità scientifica e tra i responsabili delle istituzioni sanitarie, che dovrebbero approvare e tenere sotto controllo iniziative di questo tipo.

Test sui sani
I test clinici con impiego di agenti infettivi direttamente su volontari umani (human challenge trial, HCT) non sono una novità. Già alla fine del Settecento il medico britannico Edward Jenner, considerato l’inventore dei vaccini, adottò questa soluzione infettando un bambino di 8 anni per verificare l’efficacia della sua soluzione contro il vaiolo, che due secoli dopo avrebbe portato all’eradicazione della malattia salvando milioni di vite umane.

Nel Novecento gli HCT sono stati impiegati per valutare le capacità di numerosi vaccini, ma quasi sempre per malattie che avevamo ormai imparato a trattare efficacemente, e quindi con bassi rischi per gli individui che venivano infettati. Nel caso della COVID-19 non esiste una cura e i trattamenti disponibili non si rivelano sempre efficaci: per questo i più critici si chiedono se sia eticamente accettabile che un cospicuo numero di persone sia infettato con un virus che potrebbe poi causare conseguenze gravi sulla loro salute, compresa la morte.

Sperimentazione
La sperimentazione per verificare l’efficacia di un vaccino richiede solitamente anni di lavoro. Dopo averlo sviluppato, i ricercatori devono infatti assicurarsi che sia sicuro e solo in un secondo momento che sia efficace. Per farlo passano attraverso tre fasi di test, ognuna delle quali prevede l’impiego di un numero crescente di volontari e spesso tempi più lunghi della precedente.

Nella fase 3, ogni partecipante riceve una dose del vaccino sperimentale oppure una sostanza che non fa nulla (placebo), in modo da verificare se tra i vaccinati ci sia una minore ricorrenza della malattia, a indicazione dell’efficacia del vaccino. Dopo l’iniezione, i volontari tornano solitamente alla loro vita di tutti i giorni, in modo da effettuare un test in condizioni realistiche dove il rischio di rimanere infettati è paragonabile a quello del resto della popolazione.

A seconda della circolazione della malattia, la fase 3 può richiedere molto tempo, perché è necessario attendere che un numero significativo di volontari entri casualmente in contatto con individui contagiosi e sia infettato. Il ricorso a un alto numero di partecipanti può contribuire ad accelerare i tempi, ma se la malattia è meno presente nella comunità – come sta avvenendo in questo periodo con la COVID-19 in diversi paesi, per fortuna – possono essere necessari mesi, se non anni, prima di avere dati a sufficienza per valutare l’efficacia di un vaccino rispetto al placebo.

HCT
In un HCT si cerca di forzare questa condizione, infettando direttamente i volontari con l’agente infettivo contro il quale si sta sviluppando il vaccino. Un test di questo tipo dura solitamente alcuni mesi e viene realizzato su un numero contenuto di persone, che per motivi di sicurezza trascorrono buona parte del loro tempo in una struttura sanitaria, attrezzata per affrontare eventuali emergenze e per evitare che gli infetti contagino altre persone.

Nel caso di un HCT sul coronavirus, i volontari sarebbero prima sottoposti a una serie di test (tampone e sierologico) per assicurarsi che non abbiano un’infezione in corso, o che ne avessero già avuta una. Ogni partecipante riceverebbe poi o il vaccino sperimentale o il placebo, e a un paio di settimane di distanza dalla somministrazione riceverebbe il coronavirus nella sua forma attiva. A quel punto inizierebbe un secondo periodo di osservazione di 2-4 settimane, per verificare lo stato dell’infezione, la risposta immunitaria e l’eventuale comparsa di sintomi.

Hill, il responsabile dello Jenner Institute, ha spiegato che nel caso di un HCT per verificare l’efficacia del vaccino di Oxford si potrebbero impiegare volontari ventenni, per i quali i rischi di sviluppare sintomi gravi da COVID-19 sono molto bassi, almeno sulla base delle esperienze e dei casi rilevati finora in giro per il mondo. Per questa fascia di età i fattori di rischio sono considerati estremamente bassi, anche nel caso in cui ricevano un placebo al posto del vaccino, prima di essere esposti al coronavirus. Una sperimentazione di questo tipo non è però priva di rischi e per questo pone non pochi dilemmi etici.

Etica
La COVID-19 causa nella maggior parte dei casi sintomi lievi, ma nelle fasce di popolazione a rischio e negli anziani può invece comportare gravi complicazioni, tali da rendere necessario un ricovero nei reparti di terapia intensiva in ospedale. Anche se l’HCT non coinvolgerebbe individui a rischio, non si può escludere la possibilità che alcuni volontari sviluppino ugualmente sintomi gravi, che potrebbero determinare la morte.

I promotori dell’HCT per i vaccini contro il coronavirus dicono che – oltre a sottoscrivere un consenso informato su opportunità e rischi della sperimentazione – ogni volontario dovrà avere a disposizione la migliore assistenza sanitaria possibile, sia in termini di trattamenti con i farmaci sia in termini di assistenza, con dispositivi come mascherine per l’ossigeno e ventilatori polmonari. La combinazione di giovani pazienti in salute e di un’alta assistenza medica dovrebbe ridurre sensibilmente i rischi, ma non li potrà comunque mai escludere completamente ed è giusto che i partecipanti ne siano consapevoli.

La decisione di svolgere o meno un HCT prevede un processo piuttosto articolato e che coinvolge ricercatori, volontari e istituzioni. Valutata l’utilità di condurre un test di questo tipo, e la disponibilità di un numero sufficiente di partecipanti, vengono coinvolte commissioni selezionate per fornire pareri etici sull’iniziativa e infine i regolatori (agenzie governative, organismi indipendenti) che hanno il compito di valutare se il rapporto tra rischi e benefici sia tale da poter procedere.

Tra esperti di etica medica e istituzioni c’è da diverso tempo un ampio consenso sul fatto che gli HCT siano utili e che, soprattutto, negli ultimi decenni si siano raggiunte garanzie tali da ridurre al minimo i rischi per i partecipanti. Queste e altre valutazioni sono comprese nella lettera aperta sottoscritta da 125 ricercatori, compresi 15 premi Nobel.

Utilità
Nel caso del vaccino di Oxford, i ricercatori vorrebbero avviare un HCT entro qualche mese, ma senza rinunciare alla più classica fase 3 per la valutazione su un’ampia porzione della popolazione dell’efficacia della loro soluzione. La gestione in parallelo delle due sperimentazioni potrebbe offrire risultati importanti facendo accorciare i tempi, con l’obiettivo di fornire il prima possibile un vaccino contro il coronavirus.

Gli HCT potrebbero inoltre rivelarsi utili per valutare più rapidamente i numerosi vaccini in fase di sviluppo, in modo da poter concentrare gli sforzi su quelli più promettenti. Si stima che a oggi siano in fase di sviluppo oltre 155 vaccini, mentre 23 vaccini sperimentali sono già entrati nella fase di test sugli esseri umani. I tempi di ricerca hanno subìto un’accelerazione senza precedenti, se confrontati con quelli per lo sviluppo di vaccini contro altre malattie in passato, ma molti ricercatori invitano a non farsi prendere troppo dall’entusiasmo e a non farsi ingannare da chi annuncia l’imminente arrivo di una soluzione.

Immunità
Il vaccino sperimentale sviluppato a Oxford è stato progettato per indurre una reazione del sistema immunitario, allo scopo di fargli produrre anticorpi neutralizzanti e linfociti T in modo da impedire che il coronavirus riesca a replicarsi e a portare avanti l’infezione. La prossima settimana il gruppo di ricerca pubblicherà i primi risultati delle sue sperimentazioni, che secondo le anticipazioni circolate finora dovrebbero confermare la capacità del vaccino di indurre una risposta immunitaria. Lo studio non fornirà però informazioni sull’efficacia del vaccino nel mondo reale, che potrà essere verificata solo con le altre fasi di sperimentazione.

A oggi i ricercatori non sanno se e per quanto tempo il sistema immunitario conservi memoria dell’infezione dall’attuale coronavirus, quindi se si diventi immuni alla COVID-19. I ricercatori dicono di avere trovato crescenti indizi circa questa possibilità, ma si deve ancora capire quale sia l’effettiva copertura offerta da un vaccino, sia in termini di tempo sia della capacità di proteggere una buona percentuale delle persone che ricevono una o più dosi.

Insieme allo sviluppo di trattamenti più efficaci contro la COVID-19, lo sviluppo di un vaccino è ritenuto essenziale da parte delle principali istituzioni sanitarie per rallentare e infine superare l’attuale pandemia.