“I sette samurai” sono stati poi molti di più

Pochi film nella storia del cinema sono stati più influenti, omaggiati e copiati di quello, monumentale, che Akira Kurosawa diresse 70 anni fa

di Gabriele Niola

Il 26 aprile del 1954 uscì nei cinema giapponesi I sette samurai, il quindicesimo film della carriera del regista Akira Kurosawa, iniziata prima della Seconda guerra mondiale e diventata internazionale solo dopo, nel 1951 con Rashomon, anche quello un film di samurai. I sette samurai ebbe però una circolazione e un successo molto superiori, soprattutto nei decenni successivi alla sua uscita, e specialmente negli Stati Uniti, influendo sul cinema hollywoodiano così tanto da cambiare sia la figura dell’eroe classico sia molte convenzioni riguardo a come si fa cinema d’azione.

Oggi molto di quello che si produce di spettacolare nel cinema contiene snodi narrativi, idee formali ed espedienti tecnici inventati in I sette samurai. Il numero di film o serie che hanno preso qualcosa da quel film, ormai spesso senza nemmeno saperlo, è incalcolabile e lo rendono uno dei più rifatti, copiati e imitati di sempre. Questo nonostante a partire dalla sua prima proiezione e fino agli anni Ottanta sia circolata una versione molto tagliata rispetto alle tre ore e mezza originali, nella speranza dei produttori di rientrare dei grandi capitali investiti. Così tante erano le parti, i personaggi e le scene sacrificate che per decenni a stento si potevano contare sette samurai nel film.

Nel momento in cui I sette samurai uscì, il mondo del cinema era interessato dalla moda dei film in costume giapponesi. Storicamente il cinema in Giappone è sempre stata un’industria forte, ma fino agli anni Cinquanta non esportava, viveva solo di mercato interno. Il cambiamento arrivò proprio con film come Rashomon, inviati ai grandi festival come quello di Venezia (che all’epoca era il più importante del mondo), molto premiati e da lì acquistati e distribuiti in diversi paesi. Ci fu un periodo durante gli anni Cinquanta in cui nessun grande festival di cinema poteva permettersi di non avere un film giapponese e Kurosawa era il più desiderato tra gli autori giapponesi. Specialmente dopo che Rashomon vinse il Leone d’oro nel 1951 dopo essere stato incluso nel festival in segreto: nemmeno Kurosawa lo sapeva e infatti a Venezia non c’era nessuno ad accompagnarlo e promuoverlo.

La ragione è che dopo la Seconda guerra mondiale produrre film ambientati nel passato era stato proibito in Giappone. Come anche in Italia gli americani, in seguito alla vittoria della guerra, avevano mantenuto un potere di censura e supervisione sul cinema locale. Il Supreme Commander for the Allied Powers aveva due sottoaree dedicate ai media: CIE (Civil Information and Education Section) e CCD (Civil Censorship Detachment). La ragione per la quale i film ambientati nel passato venivano bloccati era che non dovevano essere prodotte opere patriottiche, e queste spesso lo erano. Generi e simboli tradizionali erano vietati, non si poteva filmare il monte Fuji, non si poteva riprendere una katana (la tipica spada da samurai). Si potevano girare solo film ambientati nel presente, ma anche per quelli un limite gli americani lo avevano posto: non si poteva parlare di bombe atomiche.

Il successo mondiale di Rashomon e il fatto che fossero ormai passati alcuni anni dalla fine della guerra concluse questa forma di controllo americana sul cinema giapponese, e l’industria cominciò quindi a investire molto sui film di samurai, vista la domanda internazionale che si era creata. I sette samurai doveva essere l’apoteosi di tutto questo, il film più grande da una delle case di produzione più importanti: la Toho.

Il professore di storia del cinema Dario Tomasi, nel suo libro Il cerchio e la spada, racconta come la lavorazione fu «titanica, per un film che sarebbe stato per tantissimi anni a seguire il più costoso mai fatto in Giappone», precisando che in un’epoca in cui un film costava in media 26 milioni di yen, I sette samurai ne costò 125 milioni (circa 4 milioni di euro di oggi). Le cause furono il maltempo e diversi problemi logistici. Kurosawa poi non aveva intenzione di risparmiare. Sapendo che i costi sarebbero andati anche oltre il previsto, scelse di filmare prima tutte le scene sacrificabili, quelle cioè che se fossero state le ultime da girare la produzione gli avrebbe impedito di fare, e lasciò per ultima la grande battaglia finale, che era invece indispensabile.

La storia del film infatti tende tutta verso questo grande scontro. Un villaggio di contadini è minacciato e periodicamente derubato da un gruppo di predoni. I contadini, essendo poveri, rischiano che la prossima incursione, una volta terminato il raccolto, non lasci loro più niente e li condanni a morte. Alcuni di loro vanno quindi in città, disperati, a cercare aiuto presso qualche samurai, ovvero guerrieri di professione, esperti e specializzati, simili ai cavalieri del Medioevo europeo, di regola al servizio di un signore e più raramente liberi.

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Ne trovano uno maturo e senza padrone, il quale nonostante i contadini non abbiano niente per pagarlo se non del riso, accetta a patto di trovare altri sei come lui, senza i quali sarebbe impossibile affrontare i quaranta predoni. Reclutati in loco altri cinque samurai più un ex contadino con ambizioni di diventarlo, il gruppo va nel villaggio e lì prepara la difesa, addestra i contadini, vive con loro, impara a conoscerli e alla fine, nell’arco di due giorni, combatte il grande scontro.

Terrorizzata sia da quella durata di tre ore e mezza, e quindi dal costo da cui temeva di non riuscire a rientrare, sia da alcune prese di posizione del film, la Toho tagliò 47 minuti passando dai 207 del montaggio originale di Kurosawa a 160 circa. Altri paesi poi lo tagliarono ulteriormente per distribuirlo. In Italia per esempio uscì in una versione da 130 minuti. A essere sacrificate, non casualmente, furono tutte le scene in cui i samurai non sono eroici, ma in cui invece si descrivono come degli sconfitti dalla vita, e i contadini si dimostrano più nobili di loro. Per la prima volta, e in un film così grande e importante, i samurai non combattevano per la giustizia ma per redimere se stessi e la propria categoria. Nella versione completa infatti parte della storia racconta come i contadini fossero spaventati dai samurai, perché questi di solito violentavano le donne, rubavano i loro raccolti e padroneggiando la violenza e le armi imponevano il loro volere.

Tra le scene che furono tagliate ce n’era una in cui il samurai più saggio spiega a quello più giovane: «Ho perso tutte le battaglie in cui mi sono trovato […] Ci hanno sempre ripetuto: “Allenatevi, distinguetevi, diventate dei signori della guerra!”. Consumiamo l’esistenza in questa vana ricerca, giunge la vecchiaia e ci troviamo con un pugno di mosche in mano…». Mentre in un’altra l’aspirante samurai ed ex contadino, interpretato dalla star del film Toshiro Mifune, accusa gli altri suoi compagni in uno sfogo che giustifica l’atteggiamento timoroso e poco altruista dei contadini: «Chi ha reso i contadini così rapaci? Voi! Dannati samurai, che bruciate villaggi e raccolti, violentate le loro donne, razziate le loro provviste!». Era una prospettiva anti-tradizionale, molto radicale per la società giapponese dell’epoca ed estremamente revisionista.

Tuttavia, anche se molto accorciato, I sette samurai fu un successo. In Giappone incassò alla fine 269 milioni di yen, più del doppio del suo costo, ma fu presto dimenticato e superato già tre anni dopo dagli incassi di altri film impegnativi e costosi. Alla fine degli anni Cinquanta non sarebbe stato nemmeno tra i venti migliori incassi del decennio. Nel mondo invece continuò a girare per tantissimi anni, finendo per influenzare registi e sceneggiatori americani in particolare. I film di samurai sono molto simili a quelli western, prevedono persone che portano da sole giustizia là dove non c’è e si fondano sulla destrezza del protagonista, il suo coraggio e scelte morali di vita e di morte. I casi di remake e adattamenti dall’uno all’altro genere sono tantissimi ma I sette samurai in particolare colpì sia per la storia sia soprattutto per come era fatto.

Sei anni dopo la sua uscita, nel 1960, John Sturges adattò in western quella versione tagliata, più ottimista e meno critica, facendo I magnifici sette, con un successo molto superiore all’originale anche per la superiore capacità del cinema americano di penetrare qualsiasi mercato del mondo. Nel 1961 quel tipo di samurai cinico e antieroico Kurosawa lo ripropose in un altro film, La sfida del samurai, che fu poi adattato quasi scena per scena da Sergio Leone in Per un pugno di dollari (tanto che poi Kurosawa fece causa per plagio e la vinse). Anche Per un pugno di dollari ebbe più successo dell’originale e fu il film attraverso cui le idee nate prima di tutto in I sette samurai influenzarono tutto l’eroismo del western e del cinema d’azione futuro. A partire da Guerre stellari, modellato su questi due film di Kurosawa e su un terzo, La fortezza nascosta.

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Ancora più presenti ovunque sono i singoli elementi del film. Già nel 1965 Orson Welles per il suo Falstaff, in difficoltà con il budget, imitò la maniera in cui Kurosawa riprendeva i grovigli di cavalli e colluttazioni per far sembrare di avere più comparse; nel 1967 invece Quella sporca dozzina riprese e rese uno standard il topos narrativo della “composizione della squadra”, quando qualcuno recluta dei collaboratori, ognuno con una specializzazione, andandoli a pescare mentre fanno quello per cui gli servono. La soluzione è così diffusa, usata e copiata che anche in Blues Brothers è così che viene rimessa insieme la band. Infine nel 1969 Sam Peckinpah girò Il mucchio selvaggio, uno dei western di maggiore impatto in assoluto, dichiarando di volerlo fare come Kurosawa faceva i suoi film di samurai.

L’espediente più noto e moderno che si trova in I sette samurai tuttavia è quello della morte al rallentatore, quando cioè una scena d’azione con una vittima, invece di essere molto veloce, è mostrata al ralenti. Il mucchio selvaggio lo usa nella sua scena finale, ma in seguito cineasti come Zack Snyder e John Woo l’hanno reso un tratto caratteristico del loro stile e più in generale è ormai una convenzione del cinema spettacolare. Sylvester Stallone l’ha usato per i combattimenti di Rocky (a partire dal secondo film della saga) e l’effetto bullet time di Matrix è una variazione su quell’idea di un tempo che scorre diversamente.

Con il passare dei decenni queste e molte altre convenzioni del linguaggio cinematografico inventate da I sette samurai si sono diffuse a un livello tale che è impossibile tenere traccia dei molti film che le sfruttano. Il canale YouTube di Fandor qualche anno fa mostrò in un video come alcuni dei film più famosi in assoluto dell’epoca moderna, e anche in teoria molto lontani da I sette samurai (Il Signore degli Anelli, Matrix, Django Unchained o Mad Max: Fury Road), abbiano sfruttato inquadrature e soluzioni formali di quel film.

È invece più facile da notare come l’impostazione della storia ancora oggi venga spesso ripresa da film di tipo diverso. È accaduto una delle ultime volte nella serie The Mandalorian, in cui c’è un episodio che racconta di un villaggio vessato e del protagonista che decide di addestrare i contadini e con loro combattere i nemici. Ma anche nei due grandi film di fantascienza Rebel Moon di Zack Snyder, usciti in questi mesi su Netflix e fondati su una storia di contadini, predoni e una squadra di eroi che decidono di combattere con loro. Addirittura anche nel cartone animato della Pixar A Bug’s Life si trova lo spunto di un piccolo nucleo di personaggi deboli minacciati da qualcuno di più forte, e del viaggio che i protagonisti decidono di fare in cerca di un aiuto.

La versione completa del film, cioè il montaggio originale di Akira Kurosawa da 207 minuti, cominciò a circolare solo a partire dal 1980, quando un distributore francese decise di recuperarla e riportarla al cinema. In Italia è stata trasmessa in televisione negli anni Novanta e poi è diventata l’unica in circolazione dopo le prime edizioni in DVD e Blu-ray.