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L’obiezione di coscienza non può essere legale

Il bel libro di Chiara Lalli riassume la storia italiana del rifiuto a obbedire alla legge e spiega perché quindi non può essere una legge

di Chiara Lalli

Provate a domandarvi: «Chi sono gli obiettori di coscienza?».
In molti mi hanno risposto: «I medici che non vogliono eseguire aborti per ragioni di coscienza». La risposta è parziale e approssimativa.
C’è di mezzo anche una questione anagrafica: oggi, al contrario di qualche tempo fa, di obiezione di coscienza si parla soprattutto in campo sanitario. Inoltre l’interruzione di gravidanza è uno dei temi più controversi dal punto di vista morale.
La risposta però è soprattutto l’effetto di un profondo cambiamento semantico avvenuto in questi anni. Questo cambiamento è stato consacrato quando il diritto all’obiezione di coscienza è entrato come diritto positivo nelle leggi italiane: prima con il servizio civile alternativo alla leva, poi con la legge 194 sull’interruzione volontaria di gravidanza e la legge 40 sulle tecniche riproduttive.
Fino ad allora chi sceglieva l’obiezione di coscienza si opponeva a una legge, a un divieto o a un’imposizione. Era un reo. Poi sono stati tracciati dei confini legali. Una specie di riserva in cui gli obiettori potevano essere addomesticati. L’obiezione di coscienza è entrata nel sistema normativo e l’obiettore, seppure a certe condizioni, è stato autorizzato dalla legge.
Questo non significa che l’oggetto dell’obiezione di coscienza non possa intrinsecamente essere permesso dalla legge (dipenderà dall’oggetto stesso e dalle sue implicazioni), ma se la rivendicazione ci appare giusta dovremmo chiamarla in modo diverso quando la legge la permette: libertà, opzione, facoltà.
Il primo disappunto è quindi formale, terminologico, ma intrecciato strettamente e inevitabilmente all’aspetto semantico.

Qual è il significato originario dell’obiezione di coscienza?
L’obiezione di coscienza è un esempio illuminante dei rapporti tra le scelte individuali e le leggi dello Stato; tra l’ambito normativo e lo spazio della nostra morale. La libertà di scelta altrui non è minacciata dalla decisione dell’obiettore genuino, se non in un senso debole per cui ogni nostra azione riguarda anche gli altri. Il conflitto non è tra un singolo e l’altro, ma tra un singolo e l’obbligo di rispettare un divieto o un ordine la cui violazione non lede il diritto di qualcuno in senso forte. Non è un diritto positivo, ma un modo per «sottrarsi» – in via eccezionale – a una qualche norma. Anteporre un dovere morale a una legge comporta però un prezzo da pagare, spesso molto alto. L’obiezione di coscienza, inoltre, è un’azione pacifica e individuale.
Se l’obiezione fosse autorizzata da una legge, smetterebbe di essere obiezione di coscienza e diventerebbe un’espressione della libertà individuale. In questo dominio, sarò un vero obiettore se la legge prevede soltanto x e io compio y oppure non compio x; se la legge prevede sia x che y (o z e così via) non farò che esercitare la mia libera scelta prevista e garantita dalla legge. La questione non è, ovviamente, meramente terminologica.
Il profilo dell’obiettore ha infatti subìto negli ultimi anni un vero e proprio stravolgimento e oggi l’obiezione di coscienza è spesso usata, senza troppi complimenti, come un ariete per contrapporsi a diritti individuali sanciti dalla legge. È frequente che lo scontro sia tra un singolo e l’altro: «I medici che non vogliono fare aborti per ragioni di coscienza» entrano direttamente e personalmente in conflitto con le donne che richiedono quel servizio previsto dalla legge 194.
La manipolazione del suo significato è compiuta: l’obiezione di coscienza è spesso brandita come arma contro l’esercizio delle singole volontà. È un destino buffo per uno strumento dal sapore liberale e libertario, più affine all’individualismo e alla disobbedienza civile che all’autoritarismo e al moralismo legale.
Antigone è un’incarnazione esemplare dell’obiezione di coscienza. Antigone è la protagonista dell’omonima tragedia di Sofocle. Non è importante qui affrontare la sterminata letteratura critica in merito né analizzare le diverse versioni che la figura di Antigone assume nelle rappresentazioni successive. Ciò che è interessante è la sua scelta come esempio di una genuina obiezione di coscienza, cioè come opposizione di un singolo a una legge giudicata ingiusta e disumana, un’opposizione solitaria e rischiosa perché contraria all’ordine costituito. Antigone disobbedisce a Creonte e rivendica la sua scelta, accettando di pagarne le conseguenze. Non indagherò a fondo nemmeno il conflitto tra Antigone e Creonte inteso come conflitto tra due visioni inconciliabili del rapporto tra la morale e il potere. Alla domanda «chi ha ragione?» Giuliano Pontara ha proposto tre possibili interpretazioni. In una delle tre, Pontara sottolinea un aspetto centrale dell’obiezione di coscienza: accettare le conseguenze delle proprie scelte.

Non è tanto alla politica in quanto tale che Antigone dice di no, quanto piuttosto alla concezione della politica e al modo di far politica propri di Creonte. Ciò che essa rifiuta è la politica come realpolitik e quello che fa valere contro Creonte è che egli avrebbe potuto e dovuto dire di no, non alla politica, ma ai metodi con cui scelse di praticarla nel momento preciso in cui decise di ricorrere alla pena di morte e alla violenza.

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L’opposizione di Antigone al divieto e il suo rifiuto di sconti della pena o di trattamenti di favore sono due condizioni necessarie per definire il suo comportamento come obiezione di coscienza. Dopo la morte di Edipo la reggenza di Tebe è affidata ai suoi due figli, Eteocle e Polinice. I piani però non vanno come previsto e Polinice, appoggiato da Argo, cerca di eliminare il fratello per impadronirsi del potere. La guerra civile insanguina Tebe e i due fratelli finiscono per uccidersi l’un l’altro. Creonte, fratello di Giocasta, prende il potere.

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