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  • Martedì 8 novembre 2016

“For the lulz”

Come i troll e la voglia di "farsi due risate" online, alimentata soprattutto dai sostenitori di Trump, è diventata centrale in questa campagna elettorale americana

di Caitlin Dewey – The Washington Post

Il meme sul voto online in Pennsylvania (Facebook)
Il meme sul voto online in Pennsylvania (Facebook)

Di solito l’ufficio del procuratore generale della Pennsylvania non indaga sui meme. Ma quando circolano immagini virali che sembrano pensate per ostacolare il voto in un’elezione, il procuratore generale le prende sul serio, come nel caso del meme sul “voto online” che nelle ultime settimane è girato molto su Facebook, Twitter e Instagram statunitensi. L’immagine ha una grafica dall’aspetto ufficiale e informa gli elettori del Partito Democratico in Pennsylvania del fatto che martedì 8 novembre – giorno delle elezioni – per votare è sufficiente scrivere nello status del proprio social network preferito la parola “Hillary”.

Ovviamente le elezioni non funzionano come un reality show e in nessuno stato si può votare usando un hashtag, motivo per cui il meme ha fatto indignare sia i sostenitori di Clinton che l’amministrazione locale della Pennsylvania. Sembra che il meme non fosse un tentativo di truccare volutamente il risultato delle elezioni, ma l’azione calcolata e infantile di alcuni troll che probabilmente si erano chiesti se qualcuno si sarebbe fatto fregare; cioè se qualcuno avrebbe reagito in modo da dare legittimità allo scherzo, trasformandolo così in una vera notizia. «L’ho visto su Twitter, l’ho trovato divertente e l’ho condiviso per ridere», ha detto Rick Barbee, uno dei primi a condividere il meme sul “voto online” al di fuori dell’unico posto in cui poteva nascere, 4chan. In altre parole, Barbee ha condiviso il meme per farsi due risate o, come direbbero in inglese, for the lulz: d’altra parte stiamo vivendo l’elezione del lulz.

Il lulz, inteso come forma peculiare e unica di schadenfreude della nostra epoca, è quel piacere distaccato e perverso che viene suscitato quando si turba o si imbroglia un’altra persona online per divertimento. Il termine ha cominciato a spuntare sulle bacheche di 4chan e in alcune chat su internet intorno al 2006, prima come innocua storpiatura di “lol” e poi come abbreviazione per indicare le gioie sadiche dei troll online. Che gusto c’è a far piangere un bambino di nove anni su YouTube o tappezzare Second Life di immagini razziste? Per farsi due risate, ovviamente (secondo l’Encyclopedia Dramatica, una sorta di Wikipedia satirica, «su internet dire di aver fatto qualcosa “per ridere” è una scusa totalmente accettabile per qualsiasi cosa»).

In uno dei periodi storici più politicamente polarizzati che la storia ricordi, però, questa tendenza è diventata molto di più che una giustificazione infantile: è l’approccio predefinito con cui ci si relaziona con persone che hanno opinioni opposte alle proprie. È un modo di vedere il mondo, una mentalità e una filosofia politica. Un tentativo deliberato di sventare qualsiasi forma di dialogo civile, radicato nel cinismo, nel distacco e nella più assoluta misantropia. Le bufale e la disinformazione fanno parte del problema, come anche le tradizionali tecniche dei troll appartenenti alle sottoculture. Ma la cultura del lulz ha anche alimentato – e spiegato, a volte – il vertiginoso aumento dei discorsi razzisti, sessisti e antisemiti a cui abbiamo assistito quest’anno. «In quest’elezione la cultura del lulz è emersa come mai prima d’ora», ha detto Whitney Phillips, docente di studi letterari alla Mercer University e co-autrice di un libro in uscita sui troll di internet: «ma è pericoloso inquadrarlo come un fenomeno in qualche modo diverso o distinto dall’estremismo vero e proprio. Che lo si faccia o meno per farsi due risate, il messaggio rimane quello».

Ovviamente il fenomeno riguarda entrambi i lati dello spettro politico americano, e non c’è dubbio che anche i troll di sinistra che hanno aderito alla tendenza del lulz siano riusciti ad assestare dei buoni colpi durante questa campagna elettorale (di recente Paul Horner, un famoso creatore di bufale che si diverte a prendersi gioco degli elettori conservatori con articoli falsi, ha raccontato su Facebook di riuscire a fatica a contenere «la gioia e le risate»). Ma i troll, spiega Phillips, sono come le persone che rovistano tra i rifiuti e vengono attratti da quelle crepe nella cultura in grado di suscitare più rabbia. In questa elezione i temi capaci di farlo tendono a finire nel territorio preferito della destra. Pensate alle preoccupazioni intorno a temi come la questione etnica, la classe, il genere, la violenza sessuale, l’orientamento sessuale e la religione. Fin dai primi giorni della sua campagna elettorale, Donald Trump è stato fomentato da una schiera di fedeli che su 4chan hanno fatto circolare meme, svastiche e slogan elettorali con la stessa irriverenza. La loro ricerca del lulz è esplicita: fanno girare hashtag sull’abrogazione del 19esimo emendamento della Costituzione americana – quello che sancisce il diritto di voto delle donne – e sull’arruolamento delle donne nell’esercito solo per provocare le femministe; affiancano la stella di David a immagini di Clinton con lo scopo di «offendervi nel caso in cui siate progressisti, politicamente corretti, femministi, democratici o Piers Morgan [un giornalista britannico molto conosciuto negli Stati Uniti]», per usare le parole nella bio di Twitter di uno di questi troll.

Oltre a essere diventati molto popolari su internet a forza di hashtag, i punti di riferimento di queste persone – come Mike Cernovich, un blogger di destra, e Milo Yiannopoulos, il responsabile della sezione tecnologica di Breitbart, sito di news americano molto conservatore – sono ormai tra le figure più importanti del movimento di Trump nel mondo reale. Cernovich è un ex donnaiolo, è stato uno dei principali responsabili della diffusione delle bufale sulla salute di Clinton e incoraggia i suoi seguaci ad attenersi alla massima «il conflitto è attenzione» e «l’attenzione è influenza». Yiannopoulos, invece, è famoso per essere stato sospeso da Twitter dopo aver incitato le molestie razziste nei confronti dell’attrice Leslie Jones, accuse dalle quali si è difeso sostenendo di essere «uno a cui piace fare scherzi». In altre parole le sue molestie verso Jones erano una specie di scherzo nichilistico, una metafora della cultura online.

Fingere che la cultura del lulz sia confinata esclusivamente a internet, tuttavia, sarebbe un errore, vista la regolarità con cui i suoi sintomi emergono in altre sfere della vita pubblica. I sostenitori di Trump hanno iniziato a indossare magliette con la scritta “Trump that bitch” ( “sconfiggi quella stronza/puttana”), apparentemente con il solo scopo di vedere quale sconosciuto si sarebbe turbato («Voglio solo far ridere e attirare l’attenzione», ha raccontato alla giornalista del Washington Post Jenna Johnson una persona che aveva comprato la maglietta, a giugno). A un comizio di Trump in Arizona di qualche settimana fa, un uomo che indossava una maglietta con la scritta “Hillary for Prison” (“Hillary in prigione” un altro gioco di parole, questa volta riferito a “Hillary for President“) ha iniziato a intonare il coro “Jew-S-A” (un incrocio tra “Jew“, “ebreo”, e “U-S-A”) davanti all’area riservata ai giornalisti, per poi negare che il suo fosse un coro antisemita. Il giorno dopo, a un altro comizio, questa volta a Las Vegas, l’uomo che doveva presentare Trump ha lasciato di sasso il pubblico fantasticando in modo grottesco sulla morte di Clinton in un incidente d’auto. Il filo rosso che collega tutti questi provocatori è il fatto che nessuno di loro è necessariamente sincero, o se lo è la sua sincerità è un elemento marginale, che viene molto dopo il desiderio di ingannare, offendere e schernire. I meme sul “voto online” in Pennsylvania ne sono solo l’ultimo esempio: in molti casi i sostenitori di Trump che lo hanno condiviso parlavano di ostacolare o revocare il diritto di voto, ma c’è poco che lasci pensare che le loro chiacchiere fossero serie. «Sono come i bulli alle elementari che fanno certe cose per far ridere», ha detto Brooke Binkowski, caporedattrice del sito Snopes, che si occupa di sfatare bufale e teorie del complotto.

Per sfortuna dei bulli da scuola del movimento di Trump – e in contrasto con la definizione di Encyclopedia Dramatica – giustificare le proprie azioni dicendo erano state fatte “per farsi due risate” non sembra rasserenare nessuno. Gli utenti di internet capiscono sempre di più come i danni provocati da queste trovate siano reali, a dispetto delle intenzioni di chi le diffonde. Nell’internet dell’alt-right, il movimento conservatore americano alternativo alla destra tradizionale, non si riesce a capire se l’obiettivo sia davvero “farsi due risate” oppure coprire forme di estremismo più intransigenti.

L’ufficio del procuratore generale della Pennsylvania ha confermato al Washington Post di aver avviato un’indagine sul meme del “voto online” dopo che a un certo punto il meme era stato condiviso anche da un consigliere comunale («Praticamente tutti avevano capito che era uno scherzo», ha sottolineato il consigliere). Jeff Coon, un sostenitore di Clinton che ha segnalato un meme simile sul “voto online”, ha detto che secondo lui «chiunque abbia creato questo o altri meme del genere non li ha pubblicati per scherzo o per “trollare”», e che anche se così fosse stato «se delle persone vengono di fatto private del diritto di voto non è uno scherzo».

Tuttavia, nonostante la condanna generalizzata ai sostenitori della cultura del lulz, non è detto che qualcosa possa cambiare la situazione a questo punto. I social network e i mezzi d’informazione incentivano il comportamento provocatorio online, ricoprendo di visualizzazioni, like, fama o infamia chiunque sia abbastanza rumoroso o cattivo da suscitare rabbia. Per quanto riguarda il cinismo e l’alienazione alimentati dalla politica del lulz, sondaggi come quelli di Gallup Pew suggeriscono che gli americani non sono mai stati tanto polarizzati e ostili tra di loro. Per questo motivo Phillips, la docente che ha scritto un libro sui troll, ha ancora un briciolo di speranza: se la cultura del lulz è l’antitesi del dialogo civile, allora forse potrebbe essere sconfitta con un dibattito aperto e benintenzionato. Cosa sarebbe successo se, invece di farselo nemico su Facebook, Barbee si fosse messo a parlare con Coon? Sono persone diverse, certo, ma se non altro condividono la passione per il destino degli Stati Uniti. «Se esiste una soluzione a questo problema, è entrare in contatto in modo onesto con le persone che non capiamo», ha detto Phillips. «Dobbiamo essere riflessivi e rispettosi e smettere di scaricare la responsabilità per le cose che facciamo e diciamo su internet». Per questo Phillips è molto preoccupata da figure come quelle di Cernovich, Yiannopoulos e, soprattutto, Trump. Di sicuro nessuno è riuscito meglio a sfruttare in modo cinico le tensioni culturali per ottenere una reazione. Dopo aver insultato i messicani, Trump ha celebrato su Twitter il Cinco de Mayo (una festività che negli Stati Uniti è legata alla celebrazione della cultura americana-messicana) ed è stato il promotore della polemica complottista sul certificato di nascita di Obama. In molti sono convinti che dopo le elezioni Trump fonderà un suo canale televisivo, cosa che ha spinto diversi esperti a chiedersi se tutta la sua campagna elettorale non sia stata solo uno stratagemma per ottenere attenzione a livello nazionale. Possiamo scommettere che sarà lui a ridere per ultimo, indipendentemente da chi vincerà le elezioni.

© 2016 – The Washington Post