L’obiezione di coscienza non è un’obiezione

Come funziona in Italia e che problemi ci sono nel sottrarsi ad alcuni obblighi di legge per motivi etici o religiosi

di Giulia Siviero – @glsiviero

Manifestazione per la giornata internazionale contro la violenza di genere di "Non una di meno", Roma, 26 novembre 2016
Manifestazione per la giornata internazionale contro la violenza di genere di "Non una di meno", Roma, 26 novembre 2016

Il primo concorso indetto in Italia riservato a ginecologi non obiettori di coscienza e il bando di un ospedale in provincia di Rovigo per assumere due biologi non obiettori per il centro di procreazione medicalmente assistita hanno spostato e allargato nelle ultime settimane la discussione sulla cosiddetta “obiezione di coscienza”: la possibilità di sottrarsi ad alcuni obblighi di legge per motivi etici o religiosi. Anche nelle discussioni più comuni non si parla solamente dei possibili correttivi che possano rendere certa e senza complicazioni l’applicazione di una legge, ma della liceità stessa dell’obiezione in un sistema normativo (ci sono paesi in cui l’obiezione di coscienza non è concessa: Svezia, Finlandia, Norvegia, tra gli altri). Poi, lontani sia dall’opzione correttiva che da quella abolizionista, ci sono i difensori dell’obiezione a-tutti-i-costi. In generale (e al di qua dei dogmi religiosi) le loro argomentazioni fanno riferimento alla “libertà di coscienza” e al fatto che l’obiezione sia un diritto riconosciuto per legge che ha un fondamento costituzionale.

Nella storia dell’obiezione di coscienza ci sono un prima e un dopo. Nel “prima” chi sceglieva di obiettare decideva di andare contro, letteralmente, a un divieto o a una legge: la sua disubbidienza era una colpa per la quale pagava un prezzo, la prigione di solito. Nel “dopo” l’obiezione è stata “legalizzata”, ammessa cioè nel sistema giuridico, e sono stati stabiliti dei limiti entro i quali il disubbidiente ha il diritto di disubbidire, non è più un colpevole e non deve essere punito. In questo passaggio, il termine “obiezione” non è stato però sostituito, nonostante sarebbe più corretto, per la fase del “dopo”, parlare di opzione, possibilità o sottrazione a una certa norma, come ha spiegato bene Chiara Lalli nel suo libro “C’è chi dice no”.

Nell’ordinamento giuridico italiano sono previste tre forme di “obiezione”: al servizio militare, alla sperimentazione sugli animali e in campo sanitario. Si tratta di tre forme di obiezione ad altrettante leggi o norme che sotto l’ombrello di uno stesso nome hanno o hanno avuto significati e soprattutto conseguenze molto diverse tra loro.

Obiezione al servizio militare
La possibilità all’obiezione di coscienza nella legislazione italiana venne introdotta per la prima volta con la legge numero 772 del 15 dicembre 1972. La legge riconobbe la possibilità di rifiutare il servizio militare, a quel tempo obbligatorio, e di sostituirlo con un altro servizio parallelo, non armato e sempre obbligatorio: il servizio civile. Prima di quella legge c’erano stati gli obiettori “veri”, coloro cioè che avevano rifiutato l’arruolamento o la leva perché erano anarchici, antimilitaristi, testimoni di Geova e più tardi, negli anni Sessanta, anche cattolici.

IMG_6254Il primo e più celebre processo penale di cui si parlò fu quello contro Pietro Pinna, che alla fine del 1948 fu chiamato per la leva. Pinna si rifiutò appellandosi ai principi della non-violenza e per questo venne condannato al carcere: «All’epoca, nel ’48, si era appena usciti dalla tragedia della guerra. Guerra che aveva segnato in maniera indelebile gli anni della mia adolescenza. Allora non conoscevo i presupposti teorici del movimento non-violento. Non avevo letto Gandhi. Semplicemente, avevo vissuto gli orrori delle stragi, dei bombardamenti, e mi ripugnava l’idea di diventare parte di uno strumento, l’esercito, che è essenziale all’azione bellica». La condanna di Pinna determinò la prima presentazione di un progetto di legge da parte di due deputati (uno socialista e uno democristiano) relativo al riconoscimento dell’obiezione di coscienza, ma quello e altri tentativi successivi non andarono a finire da nessuna parte.

La Chiesa, prima del 1972, stava dalla parte della legge e dunque contro gli obiettori di coscienza al servizio militare. L’obiezione di coscienza era stata definita da Gregorio XVI un “vaneggiamento” e nel 1955 Pio XII durante il radiomessaggio “ai fedeli e ai popoli del mondo intero” disse: «Se dunque una rappresentanza popolare e un Governo eletti con libero suffragio, in estremo bisogno, coi legittimi mezzi di politica estera ed interna, stabiliscono provvedimenti di difesa ed eseguiscono le disposizioni a loro giudizio necessarie, essi si comportano egualmente in maniera non immorale, di guisa che un cittadino cattolico non può appellarsi alla propria coscienza per rifiutar di prestare i servizi e adempiere i doveri fissati per legge». Negli anni Sessanta cominciarono però le prime obiezioni in nome della fede cristiana sostenute da alcune figure del mondo cattolico, come padre Ernesto Balducci o don Lorenzo Milani che venne processato due volte per apologia di reato: la prima volta fu assolto, la seconda, in appello, fu condannato con «reato estinto per la morte del reo».

La legge numero 772 sul riconoscimento dell’obiezione di coscienza alla fine passò, con due principali limitazioni: le ragioni morali, religiose e filosofiche per rifiutare la leva dovevano essere sottoposte a un giudizio del ministero della Difesa e di una commissione terza, e il servizio civile sostitutivo obbligatorio doveva avere una durata di 8 mesi superiore alla durata del servizio militare che si sarebbe dovuto svolgere. Dopo nuove obiezioni e nuove incarcerazioni l’incostituzionalità del periodo aggiuntivo venne riconosciuta. Ma solo nel 1989, ed erano passati diciassette anni.

La 772 fu abrogata e sostituita con una nuova legge, la numero 230, nel 1998: l’obiezione di coscienza venne riconosciuta come un diritto del cittadino e non più come un beneficio concesso dallo stato, e la gestione del servizio civile smise di essere competenza del ministero della Difesa e venne affidata alla presidenza del Consiglio dei Ministri (nello specifico all’Ufficio Nazionale per il Servizio Civile, UNSC). Restarono però valide, fino al 2007 e come forma di compensazione, alcune conseguenze dell’essere obiettori sullo stato giuridico: l’impossibilità di ottenere il porto d’armi o di essere reclutati nelle forze armate italiane e nelle altre forze di polizia per il resto della propria vita. Nel 2005, con la sospensione della leva obbligatoria venne istituito il servizio civile volontario. E l’opzione di coscienza in campo militare venne completamente svuotata di senso.

Sperimentazione animale
Nel 1993 l’Italia (unico paese in Europa) ha riconosciuto per legge (la numero 413) l’obiezione di coscienza alla sperimentazione animale. Questa legge consente a medici, ricercatori, personale sanitario, tecnici e studenti contrari alla sperimentazione su animali di dichiarare l’obiezione e di non essere obbligati a prendere parte ad attività che implichino questa pratica. Dopodiché il testo precisa due cose: nelle università la frequenza alle esercitazioni di laboratorio in cui è prevista la sperimentazione animale deve essere facoltativa e devono essere attivate delle modalità di insegnamento alternative che permettano comunque agli e alle studenti di conseguire gli obiettivi delle ricerche o la laurea; inoltre si precisa che la scelta degli obiettori non ne deve penalizzare la carriera lavorativa o universitaria e che il ricollocamento “alla pari” è un diritto: «Chi dichiara la propria obiezione di coscienza ha diritto ad essere destinato ad attività diverse da quelle che prevedono la sperimentazione animale con medesima qualifica e trattamento economico».

Gianluca Felicetti, presidente della LAV, una delle più importanti associazioni animaliste italiane, ha spiegato al Post che la legge 413 del 1993 è nata (come quella del servizio civile) «sul campo», e cioè dalle obiezioni di coscienza non legalmente riconosciute fino ad allora, praticate volontariamente in modo palese o meno da studenti e operatori. E questo nella convinzione (piano morale a parte) che gli animali non fossero dei modelli sperimentali adatti all’essere umano. Alla fine del 1989, 27 tecnici di radiologia medica dell’Istituto Rizzoli di Bologna, in previsione dell’apertura all’interno dell’ospedale di un laboratorio in cui sarebbero stati usati degli animali, si dichiararono obiettori di coscienza e si rifiutarono di eseguire delle lastre a delle pecore a cui erano stati volontariamente spezzati gli arti. In quello stesso periodo si verificò un caso simile a Chieti. Il sostegno ricevuto alla loro “sottrazione” al dovere da parte di privati e da numerose associazioni animaliste portò alla presentazione di una proposta di legge al Senato che venne approvata quasi all’unanimità.

Ogni anno in Italia circa 700 mila animali vengono coinvolti in attività di sperimentazione, ma per numerose ricerche essa è già stata sostituita da metodi alternativi. Dal 2013, ad esempio, i cosmetici sperimentati sugli animali non possono più essere commercializzati all’interno nell’Unione Europea. In altri ambiti, come per esempio nella ricerca sui vaccini, la sperimentazione animale è stata ed è ritenuta invece fondamentale.

Felicetti ci racconta che la legge 413 ha comunque dei punti deboli, non tanto per quanto riguarda il contenuto, ma la sua applicazione. Innanzitutto la possibilità di obiezione di coscienza sulla sperimentazione animale non è molto conosciuta e le persone che potrebbero accedervi non ne sono ben informate: per uno studente, ad esempio, non è chiaro il percorso burocratico all’interno dell’università anche solo sulla comunicazione della propria obiezione e spesso non esiste nemmeno un modulo da compilare. Spesso, poi, i corsi basati su metodi alternativi non sono previsti e questo nonostante in alcuni campi i metodi alternativi abbiano di fatto prevalso (in ambito cosmetico, ad esempio): l’università, ci dice Felicetti, non si è però adeguata, sebbene una formazione sui metodi alternativi risulterebbe per il futuro lavoratore, in alcuni casi, più qualificante.

Salute, aborto e diritti riproduttivi
In campo medico sono previste diverse forme di sottrazione alla legge. La prima, in ordine temporale, riguarda l’interruzione volontaria di gravidanza (IVG) che venne introdotta in Italia da una legge nel maggio del 1978 (la 194). E prevede uno specifico articolo per garantire l’obiezione, il numero 9:

«Il personale sanitario ed esercente le attività ausiliarie non è tenuto a prendere parte alle procedure di cui agli articoli 5 e 7 ed agli interventi per l’interruzione della gravidanza quando sollevi obiezione di coscienza, con preventiva dichiarazione».

Nella legge ci sono poi altre indicazioni: l’obiezione di coscienza può essere revocata, lo status di obiettore non esonera dall’assistenza antecedente e conseguente alla procedura vera e propria di interruzione e non può essere invocato quando il proprio intervento «è indispensabile per salvare la vita della donna in imminente pericolo». Si dice poi che gli enti ospedalieri e le case di cura autorizzate sono tenute «in ogni caso ad assicurare» che l’IVG si possa svolgere. L’obiezione legale deve cioè riguardare il singolo e non l’intera struttura. Le regioni, dice la norma, devono controllare e garantire l’attuazione del diritto all’aborto «anche attraverso la mobilità del personale». La 194 stabilisce infine che «l’obiezione di coscienza si intende revocata, con effetto immediato, se chi l’ha sollevata prende parte a procedure o a interventi per l’interruzione della gravidanza previsti dalla presente legge». Si prevede cioè un’ipotesi di decadenza dall’obiezione: impone al medico obiettore che ha praticato un aborto di non esercitare più l’obiezione medesima.

Sulle motivazioni specifiche e molto radicali: semplificando, si può dire che l’obiezione a interrompere una gravidanza abbia motivazioni religiose (abortire significa uccidere) o motivazioni di comodo riassumibili nelle formule “non si fa carriera”, “ci si riduce a fare solo aborti”.

Nel 2003 venne approvata in Italia una legge sulla riproduzione medicalmente assistita (PMA, dove la “p” sta per “procreazione”, scelta che – spiega sempre Lalli – si posiziona immediatamente in un preciso campo di pensiero): la numero 40. Fin dall’inizio la legge e i suoi regolamenti applicativi furono molto criticati: all’articolo 1 l’embrione viene chiamato “il concepito”, si vieta la fecondazione assistita ai single, alle coppie omosessuali, alle donne meno giovani senza precisare l’età fertile, così come la fecondazione post-mortem del padre. In quasi quindici anni la legge 40 è stata svuotata da molte sentenze e modifiche, dopo il fallimento di quattro referendum abrogativi per il mancato raggiungimento del quorum.

Anche nella legge 40 c’è uno specifico articolo sull’obiezione di coscienza, il numero 16, che riprende esplicitamente nella forma quello contenuto nella 194:

«Il personale sanitario ed esercente le attività sanitarie ausiliarie non è tenuto a prendere parte alle procedure per l’applicazione delle tecniche di procreazione medicalmente assistita disciplinate dalla presente legge quando sollevi obiezione di coscienza con preventiva dichiarazione».

E anche in questo caso si precisa che l’obiezione può essere sempre revocata e che «esonera il personale sanitario ed esercente le attività sanitarie ausiliarie dal compimento delle procedure e delle attività specificatamente e necessariamente dirette a determinare l’intervento di procreazione medicalmente assistita e non dall’assistenza antecedente e conseguente l’intervento». A differenza della legge 194 la legge 40 non impone agli ospedali e alle regioni di organizzarsi in modo da garantire in ogni caso la prestazione richiesta. E a differenza della 194 non è prevista l’ipotesi della decadenza dell’obiezione. Nei fatti è dunque prevista un’obiezione “caso per caso”: se vuole, il medico obiettore può fare trattamenti di fecondazione assistita o parti di tali trattamenti e poi tornare ad esercitare l’obiezione di coscienza.

Le ragioni dell’obiezione nell’ambito della riproduzione assistita potrebbero sembrare paradossali e contrastanti con quelle della 194: se non si praticano aborti perché quello alla vita è un diritto sacrosanto e a qualsiasi condizione, i difensori della vita dovrebbero essere favorevoli a far nascere bambini che altrimenti non nascerebbero. Ma la storia è più complicata: ha a che fare con la presunta “sacralità dell’embrione” e con le sentenze che nel tempo hanno di fatto smontato la legge.

Il divieto di fecondazione eterologa, quello di selezionare gli embrioni in caso di patologie genetiche, l’obbligo di impiantare al massimo tre embrioni tutti insieme e il divieto di accesso alle tecniche (e di conseguenza alla diagnosi pre-impianto) alle coppie fertili sono le parti della legge 40 che i tribunali, nel corso degli anni, hanno smontato. Questi cambiamenti potrebbero far nascere nuovi problemi di coscienza e far aumentare, in questo settore, i casi di obiezione di coscienza. Nella relazione annuale al parlamento del ministero della Salute sullo stato di applicazione della legge 40 non c’è però alcun riferimento all’obiezione di coscienza in questo settore e alle sue possibili conseguenze. Eppure il caso di Chieti ha mostrato che un problema c’è.

Altri tentativi di legalizzare l’obiezione di coscienza
Nel 2010 Ada Spadoni Urbani (senatrice del Pdl) presentò il disegno di legge numero 2121 per riconoscere la “clausola di coscienza” ai farmacisti nella vendita di farmaci per la contraccezione d’emergenza, per esempio la cosiddetta pillola del giorno dopo. Nel testo si spiegava come i farmacisti «anche se semplicemente dispensatori di farmaci» non potevano essere «costretti ad agire contro scienza e coscienza, quali semplici esecutori di scelte altrui». Il ddl, dal 2012, è fermo in commissione. Nel 2016 altri due deputati ci hanno però riprovato: il disegno di legge si chiama “Disposizioni concernenti il diritto all’obiezione di coscienza per i farmacisti” e comincia con una citazione dell’Enciclica Evangelium vitae di papa Giovanni Paolo II.

Va ricordato che le cosiddette “pillole del giorno dopo” non sono farmaci abortivi ma farmaci contraccettivi, come stabilito dall’Agenzia italiana del farmaco (Aifa) e dalla sua omologa europea (EMA): bloccano cioè l’effetto del progesterone, un ormone femminile che stimola la produzione delle proteine che determinano l’ovulazione. Per alcuni di questi farmaci, anche in Italia, non è più necessaria la ricetta.

Nel novembre del 2015 furono pubblicati i risultati di un’indagine nazionale condotta dalla società SWG di Trieste su un campione di donne di età compresa tra i 18 e i 40 anni e un campione di farmacisti sulla questione dei contraccettivi di emergenza e l’obbligo della ricetta. Il 18 per cento dei farmacisti intervistati aveva risposto che non avrebbe mai venduto una pillola per la contraccezione d’emergenza senza ricetta, indipendentemente dal regime di prescrizione previsto dalle norme. L’86 per cento dichiarava comunque di essere a conoscenza della direttiva dell’Aifa sul non obbligo della ricetta, ma il 46 per cento diceva di non condividerla sostenendo che le donne usano la pillola del giorno dopo con troppa facilità. Tra i motivi: quelli di ordine religioso (il 61 per cento dei farmacisti cattolici è contrario all’uso degli anticoncezionali d’emergenza) e di salute (il 53 per cento dei farmacisti sostiene che gli anticoncezionali di emergenza possano essere pericolosi).

Tre diverse obiezioni, e le conseguenze
Quella che in tutti e tre i contesti legislativi che abbiamo raccontato è chiamata con lo stesso nome, e cioè “obiezione di coscienza”, non segue in realtà una ratio comune. Il concetto stesso di “obiezione di coscienza” è vago e ambiguo e quello che concretamente significa e comporta dipende dunque dal contesto legislativo in cui è stato inserito, da come quella precisa legge è stata pensata e scritta, dalla natura della cosa a cui ci si sottrae e dal conflitto che si crea tra i differenti diritti dei soggetti coinvolti. Proprio per tutte queste complicazioni una difesa generalista e aprioristica del concetto di “obiezione di coscienza” è poco convincente.

La prima differenza fra le tre obiezioni ha a che fare con i diritti e i corpi delle persone coinvolte e con le situazioni concrete in cui ci si ritrova. Nella sperimentazione animale il diritto dell’obiettore e quello dell’animale non sono in contrapposizione. Poniamo però che siano i diritti alla salute dell’intera umanità ad essere in contrapposizione con i diritti dell’obiettore di coscienza così come, con una similitudine un po’ azzardata, potrebbero essere i diritti alla difesa di un intero paese ad essere in contrasto con la scelta di chi obietta la leva. Entrambe queste due ipotesi, spiega Chiara Lalli nel suo libro, sono ben diverse dalla concretissima situazione di una donna incinta che si ritrova nello studio di un medico che le nega la prescrizione di un farmaco o la procedura dell’interruzione della gravidanza.

Le conseguenze di queste diverse forme di obiezione non sono indifferenti, così come non lo sono i possibili esiti. Prima della legge 772 l’obiettore al servizio militare veniva punito con la prigione; il mancato adempimento delle mansioni di un obiettore alla sperimentazione animale avrebbe potuto portare, prima della specifica legge, a un licenziamento. Ma qual è la “punizione” per le donne che non potevano o non possono ancora oggi ricorrere a un’interruzione sicura e legale? La prigione (prima della 194), una multa (dopo la 194, ci arriviamo), la possibilità di morire (prima e dopo la 194). LAIGA (Libera associazione italiana ginecologi per l’applicazione del 194) ricorda che ci sono regioni in Italia (tra queste l’Emilia Romagna, la Toscana o la Lombardia) che non riconoscono il tesserino ENI per il diritto all’assistenza sanitaria per una certa categoria di cittadini e cittadine di un paese dell’Unione Europea (i rumeni, ad esempio). Queste stesse regioni chiedono 1.200 euro per un aborto sicuro e legale, cifra che spesso le donne migranti non hanno e che può spingerle a mettere a rischio la propria salute e la propria vita “risparmiando sul prezzo” ed eseguendo clandestinamente l’aborto.

Non solo: il codice Rocco puniva «l’aborto procuratosi dalla donna» con la reclusione da uno a quattro anni. La 194 ha depenalizzato l’aborto clandestino ma ha un articolo, il numero 19, che è un residuo del codice fascista: dice che «la donna è punita con la multa fino a lire centomila». Nel decreto legislativo varato in Consiglio dei ministri lo scorso gennaio, firmato da Matteo Renzi, Andrea Orlando e Pier Carlo Padoan e entrato in vigore il 6 febbraio, è previsto un inasprimento delle multe. All’articolo 1 in materia di depenalizzazione di reati puniti
 con la sola pena pecuniaria, si spiega che non costituiscono reato e sono soggette alla sanzione amministrativa del pagamento di una somma di denaro tutte le violazioni per le quali è prevista la sola pena della multa o dell’ammenda. Tra queste rientra quanto previsto dal secondo comma dell’articolo 19 della legge 194. Quindi, d’ora in poi, le donne che interromperanno la gravidanza in strutture non accreditate o con medici non autorizzati – perché ad esempio non possono permettersi di fare altrimenti – saranno punite con multe che vanno dai 5 mila ai 10 mila euro.

La legge sull’obiezione di coscienza al servizio militare stabiliva poi un’alternativa: lo stato rispettava e riconosceva alcune personali ragioni di sottrazione alla legge, ne ammorbidiva le conseguenze penali e civili e offriva un’opzione (il servizio civile). La legge sull’obiezione alla sperimentazione animale segue un principio simile: insiste sull’offerta di modalità alternative alla sperimentazione con gli animali, le promuove, e prevede comunque il ricollocamento a parità di condizioni. In entrambi questi casi le conseguenze di una sottrazione personale alla norma ricadono (anche) su chi fa la scelta di sottrarsi. Per chi sceglie l’obiezione che ha a che fare con il diritto all’autodeterminazione delle donne non sono invece previsti oneri compensativi, anzi: a volte le cose sono paradossalmente ribaltate e chi non obietta spesso fatica a crescere professionalmente. L’obiezione in campo medico e sanitario è dunque l’unico caso in cui, di fatto, le conseguenze della scelta dell’obiezione non ricadono su chi fa quella scelta, ma lo premiano.

Il servizio militare volontario ha letteralmente svuotato di senso l’obiezione di coscienza (e se ci sarà una carenza di militari se ne riparlerà, come già hanno fatto alcuni paesi). Pur non essendoci delle stime sugli obiettori alla pratica della sperimentazione animale si può affermare con certezza che non esista un’emergenza di erogazione di servizi o di raggiungimento degli obiettivi per carenze in questo settore. Il contesto della legge 194 non prevede invece deterrenti significativi e sistematici contro gli abusi e contro il rischio che l’opzione della coscienza porti alla compromissione o alla perdita di un diritto garantito per legge. Visto il disequilibrio tra le cifre di obiettori e non obiettori, almeno il dubbio che la mobilità a cui le regioni possono fare ricorso non si sia rivelata sufficiente potrebbe venire: e nell’ipotesi estrema in cui tutti i medici fossero obiettori a che cosa servirebbero i trasferimenti? A niente: l’obiezione avrebbe a quel punto completamente fagocitato la norma ed è a causa di questo rischio che nel 2014 l’Europa ha richiamato l’Italia.

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(La bacheca nella reception degli ambulatori, compresi quelli di ginecologia, dell’ospedale pubblico di San Bonifacio, in provincia di Verona)

Nel dicembre del 2016 è stata trasmessa al parlamento la Relazione contenente i dati definitivi relativi agli anni 2014 e 2015 sull’attuazione della 194 (si può leggere qui). Si dice che gli aborti sono diminuiti e che sono in diminuzione anche i tempi di attesa. Riguardo l’esercizio dell’obiezione di coscienza e l’accesso ai servizi IVG «si conferma quanto osservato nelle precedenti relazioni al parlamento: su base regionale e, per quanto riguarda i carichi di lavoro per ciascun ginecologo non obiettore, anche su base sub-regionale, non emergono criticità nei servizi di IVG».

La relazione dice che nel 2014 le quote di obiettori e non obiettori si sono stabilizzate, dopo un notevole aumento negli anni precedenti. Si è passati dal 58.7 per cento del 2005 al 70.7 per cento di media nel 2014. In alcune regioni gli obiettori raggiungono quasi il 90 per cento. Tra gli anestesisti la situazione è più stabile con una variazione da 45.7 per cento nel 2005 a 48.4 per cento nel 2014. Per il personale non medico si è osservata nel 2014 una leggera diminuzione (45.8 per cento nel 2014 rispetto a 46.5 per cento del 2013), dopo l’incremento osservato dal 2005 (38.6 per cento). La relazione dice anche che il numero degli obiettori di coscienza nei consultori «è sensibilmente inferiore rispetto a quello registrato nelle strutture ospedaliere».

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La relazione introduttiva del ministero è dunque rassicurante: non ci sono particolari problemi («pur persistendo una non trascurabile variabilità fra le regioni») e «il numero dei non obiettori nelle strutture ospedaliere sembra congruo rispetto alle IVG effettuate». I dati ministeriali andrebbero però accostati ad altri dati o ad altre considerazioni, tralasciando il fatto che nonostante per il ministero non siano preoccupanti diverse organizzazioni internazionali fanno notare che sono tra i più alti al mondo.

Gli aborti clandestini esistevano prima ed esistono ancora. L’Istituto Superiore di Sanità ha fatto una stima nel 2012: risultano tra i 12 mila e i 15 mila casi. Sui dati del ministero che testimoniano una diminuzione di IVG su base annua ha poi influito il fatto che l’AIFA abbia eliminato, per le maggiorenni, l’obbligo di prescrizione medica della cosiddetta “pillola dei cinque giorni dopo”. I dati di vendite di questo farmaco mostrano infatti un incremento significativo nel 2015 rispetto agli anni precedenti (7.796 confezioni nel 2012, 11.915 nel 2013, 16.796 nel 2014 e 83.346 nel 2015).

Nel 2014 a livello nazionale il numero totale delle strutture che effettuano IVG (lo dice sempre il ministero) corrisponde solo al 59.6 per cento del totale delle strutture con reparto di ostetricia e ginecologia. A livello regionale, risulta poi che in due casi sia presente un numero di strutture disponibili inferiore al 30 per cento. La legge prevede il diritto di obiezione solo per i singoli medici, non per intere strutture e significa che ognuna di queste dovrebbe essere in grado di garantire comunque il servizio. Per quanto riguarda i consultori, come ha dovuto ribadire una recente sentenza del TAR del Lazio, l’obiezione non può essere prevista per alcune importanti procedure che possono precedere un’IVG: i medici che lavorano nei consultori devono garantire alle donne che scelgono di abortire i certificati necessari per l’operazione e non possono opporsi alla prescrizione dei contraccettivi, compresi quelli di emergenza (la cosiddetta “pillola dei cinque giorni dopo” e la “pillola del giorno dopo”). In Italia, invece, accanto ai consultori pubblici ci sono i consultori privati accreditati, che sono per lo più cattolici ma sostenuti con fondi pubblici. In moltissimi casi né i consultori pubblici né quelli privati e accreditati garantiscono tutti i servizi di cui dovrebbero beneficiare le donne.

Oltre i dati c’è dunque una situazione in cui approfittando di una parte della legge e della presunta universalità del diritto all’obiezione di coscienza si è cercato di costruire un’obiezione concretissima e sistemica in cui le donne si trovano incastrate e da cui le regioni si devono difendere appellandosi di continuo ai tribunali per poi veder ribadita la norma o organizzando concorsi specifici, come a Roma. Tutto questo tenendo presente che c’è un’ultima e fondamentale differenza fra le tre obiezioni che sono state normate in Italia: riguarda le categorie di obbligo e di libera scelta. In un caso, almeno all’inizio, l’obiezione di coscienza aveva a che fare con un obbligo (quello del servizio di leva). Negli altri due casi l’obiezione ha invece a che fare con la libera scelta di ciascuno e di ciascuna, anzi con due libere scelte: quella di fare quel determinato mestiere e quella di farlo in un preciso luogo di lavoro. Fare il ginecologo non è un obbligo. Come non lo è il fatto di esercitare in una struttura pubblica. L’obiezione poteva avere senso al momento dell’approvazione della legge, quando cioè nelle strutture pubbliche lavoravano già dei medici, degli anestesisti e degli operatori sanitari che avevano intrapreso quella carriera in un contesto in cui l’aborto era illegale. Ed è anche su questi argomenti che si regge la posizione di chi chiede che l’obiezione venga eliminata dalla 194:

«Chi oggi sceglie di studiare medicina e poi sceglie di specializzarsi in ginecologia (o in anestesia) sa che nel nostro stato il diritto delle donne a interrompere una gravidanza in modo sicuro per la loro salute è sancito da una legge che sta per compiere 40 anni, sa quindi che tra le mansioni previste per un medico che operi nel servizio pubblico c’è anche quella di effettuare le IVG. Se la sua coscienza lo rende contrario all’aborto dovrebbe ripensare alle proprie scelte professionali optando per un’altra specializzazione o non partecipando a concorsi per lavorare nel servizio pubblico. Come per altre professioni non dovrebbe essere consentito l’accesso a persone che per motivi di coscienza non possono garantire l’espletamento di mansioni proprie di quella professione».