Cosa succede ai malati gravi di COVID-19

Cosa vuol dire intubarli e assisterli per settimane, in attesa che guariscano, in reparti ospedalieri sempre più affollati e in difficoltà

(ANSA/Tiziano Manzoni)
(ANSA/Tiziano Manzoni)

L’ultimo decreto del governo per ridurre i contagi da coronavirus invita la popolazione a rimanere il più possibile a casa, seguendo le indicazioni espresse già da virologi, epidemiologi, medici e altri esperti. Ridurre il numero di persone in circolazione, e di conseguenza i contatti sociali, può infatti contribuire a rallentare l’epidemia e a fare in modo che gli ospedali e le altre strutture sanitarie possano funzionare, seppure sotto forti stress: qualsiasi struttura e ospedale, anche la più grande e organizzata, può curare solo un determinato numero di pazienti.

Come dimostra il caso di Bergamo, la provincia attualmente con più casi di COVID-19 (la malattia causata da coronavirus), un alto numero di contagiati e di persone che necessitano assistenza medica sta portando al limite l’ospedale Papa Giovanni XXIII della città, il più grande e importante della zona. I posti dedicati ai pazienti con coronavirus in terapia intensiva sono stati portati da 32 a 40 nelle ultime ore, ma questo implica un’ulteriore riduzione dei posti letto per chi ha bisogno della terapia intensiva per altri problemi di salute.

Dai sintomi all’ospedale
Nella maggior parte dei casi, circa l’80 per cento, le persone che contraggono il coronavirus sviluppano sintomi lievi (come febbre e tosse), che tendono a scomparire dopo qualche giorno e non hanno bisogno di particolare assistenza medica. I restanti, costituiti per lo più da anziani e individui con altre malattie, hanno però sintomi più rilevanti che possono rendere necessario il ricovero in ospedale.

Un paziente con sospetta COVID-19 arriva in ospedale con seri problemi respiratori: il coronavirus induce una forte infiammazione delle vie aeree profonde, al livello dei polmoni, e il paziente fatica quindi a respirare e introdurre ossigeno a sufficienza per l’ossigenazione degli organi. I medici provvedono a misurare i parametri vitali e a fare una radiografia ai polmoni per valutare la situazione, ed effettuano un tampone per verificare se il paziente abbia o meno il coronavirus.

Mascherina, casco, intubazione
A seconda delle sue condizioni, il paziente può trovare beneficio da una semplice mascherina con ossigeno respirando autonomamente, oppure può avere bisogno di interventi più complessi che nell’ordine sono: un casco respiratorio, la ventilazione non invasiva (maschera collegata a un ventilatore) e l’intubazione.

Semplificando molto, possiamo dire che i caschi assomigliano a quelli dei palombari di una volta: sono cilindri di plastica molle chiusi sulla sommità che avvolgono l’intera testa e il collo, appoggiandosi sulle spalle. Al loro interno viene creata una pressione continua attraverso l’immissione di aria con una concentrazione relativamente alta di ossigeno, in modo che questa favorisca l’ossigenazione del sangue al livello dei polmoni. Calibrando bene il casco si possono ottenere risultati accettabili nei pazienti che rispondono meglio alla terapia, altrimenti è necessario ricorrere alla ventilazione non invasiva o invasiva.

Terapia intensiva
Se il casco si rivela insufficiente per la gravità del paziente, si procede al ricovero in terapia intensiva, un particolare reparto dove personale specializzato segue costantemente i pazienti e le loro condizioni. Di solito la ventilazione non invasiva viene gestita in terapia intensiva, ma nelle attuali condizioni di emergenza alcuni ospedali hanno dovuto attrezzarsi per trattare questi pazienti altrove, per il problema dei pochi posti disponibili.

Il rapporto numerico tra pazienti e medici varia a seconda delle terapie intensive e di altri fattori, ma possiamo dire che di solito varia da uno-a-due a uno-a-tre per i casi gravi. A causa dell’attuale carico dovuto al coronavirus a Bergamo, per esempio, il rapporto è quasi sempre di uno/due medici specializzati (anestesisti, che in terapia intensiva si chiamano rianimatori) ogni otto pazienti. L’assistenza è inoltre fornita da infermieri e altro personale sanitario.

Sedare e intubare
Per intubare i pazienti è necessario sottoporli ad anestesia generale, condizione in cui ogni singolo paziente dovrà rimanere per diversi giorni. Come suggerisce il termine “intubazione”, la procedura implica l’inserimento di un tubo in gola che passa in profondità nella trachea superando le corde vocali, in modo che possa convogliare l’aria nei polmoni e farli espandere e contrarre artificialmente grazie al ventilatore cui è collegato.

L’anestesia serve sia per facilitare l’inserimento del tubo, sia per evitare che i pazienti siano coscienti e cerchino di contrastare involontariamente la respirazione indotta dal ventilatore, con il rischio di peggiorare ulteriormente le condizioni dei loro polmoni.

Oltre agli anestetici per indurre lo stato di incoscienza, i medici somministrano di solito farmaci miorilassanti, cioè per rilassare la muscolatura, in modo che i polmoni restino flosci e reagiscano meglio alla ventilazione. Nel caso delle polmoniti causate da coronavirus, spesso è opportuno girare i pazienti a pancia in giù (pronazione), pratica che può migliorare l’ossigenazione dei polmoni. È una procedura delicata che si realizza su pazienti anestetizzati e che quindi non possono collaborare: richiede l’intervento di 4-5 persone, a seconda della stazza e delle condizioni di ogni singolo paziente.

Risveglio
Dopo qualche giorno, se le condizioni migliorano, l’anestesista di terapia intensiva può disporre un progressivo risveglio del paziente, seppure ancora intubato. Questa soluzione serve per ottenere un minimo di coscienza dai pazienti e per verificare l’andamento delle loro capacità respiratorie. Tornando a respirare autonomamente, sono aiutati comunque dal ventilatore, che rileva quando il paziente inspira o espira e lo aiuta a trasportare la giusta quantità d’aria per far lavorare correttamente i polmoni.

Le polmoniti gravi causate da coronavirus si possono risolvere senza particolari conseguenze nei pazienti più giovani, mentre sono più difficili da superare in quelli più anziani o con altri problemi di salute. Anche se il sistema immunitario riesce a sbarazzarsi del virus, l’infiammazione ai polmoni può durare in alcuni casi per diverse settimane, causando ferite all’interno delle strutture polmonari che si cicatrizzano rendendo i tessuti fibrosi (è un po’ come quando ci tagliamo e, dopo la crosta, la pelle in quel punto appare più dura e coriacea). Queste fibrosi potrebbero comportare problemi nel lungo periodo, anche dopo avere risolto l’infezione virale e i sintomi più gravi.

Affollamento e scelte difficili
Il problema dell’affollamento delle terapie intensive è dovuto da un lato alla disponibilità limitata di posti e di personale, dall’altro ai tempi di guarigione piuttosto lunghi per le polmoniti causate dal coronavirus. Per un paziente può essere necessaria l’intubazione per più di due settimane, occupando quindi un posto in terapia intensiva che non può essere impiegato per altri pazienti. All’aumentare dei casi positivi, aumenteranno quindi in proporzione i casi gravi e le necessità di ricovero nelle terapie intensive.

In Lombardia finora il sistema ha retto, ma l’aumento dei casi sta portando a compiere scelte eticamente difficili per il personale sanitario, e con conseguenze molto dolorose per parenti e conoscenti dei pazienti. La rete regionale che si occupa di disporre lo smistamento e i trasferimenti dei pazienti deve fare i conti con ospedali sempre più pieni, e di conseguenza sulla scarsa disponibilità di posti nelle terapie intensive. Si valutano quindi le condizioni dei singoli pazienti e altri parametri, come l’età, per stabilire come distribuirli nelle strutture ospedaliere.

La scelta su chi curare prima è sempre all’ordine del giorno per i medici, ma in situazioni di emergenza come l’attuale diventa ancora più rilevante e con grandi implicazioni sul piano etico. Alla fine della scorsa settimana la Società Italiana di Anestesia Analgesia Rianimazione e Terapia Intensiva (SIAARTI) ha diffuso le sue “Raccomandazioni di etica clinica per l’ammissione a trattamenti intensivi e per la loro sospensione” in condizioni eccezionali come le attuali. Il documento è stato ripreso da alcuni giornali con titoli come “Il documento segreto per decidere chi salvare”. In realtà non c’è nulla di segreto: il file è liberamene accessibile sul sito della SIAARTI e ribadisce concetti su cui i medici si confrontano ogni giorno.

Le raccomandazioni hanno lo scopo di “sollevare i clinici da una parte della responsabilità nelle scelte” e di “rendere espliciti i criteri di allocazione delle risorse sanitarie in una condizione di una loro straordinaria scarsità”. Detto più semplicemente: i medici devono avere linee guida su come comportarsi nelle loro scelte, e devono farlo con la consapevolezza di non avere tutte le risorse di cui dispongono in altre situazioni, quando non ci sono emergenze sanitarie di questo tipo.

Non si tratta di “decidere chi salvare”, ma di decidere come destinare le risorse sanitarie a disposizione tra i pazienti, valutando i percorsi di cura e le priorità per destinarli. In quest’ottica un paziente più anziano e con condizioni compromesse a causa di una COVID-19 potrebbe ricevere un trattamento diverso da un paziente più giovane, e con maggiori possibilità di reagire bene alle cure.

In condizioni normali, l’ingresso in terapia intensiva è gestito con un criterio “primo arrivato, primo servito”, salvo eccezioni (per esempio il rianimatore può decidere di non portare in terapia intensiva un paziente anziano già gravemente compromesso, perché non trarrebbe beneficio). Nella situazione attuale, la gestione è più complessa a causa delle minori risorse disponibili e fa quindi sì che i medici debbano decidere chi trattare tra pazienti che in condizioni normali sarebbero tutti adatti alla terapia intensiva, valutando chi abbia le maggiori possibilità di sopravvivenza (per lo più giovani e, a parità di età, pazienti con minori patologie preesistenti).

L’importanza di stare a casa
Anche per questo motivo meno persone contagiate fanno la differenza: perché significa che ci saranno meno casi gravi da coronavirus da trattare in ospedale, e quindi più risorse (medici, posti in terapia intensiva, ventilatori) da destinare ai pazienti. Il comportamento più efficace per ridurre i contagi, nella situazione attuale, è proprio rimanere a casa e ridurre moltissimo i contatti sociali. Vale per gli anziani e i più esposti perché con altre malattie, ma anche per chi è più giovane e sano, che può comunque trasmettere il coronavirus agli altri.