Le macchine che respirano per noi

Come migliaia di ventilatori stanno salvando la vita a tanti malati gravi di COVID-19, e cosa sta facendo l'unica azienda che li produce in Italia

(ANSA)
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C’è una cosa che facciamo ogni giorno, per tutta la vita, quasi sempre senza rendercene conto: respirare. Ci riempiamo i polmoni con l’aria dall’ambiente esterno, per ossigenare i nostri organi, e li svuotiamo restituendo aria ricca di anidride carbonica prodotta dalle nostre cellule durante la loro attività. È un meccanismo pressoché perfetto, che condividiamo con migliaia di altre specie, eppure per comprometterlo sono sufficienti minuscoli agenti infettivi, invisibili a occhio nudo, come il coronavirus. Se l’infezione compromette il meccanismo, la nostra vita è in pericolo; nei casi più gravi – come avviene negli ospedali di mezzo mondo in questo periodo – può esserci salvezza solo con un ventilatore: una macchina che respira al posto nostro.

Nelle ultime settimane, la domanda per i ventilatori è cresciuta enormemente in Asia e ora in Occidente, dove i contagi da coronavirus continuano ad aumentare e ci sono nuovi costanti arrivi negli ospedali di pazienti in condizioni gravi. La COVID-19 causa gravi polmoniti che impediscono di respirare correttamente: per qualcuno può essere sufficiente l’impiego di una mascherina o di un casco per facilitare la respirazione, per altri diventa invece indispensabile l’intubazione in terapia intensiva. In entrambe le circostanze, l’aria che arriverà nei polmoni sarà spinta da un ventilatore, e per questo le poche aziende al mondo che li producono stanno cercando di costruirne il maggior numero possibile in pochissimo tempo.

Respirare
Per comprendere l’importanza dei ventilatori in questa pandemia occorre fare un breve ripasso di anatomia (potete saltarlo se vi considerate cintura nera di respirazione polmonare). In realtà, prima ancora di parlare di anatomia, ci serve un promemoria di fisica molto elementare: un gas (e quella che chiamiamo aria è una miscela di gas) si sposta da un’area a pressione più alta a una a pressione più bassa. Tenendo questo assunto a mente, entriamo nella gabbia toracica.

Per spiegare che cos’è un polmone si tende spesso a fare l’esempio di un palloncino che si gonfia e si sgonfia, ma l’analogia può risultare fuorviante, considerato che i polmoni non sono mai completamente “sgonfi”: immaginiamoli quindi come due sacchetti.

Nella nostra gabbia toracica abbiamo due polmoni: hanno un aspetto simile tra loro e che ricorda la forma di un cono, ma non sono perfettamente simmetrici. Il polmone destro è formato da tre lobi (superiore, medio e inferiore), mentre quello sinistro da due soltanto ed è privo del lobo inferiore per fare spazio al cuore e ad altri organi; la capacità dei due polmoni è comunque pressoché identica.

Ogni polmone aderisce alla gabbia toracica attraverso una membrana che si chiama pleura. Un po’ come un poster attaccato alla parete, il polmone è sempre appeso alla gabbia toracica sia durante l’inspirazione sia durante l’espirazione. Con il suo peso, il polmone tira verso l’interno della gabbia toracica, che lo sostiene. In condizione di riposo, la pressione interna dei polmoni è uguale a quella dell’ambiente esterno: per fare in modo che l’aria possa fluire nei polmoni, e quindi respirare, occorre che si formi una depressione (ricordate? i gas si muovono verso le aree con minore pressione).

La depressione viene creata dai muscoli che fanno espandere la gabbia toracica e dal diaframma, una struttura muscolare simile a quella di una cupola, che si trova subito sotto i polmoni (la cosa arancione nell’animazione qui sopra). Si contrae verso il basso, tirandosi dietro i polmoni che intanto vengono anche tirati verso l’esterno dalla gabbia toracica che si allarga. Questo meccanismo fa sì che i polmoni si dilatino aumentando il loro volume rispetto alla condizione di riposo. Essendoci una relazione tra volume e pressione (se uno aumenta l’altra diminuisce, e viceversa), la pressione nei polmoni diminuisce e favorisce quindi l’ingresso dell’aria dall’ambiente esterno, dove la pressione è invece più alta.

L’aria passa attraverso il naso, attraversa la laringe e poi la trachea che si dirama in due bronchi principali, che conducono ciascuno a un polmone. Il tessuto polmonare, che mantiene una certa elasticità, si espande consentendo all’ossigeno presente nell’aria di raggiungere sottilissime ramificazioni con diametro al di sotto del millimetro (bronchioli) che terminano con gli alveoli polmonari, minuscole sacche di fibre muscolari che permettono di riversare l’ossigeno nel sangue e di prelevare l’anidride carbonica prodotta dall’organismo, che deve essere espulsa.

Diaframma e muscoli intercostali tornano a rilassarsi portando il volume dei polmoni a ridursi, comportando quindi un aumento della pressione interna rispetto a quella dell’ambiente esterno. L’aria si sposta quindi verso l’area con pressione più bassa e i polmoni si svuotano. Il ciclo si conclude e poi ricomincia da capo, e non smette mai finché siamo vivi: oltre 500 milioni di volte per arrivare a 80 anni.

COVID-19 e polmoni
Nei casi più gravi, il coronavirus porta a una seria infiammazione delle strutture più profonde dei polmoni, comportando polmoniti difficili da trattare. È il sistema immunitario a determinare l’infiammazione, come mezzo di difesa per provare a fermare il virus, ma la sua reazione può essere esagerata e comportare un circolo vizioso che danneggia profondamente gli alveoli e i tessuti più delicati dei polmoni. Queste microscopiche ferite nel tessuto polmonare fanno sì che lo scambio di ossigeno non avvenga regolarmente, con rischi molto seri per i pazienti più gravi che non riescono a respirare correttamente. Nei polmoni si accumulano siero e altri fluidi, che rendono ancora più difficile la respirazione.

Al momento non ci sono né un vaccino né una cura contro la COVID-19, anche se si stanno sperimentando diversi trattamenti. Per i casi più gravi, l’unica possibilità è aiutare l’organismo dei pazienti a resistere, mentre il sistema immunitario cerca di sconfiggere il virus. L’intubazione è una delle opzioni più estreme: serve per assistere o sostituire quasi completamente la normale respirazione, assicurandosi che arrivi ossigeno a sufficienza all’organismo.

Che cosa fa un ventilatore
Un ventilatore meccanico fa fluire una miscela di ossigeno e altri gas nei polmoni e ne consente poi l’espirazione. Concettualmente il suo funzionamento di base è piuttosto semplice, ma come abbiamo visto deve adattarsi a un sistema complesso come quello che ci permette di respirare: lo facciamo creando una depressione nei nostri polmoni, non spingendoci a forza dell’aria dentro. Il ventilatore deve essere quindi calibrato con grande attenzione, per non danneggiare strutture e tessuti delicati come quelli polmonari.

(Siare)

Le caratteristiche di base sono simili anche tra respiratori realizzati da produttori diversi. I medici (per lo più anestesisti, rianimatori e pneumologi) lavorano su tre parametri principali:

volume, la quantità di aria che viene fatta entrare e uscire dai polmoni a ogni respiro;
flusso, la portata d’aria, ovvero la quantità immessa ogni secondo;
pressione, quanto viene spinta l’aria nel paziente.

Questi parametri sono gestiti attraverso un computer, che regola l’attività della parte meccanica vera e propria del ventilatore. Il computer rileva in tempo reale alcuni dati del paziente (come battito cardiaco e ossigenazione del sangue) e aiuta gli operatori a rilevare la resistenza che incontra l’aria mentre fluisce nel sistema respiratorio e il modo in cui cedono e si adattano i tessuti polmonari (“compliance”).

Display di un ventilatore (Siare)

Il ventilatore immette quantità predeterminate di aria nei polmoni, compie una breve pausa per permettere gli scambi gassosi al livello degli alveoli e lascia poi che avvenga l’espirazione, attraverso la contrazione del diaframma. Il sistema può essere impiegato sia per aiutare i pazienti a respirare da coscienti, assecondando la frequenza con cui respirano, sia per sostituirsi completamente a loro. In questo caso, ricorrente nelle fasi acute dei casi più gravi di COVID-19, i pazienti sono sottoposti per giorni ad anestesia totale, in modo che non interferiscano con l’attività della macchina, con il rischio di causare danni ai polmoni.

Anche se i ventilatori più recenti hanno sensori e sistemi per assecondare al meglio la respirazione, rimane comunque essenziale il lavoro degli operatori sanitari per impostare i giusti valori, che devono essere modificati di frequente soprattutto per pazienti le cui condizioni sono gravi e in continua evoluzione.

Emergenza
In periodi normali, i respiratori di cui dispongono gli ospedali sono sufficienti sia nelle sale operatorie sia nei reparti di terapia intensiva, ma nelle ultime settimane l’epidemia da coronavirus ha comportato un aumento anomalo e straordinario dei pazienti con gravi problemi respiratori, tale da rendere necessario l’impiego dei ventilatori. Soprattutto nelle prime settimane dell’emergenza, negli ospedali della Lombardia non c’erano posti di terapia intensiva sufficienti, con letti dotati di sistemi per intubare i pazienti.

A pochi giorni dall’inizio della crisi, in Italia divenne evidente che fosse necessario fornire centinaia di nuovi ventilatori agli ospedali. Dopo un’indagine svolta dal governo, emerse che in tutto il paese ci fosse solamente un’azienda produttrice di questi macchinari, la Siare di Valsamoggia, a pochi chilometri di distanza da Bologna.

Era mezzogiorno del 6 marzo scorso quando il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, telefonò personalmente a Siare spiegando la necessità di avere nuovi ventilatori e chiedendo all’azienda di darsi quattro ore di tempo per fare un piano e capire di cosa avesse bisogno per aumentare la produzione. Siare rispose proponendo di integrare il proprio personale con 25 militari delle Forze Armate, già esperti nella produzione di macchinari di vario tipo. La proposta fu accolta e i militari entrarono in servizio un paio di giorni dopo, imparando in poco tempo un nuovo lavoro.

Un mese dopo
A un mese di distanza dalla telefonata di Conte, il direttore generale di Siare, Gianluca Preziosa, ha spiegato al Post che l’azienda ha prodotto «oltre 500 pezzi per i quali ci eravamo impegnati» e che per aprile è prevista una produzione di 40/50 ventilatori al giorno, con l’obiettivo piuttosto ambizioso di arrivare a triplicare il numero di unità realizzate al mese.

Preziosa ha detto che l’integrazione del personale del ministero della Difesa «è stata molto positiva ed è ora fondamentale. Dopo i primi giorni necessari per l’apprendimento, attualmente il personale della Difesa sta producendo apparecchi in tempo record». Siare ha inoltre avviato collaborazioni con FCA e Ferrari per la produzione di alcune parti dei ventilatori, in modo da avere le forniture necessarie.

L’azienda ha confermato che in questo momento la produzione dei ventilatori avviene esclusivamente per il mercato italiano, e che non ci sono quindi esportazioni verso altri paesi. I produttori di ventilatori al mondo non sono molti, ma ce ne sono comunque in Francia, Germania e in Svezia, che detiene una parte consistente del mercato del settore.

Siare ha in tutto 35 dipendenti e lo scorso anno ha avuto un fatturato di 11,5 milioni di euro. I nuovi ventilatori sono ceduti allo Stato – che poi si occupa di distribuirli nelle strutture sanitarie in base alle necessità – al prezzo di 9 mila euro l’uno, contro la cifra normale di listino pari quasi al doppio.

L’aumento della produzione ha richiesto uno sforzo senza precedenti per l’azienda, che ha avviato collaborazioni per provare ad aumentare ulteriormente il ritmo. Anche se negli ultimi giorni si sono ridotti di poco i ricoveri in terapia intensiva, la domanda continua a essere alta e tale da far attivare il governo nella ricerca di risorse all’estero; inoltre bisogna mettere in conto che possano esserci nel prossimo futuro – in autunno, o dopo la riduzione delle restrizioni – nuovi aumenti del numero delle persone contagiate e ricoverate, e quindi farsi trovare pronti.

La permanenza dei malati gravi di COVID-19 nei reparti di terapia intensiva è piuttosto lunga, con pazienti che rimangono per settimane collegati ai ventilatori, di solito incoscienti nella fase più acuta e poi coscienti e con ventilazione assistita nella seguente. Senza una macchina per aiutarli, molti di loro non riuscirebbero a superare la fase più difficile della malattia per tornare a fare la cosa altrimenti più semplice di questo mondo: respirare.