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  • Venerdì 15 novembre 2013

Il Guardian, raccontato dal New Yorker

La storia, le inchieste recenti e il futuro di un illustre quotidiano britannico che è diventato uno dei maggiori siti di news mondiali

di Antonio Russo – @ilmondosommerso

«Il primo ministro, il vice primo ministro, il ministro degli Esteri, il ministro della Giustizia e altri funzionari di governo sono estremamente preoccupati per quello che state facendo», disse Jeremy Heywood al direttore del Guardian, Alan Rusbridger, il 21 giugno scorso.

Jeremy Heywood è il capo di gabinetto del governo del Regno Unito. Craig Oliver, invece, è lo spin doctor del primo ministro David Cameron: il 21 giugno 2013, alle otto e trenta del mattino, si trovavano entrambi nell’ufficio di Alain Rusbridger, dal 1995 direttore del Guardian, insieme con il vicedirettore Paul Johnson. Da due settimane il Guardian – uno dei quotidiani britannici indipendenti più letti e più longevi del Regno Unito, e il terzo sito di news in inglese più visitato al mondo – stava pubblicando informazioni riservate fornite da un ex analista statunitense, Edward Snowden, riguardo a un programma di sorveglianza internazionale della National Security Agency (NSA), l’agenzia di sicurezza nazionale degli Stati Uniti.

Del racconto – originale e avvincente – di quelle giornate concitate, della tensione all’interno della redazione del Guardian, delle pressioni del governo britannico, si è occupato di recente uno dei più navigati e apprezzati giornalisti del New Yorker, Ken Auletta, in un lungo articolo che – prima di ripercorrere quei momenti – riprende la storia del Guardian e del suo direttore, Alan Rusbridger, insieme a una serie di temi da tempo al centro del grande dibattito sul futuro del giornalismo.

Chi è Alan Rusbridger
Rusbridger è nato nel 1953 in Africa, a Lusaka, allora parte della colonia britannica della Rhodesia del Nord e oggi capitale dello Zambia: suo padre era un ex missionario inglese, vice responsabile dell’istruzione nell’amministrazione coloniale, e sua madre lavorò per un po’ di tempo come infermiera. A Londra – dove la famiglia si trasferì quando Rusbridger aveva cinque anni – frequentò il Magdalene College di Cambridge, dove studiò letteratura inglese: lavorò all’Evening News, il quotidiano principale di Cambridge, per qualche anno dopo il diploma, prima di essere assunto direttamente dal Guardian, nel 1979. Lì conobbe Lindsay Mackie, che all’epoca lavorava al Guardian e che tre anni più tardi sarebbe diventata sua moglie. Oggi vivono in un quartiere di Kentish Town, nella zona nordovest di Londra.

Il direttore del Financial Times Lionel Barber ha raccontato al New Yorker un aneddoto che dice molto della tenacia di Alan Rusbridger. Nel 2010, quando il Guardian si stava occupando di un’altra storia grossa e delicata, quella su Bradley Manning e i documenti di Wikileaks, Rusbridger – che suona il pianoforte da dilettante e ne ha uno in casa – si mise in testa di imparare a suonare integralmente la ballata n. 1 in Sol minore di Chopin, nonostante i suoi numerosi impegni. Ci riuscì in circa un anno, prendendo lezioni e dedicando ogni giorno almeno una ventina di minuti allo studio dello spartito.

«È una mente molto acuta», ha detto Barber al New Yorker, «ed è molto significativo che abbia imparato a suonare quel pezzo di Chopin, come a dire “sono pronto a passare ore e ore a imparare Chopin, sono pronto a passare ore e ore per avere quell’articolo”». Familiari, amici e colleghi descrivono Rusbridger come un tipo molto pacato, imperscrutabile ma ostinato, uno che parla a voce bassa. Di lui l’ex giornalista del Guardian David Leigh – peraltro cognato dello stesso Rusbridger – dice: «è come un’anatra: la vedi scivolare elegantemente sull’acqua, ma intanto si affanna furiosamente con le zampe sotto la superficie».

Alcuni collaboratori di Rusbridger raccontano anche un altro episodio significativo, risalente a quando diventò direttore del Guardian nel 1995. Fu lui a decidere di cambiare il formato di stampa del giornale e passare dal cosiddetto “lenzuolo” (broadsheet in inglese) al “berlinese” (lo stesso di Le Monde in Francia o Repubblica in Italia), che era un formato originale rispetto al resto delle pubblicazioni quotidiane nel Regno Unito, in larga parte in formato tabloid. Sebbene quasi tutti in redazione ritenessero che il tabloid fosse la soluzione migliore – ha raccontato un ex redattore al New Yorker – a un certo punto della riunione in cui avrebbero dovuto prendere una decisione Rusbridger disse: «questa conversazione è finita, non stamperemo in formato tabloid».

La prima esperienza negli Stati Uniti
Nel 1986 Rusbridger lasciò il Guardian e accettò un lavoro come corrispondente da Washington per un nuovo quotidiano inglese – il Daily News, fondato da Robert Maxwell, allora già proprietario del tabloid Daily Mirror – e quindi si trasferì con tutta la famiglia negli Stati Uniti. «Scoprii il giornalismo americano», disse in seguito Rusbridger: «non avevo mai letto il New York Times o il Washington Post: contenevano dibattiti di natura etica, cose che noi non avevamo nel Regno Unito, e mi piacque la serietà della stampa americana».

L’impresa di Maxwell finì male e il Daily News chiuse pochi mesi dopo. Rusbridger tornò a lavorare a Londra per il Guardian, che gli affidò la redazione di un supplemento del weekend in cui Rusbridger – nonostante le perplessità di alcuni colleghi – iniziò a pubblicare articoli di costume e trattare anche argomenti più leggeri: le vendite dei weekend raddoppiarono. Il Guardian gli affidò quindi una sezione fissa sul quotidiano, chiamata “G2”. Nel 1994, in occasione della morte di Kurt Cobain, leader e cantante dei Nirvana, la sezione trattò approfonditamente la notizia: «i colleghi più attempati – ha raccontato Rusbridger al New Yorker – vennero da me a chiedermi “ma perché ce ne stiamo occupando?”, e io gli risposi “perché le nostre figlie stanno piangendo, ecco perché”».

La storia del Guardian
Il Guardian fu fondato nel 1821, nella città inglese di Manchester, come The Manchester Guardian da un gruppo di commercianti locali. Fu generalmente considerato un giornale di sinistra, schierato a favore del partito laburista, negli anni che vanno dal 1872, quando Charles Prestwich Scott ne divenne il direttore, al 1936, l’anno in cui suo figlio John fondò la Scott Trust Limited – la holding inglese tuttora proprietaria del Guardian Media Group – per «garantire in eterno l’indipendenza editoriale ed economica del Guardian, giornale nazionale non legato ad alcun partito e fedele alla tradizione liberale», come poi riportato nello statuto del gruppo. Dal 1821 a oggi ci sono stati soltanto dieci direttori. Di Charles Prestwich Scott viene spesso citata una frase contenuta in un suo articolo del 1921, scritto in occasione del centenario del giornale, e poi adottata come linea del Guardian negli anni a venire:

“I commenti sono liberi, ma i fatti sono sacri”

Nel 1995 Rusbridger, che era già vicedirettore da un anno, diventò direttore e manifestò da subito la volontà di cambiare l’immagine del Guardian come giornale politicamente schierato: «cercai di contrastare quel mix di informazione e commento, di estirpare l’abitudine di dire alla gente cosa pensare». Rusbridger è peraltro uno dei dodici membri del consiglio di amministrazione del gruppo Scott Trust, cosa che – scrive il New Yorker – gli conferisce ancora più responsabilità e potere. Sui suoi orientamenti politici David Leigh, cognato di Rusbridger ed ex giornalista del Guardian, ha detto al New Yorker: «è un vero moderato, uno che a un americano appare di estrema sinistra e a un inglese no».

La svolta con il digitale
Emily Bell – co-autrice di un saggio recente molto citato sul futuro del giornalismo – è oggi la direttrice del Tow Center for Digital Journalism alla scuola di giornalismo dell’Università della Columbia (New York), ma alla fine degli anni Novanta lavorava al Guardian, nella redazione affari dell’Observer, l’edizione domenicale del giornale. Di ritorno da un viaggio alla Silicon Valley negli Stati Uniti, nel 1994, Rusbridger – che era vicedirettore – disse all’allora direttore Peter Preston di voler investire più risorse sull’edizione online del giornale; qualche anno più tardi, nel 1999, fu proprio Emily Bell a dire a Rusbridger che il sito web del giornale era ancora inadeguato, e che era necessario trasformare quel sito in un grande giornale online piuttosto che in una copia digitale dell’edizione cartacea.

Rusbridger mise Bell a capo del progetto di trasformazione del sito, ed entrambi – ha raccontato Bell al New Yorker – si trovarono d’accordo su una cosa: la lettura dell’edizione online del Guardian sarebbe rimasta gratuita, che secondo Bell era l’unica via per tenere in vita il Guardian “in eterno”, come da statuto del gruppo Scott. Le vendite del quotidiano erano già in calo, e il Guardian – secondo Bell – «non aveva altra possibilità futura se non inventarsi qualcosa con il digitale».

I numeri del Guardian
Secondo l’Audit Bureau of Circulations – un’organizzazione nonprofit internazionale che si occupa di rilevazione dati – il sito web del Guardian fa 84 milioni di utenti al mese, e tra i siti di giornali in lingua inglese è il terzo più visitato al mondo, dopo il Mail Online – il sito del quotidiano inglese Daily Mail – e il New York Times. Ma la tiratura dell’edizione cartacea (190 mila copie) è oggi la metà rispetto a quella del 2002, e il Guardian è in perdita economica da nove anni.

Nell’ultimo anno fiscale, scrive il New Yorker, il giornale ha perso 31 milioni di sterline, circa 37 milioni di euro: più delle perdite registrate nel 2007-2008, ma meno dei 52,7 milioni di euro di perdita dell’anno scorso. Andrew Miller – direttore della Scott Trust e CEO del Guardian Media Group – ha detto che i fondi del gruppo si esauriranno entro tre, massimo cinque anni, se le perdite non saranno significativamente ridotte. Il New Yorker scrive che attualmente, per mantenere l’edizione online e quella cartacea, il Guardian impiega mille e seicento persone in tutto il mondo, tra cui 583 giornalisti e 150 tra sviluppatori, programmatori e web designer.

Il futuro del Guardian
Da quando ne è il direttore, Rusbridger ha cercato di trasformare il Guardian in una testata rivolta a un pubblico internazionale, un grande giornale online completamente gratuito e pensato principalmente per un lettore “impegnato”. Al New Yorker ha detto che un Guardian solo in digitale riesce anche a immaginarlo, nel giro di cinque o dieci anni (o magari anche una pubblicazione cartacea non più quotidiana, soltanto in alcuni giorni della settimana); ma al momento le entrate dal digitale rappresentano soltanto un quarto delle entrate complessive, e «se vuoi finanziare il tipo di giornalismo che facciamo noi – dice lui – non puoi rinunciare al 75 per cento delle tue entrate».

Nel 2011 è nata una versione digitale specifica per gli Stati Uniti, e a maggio di quest’anno è stata lanciata anche la versione australiana. Oggi un terzo di tutto il pubblico del Guardian è americano, e durante la scorsa estate – nel corso dell’inchiesta sulla NSA – il sito ha raggiunto 7 milioni di visitatori giornalieri; a giugno, il sito locale americano ha raggiunto più utenti unici (27 milioni) della versione inglese.

Anche il sito australiano del Guardian, che ha iniziato con uno staff formato da meno di venti persone, ha da subito raggiunto importanti traguardi: in cinque giorni, ha detto Rusbridger al New Yorker, il traffico ha eclissato quello del sito del principale rivale nazionale, The Australian, quotidiano di proprietà di Rupert Murdoch.

Negli ultimi anni, il Guardian ha puntato molto sul giornalismo investigativo e avviato una serie di importanti inchieste – News of the World, Wikileaks, NSA – che hanno accelerato la crescita di un pubblico internazionale: oggi il pubblico online del Guardian è tre volte quello del 2009, e due terzi delle visite non provengono dal Regno Unito.

Come iniziò l’inchiesta sul News of the world
Nick Davies è un giornalista freelance di sessant’anni che lavora per il Guardian fin dagli anni Ottanta, ed è stata una figura centrale nell’avvio e negli sviluppi delle più importanti inchieste recenti del giornale (sua fu anche quella del 2008 sulle violenze della polizia al G8 di Genova nel 2001).

Durante un pranzo di lavoro con Rusbridger, a giugno del 2009, Davies ritirò fuori una vecchia storia a cui a suo avviso non era stata dedicata sufficiente attenzione da parte dei media: tre anni prima, un investigatore privato e un giornalista del tabloid britannico News of the World erano stati arrestati per aver ascoltato illegalmente le telefonate contenute nelle segreterie telefoniche di alcuni membri della famiglia reale, ricavandone informazioni riservate per scrivere i loro articoli. Il caso era rientrato dopo che la società editrice del News of the World – News International, che in Inghilterra pubblica anche il Times, il Sunday Times e il Sun, e che fa capo a News Corp, la compagnia internazionale di Rupert Murdoch – aveva assicurato di aver condotto una “rigorosa indagine interna” e aver scoperto che, nel caso delle intercettazioni illegali, si era trattato di episodi isolati.

Davies disse a Rusbridger di aver saputo che, al contrario, quelle intercettazioni erano pratica diffusa al News of the World, ma proseguire quell’inchiesta avrebbe significato mettersi contro il gruppo industriale di Murdoch, che possiede più di un terzo dei periodici nel Regno Unito, oltre che la più nota azienda di trasmissioni televisive satellitari (BSkyB). Rusbridger gli rispose “va’ avanti”, e a cominciare da luglio gli articoli di Davies sulle prime pagine del Guardian portarono alla scoperta di una prolungata serie di attività illegali – intercettazioni, bustarelle, occultamenti – che coinvolsero anche Scotland Yard e determinarono la chiusura del News of the World (ormai privo di molti inserzionisti pubblicitari) e le dimissioni o gli arresti di numerosi dirigenti, direttori e altri dipendenti del gruppo di Murdoch.

(Tutti gli articoli del Post sul caso News of the World)

«Rusbridger ha una cosa molto utile che manca a molti direttori di giornale, cioè una spina dorsale», ha detto Davies al New Yorker, motivando con queste parole il suo rapporto più che trentennale con il Guardian: «in più occasioni, nei momenti decisivi, il Guardian si è sempre ritrovato da quella che io chiamo la sponda giusta della moralità».

La pubblicazione dei dossier di Manning e Wikileaks
Più o meno come avvenne per l’inizio dell’inchiesta sul News of the World – cioè ripescando dal giornale notizie di cronaca passata – nel 2010 Davies disse a Rusbridger di voler approfondire la notizia dell’arresto di Bradley Manning, il soldato americano accusato di aver passato informazioni riservate a Wikileaks, l’organizzazione internazionale fondata e coordinata da Julian Assange. Davies – racconta il New Yorker – disse a Rusbridger di voler provare a persuadere Wikileaks a passargli subito tutti i dossier ricevuti da Manning, e già allora era convinto che la pubblicazione di quello scoop sul Guardian avrebbe conferito a quelle informazioni riservate una risonanza di gran lunga maggiore rispetto a quella che la semplice pubblicazione di quei file sul sito di Wikileaks poteva garantire.

Fu quella la prima occasione in cui Rusbridger chiese collaborazione al New York Times, un fatto piuttosto insolito tra grandi giornali in casi del genere: Rusbridger pensò che il governo britannico avrebbe potuto ostacolare e interrompere per strade legali la pubblicazione dei documenti riservati su un giornale inglese come il Guardian, ma sapeva che il governo non avrebbe potuto far niente contro eventuali pubblicazioni negli Stati Uniti, dove la libertà di parola è garantita e tutelata dal Primo emendamento della Costituzione (entro certi limiti, peraltro oggetto di lunghe controversie).

(Tutti gli articoli del Post su Bradley Manning)

Un gruppo di redattori del Guardian trascorse quell’estate a rivedere, selezionare ed editare centinaia di migliaia di pagine di documenti passati da Manning a Wikileaks e da Wikileaks al Guardian, e prima di ogni pubblicazione Rusbridger si assicurò che venisse oscurata qualsiasi parte delle informazioni che avrebbe potuto mettere in pericolo la vita di militari, membri dell’intelligence o persone che avevano collaborato con i servizi segreti. Nonostante questo, Rusbridger e il Guardian furono criticati da più parti per aver divulgato informazioni che secondo alcuni sarebbero dovute rimanere segrete, e l’inchiesta – oltre che rivelare aspetti atroci delle operazioni militari in Iraq e Afghanistan – avviò nell’opinione pubblica anche un acceso dibattito sull’opportunità di rendere pubbliche le relazioni dei diplomatici e dei servizi di intelligence internazionali.

Quel dibattito è tuttora vivo, ed è tornato di stretta attualità nella scorsa estate, in seguito alle rivelazioni dell’ex analista statunitense Edward Snowden sui programmi segreti di sorveglianza internazionale della National Security Agency (NSA), l’agenzia di sicurezza nazionale degli Stati Uniti, e del Government Communications Head Quarter (GCHQ), l’omologa agenzia britannica di spionaggio.

L’inchiesta nata da quelle rivelazioni, secondo il New Yorker, rappresenta la storia più grossa mai pubblicata dal Guardian, e il racconto di come andarono le cose in redazione in quei giorni concitati di giugno è piuttosto avvincente. Ma prima bisogna fare un passo indietro e spiegare come e da dove comincia la storia, all’inizio del 2013.

Da dove partì l’inchiesta sulla NSA
Il principale artefice dell’inchiesta stavolta non fu Nick Davies ma Glenn Greenwald, ex avvocato newyorkese, poi scrittore ed editorialista per la rivista online Salon (dal 2007 al 2012) e per il Guardian dall’agosto del 2012. Negli anni Novanta Greenwald lavorava per Wachtell, Lipton, Rosen & Katz, uno dei più prestigiosi studi legali di New York, ma nel 2004 abbandonò il posto alla Wachtell e la professione di avvocato, e si trasferì a Rio de Janeiro, in Brasile, per lavorare come blogger. Già a partire da quegli anni cominciò a interessarsi delle politiche di sorveglianza dell’amministrazione Bush – peraltro argomento di alcuni suoi libri molto venduti – e a cercare informazioni riguardo alle attività segrete della National Security Agency.

A gennaio del 2013, l’ex analista Edward Snowden – che lavorava alla Booz Allen Hamilton Inc., un’azienda informatica che collaborava con la NSA – contattò per email la regista statunitense Laura Poitras, autrice di alcuni documentari sulle politiche di sorveglianza negli Stati Uniti (e molto nota agli appassionati del genere, tra cui appunto Snowden). Le mail di Snowden erano anonime e crittografate e contenevano informazioni molto dettagliate su un sistema di controllo informatico internazionale condotto dalla NSA. Per accertarsi dell’autenticità del contenuto di quelle email, Poitras consultò Barton Gellman – ex giornalista investigativo del Washington Post, premio Pulitzer, esperto di sicurezza e intelligence – e prese contatti proprio con Greenwald, come richiesto esplicitamente da Snowden: sia Gellman sia Greenwald dissero a Poitras che le informazioni erano fondate e verosimili.

L’incontro a Hong Kong e le prime notizie su PRISM
A maggio Snowden – che fino ad allora aveva inviato a Greenwald, tramite Poitras, solo una piccola parte dei file sulla NSA – accettò di condividere tutti i documenti riservati in suo possesso, e incontrò Greenwald e Poitras a Hong Kong (dove Snowden risiedeva dal 20 maggio). Gellman scelse di non andare con loro, e non spiegò perché, ma Snowden decise di condividere anche con lui il file di una presentazione PowerPoint che la NSA utilizzava per spiegare ai dipendenti il funzionamento di PRISM: un sistema tramite cui la NSA, da anni, ha accesso diretto ai dati personali di milioni di utenti delle più grandi società informatiche del mondo, come Google, Microsoft e Facebook.

Il 6 giugno il Washington Post pubblicò un primo articolo, firmato da Gellman e Poitras, sulle attività segrete della NSA e sul programma PRISM, e successivamente un approfondimento specifico riguardo ad alcune delle slide fornite da Snowden. Ma la copertura principale e completa della storia fu di Greenwald, sul Guardian, che il 7 giugno pubblicò il primo di una lunga serie di articoli che rivelarono in brevissimo tempo – per cinque giorni consecutivi, sul quotidiano cartaceo – nuovi importanti dettagli della storia, giorno dopo giorno.

(Tutti gli articoli del Post sul caso NSA)

«Volevo che lì a Washington tremassero dalla paura per questo tipo di giornalismo, per l’imprevedibilità di questo giornalismo», ha raccontato Greenwald al New Yorker, «e il solo motivo per cui ci fermammo dopo cinque giorni è perché persino i nostri alleati ci dicevano “state pubblicando troppe informazioni, non riusciamo a starvi dietro”».

Le pressioni del governo
Rusbridger ha raccontato al New Yorker le pressioni che la redazione del Guardian subì in quei giorni da parte del governo britannico, fortemente avverso alla pubblicazione delle informazioni sottratte da Snowden (che intanto, negli Stati Uniti, fu accusato di spionaggio e furto di proprietà del governo).

Il 21 giugno – accompagnato da Craig Oliver, direttore delle comunicazioni del governo – il segretario di gabinetto Jeremy Heywood incontrò personalmente Rusbridger nella sede del Guardian, in York Way, dietro la stazione ferroviaria londinese di King’s Cross. Heywood era venuto a sapere che il Guardian stava per pubblicare nuove rivelazioni in cui emergeva la complicità della GCHQ, l’agenzia britannica di spionaggio, in parte della vicenda: stando alla nuova parte dell’inchiesta, la GCHQ – già accusata, in quei giorni, di aver tenuto sotto controllo le comunicazioni di capi di stato e di governo durante il G20 del 2009 – aveva collaborato con l’intelligence statunitense fornendo alla NSA telefonate, mail e post di Facebook di migliaia di utenti.

«Pubblicando queste cose – disse Heywood, secondo quanto riportato poi da Rusbridger – state compromettendo non soltanto la sicurezza nazionale ma anche la nostra possibilità di arrestare pedofili, spacciatori di droga e trafficanti di materiale pedopornografico». Rusbridger disse a Heywood che quei documenti contenevano informazioni che in democrazia i cittadini meritano di conoscere, e lo rassicurò di aver “ripulito” i testi in modo da non mettere a rischio e non rendere identificabili i funzionari pubblici citati nei documenti.

Dopo circa un’ora di colloquio, Rusbridger salutò Heywood e Oliver con un grazie, e alle 5:23 del pomeriggio – otto ore dopo quell’incontro – ordinò di pubblicare, prima nella versione online del Guardian e poi sul giornale, il pezzo sulla GCHQ la cui pubblicazione Heywood aveva tentato di impedire.

Le misure di sicurezza e il “bunker”
Il direttore del Guardian temeva che alla fine, nonostante l’autocensura del giornale riguardo ai nomi dei funzionari, le autorità inglesi avrebbero ugualmente potuto impedire al Guardian di continuare a pubblicare quelle storie. Da giorni, quindi, aveva già spedito negli Stati Uniti una chiavetta USB con i file riservati, indirizzata a Paul Steiger, fondatore del sito di news nonprofit ProPublica (ed ex direttore del Wall Street Journal): il patto era che, se qualcosa fosse andato storto lì in Inghilterra, ProPublica avrebbe pubblicato la storia.

Accordi simili furono presi da Rusbridger con il New York Times, qualche settimana più tardi, per la seconda volta dopo il caso Wikileaks: «Alan non se la sentiva di parlare per telefono», ha detto al New Yorker la direttrice del NYT Jill Abramson, che quindi andò a Londra con il caporedattore Dean Baquet e acconsentì alla condivisione dei documenti tra Guardian e New York Times. Secondo gli accordi, i due giornali avrebbero da lì in poi lavorato separatamente, pubblicando nuovi pezzi sulle parti ancora segrete dei documenti: se il governo britannico avesse interrotto – per strade legali o in qualsiasi altro modo – il lavoro del Guardian, il NYT e ProPublica avrebbero proseguito con le pubblicazioni.

C’era molta tensione in redazione, disse poi Rusbridger. Sua moglie, Lindsay Mackie, ha raccontato al New Yorker che in quei giorni di giugno, quando il marito andò negli Stati Uniti per lavorare con il team di New York, non le disse niente di quello che stava succedendo. Da quando erano iniziate le pubblicazioni sulle rivelazioni di Snowden, Rusbridger aveva anche assunto delle guardie aggiuntive per sorvegliare l’edificio e stabilito che i documenti riservati venissero custoditi in un ufficio più sicuro, due piani più su rispetto alla redazione, in una stanza che Rusbridger chiamava “il bunker”.

La porta del “bunker” era chiusa a chiave, e chi entrava doveva lasciare telefonini e qualsiasi altro dispositivo elettronico all’ingresso, sorvegliato dalle guardie 24 ore al giorno. Dentro la stanza, su cinque tavoli bianchi, c’erano cinque laptop – non connessi a Internet né ad alcuna altra rete – in cui erano custoditi i file di Snowden, in dischi di memoria criptati: per accedere a ciascuna memoria occorrevano tre diverse password, e nessuna singola persona ne conosceva più di una.

La distruzione degli hard disk
Il 12 luglio, dopo nuove rivelazioni pubblicate dal Guardian, Heywood tornò da Rusbridger e gli disse: «nessun giornale è attrezzato per custodire questi segreti, rivogliamo indietro i documenti». Ma Rusbridger gli spiegò che anche tecnicamente non sarebbe stato facile restituirli, perché i documenti erano divisi in più partizioni. Peraltro sarebbe servito a poco, perché Greenwald – disse Rusbridger a Heywood – avrebbe continuato a diffondere autonomamente quelle informazioni in rete, dal Brasile, anche nel caso in cui i governi fossero riusciti a interromperne la pubblicazione sui giornali.

Il 18 luglio Rusbridger ricevette un’ultima telefonata di avvertimento dal vice consigliere per la sicurezza nazionale Oliver Robbins, che lo avvisò dell’arrivo imminente di alcuni agenti in redazione, incaricati di prelevare gli hard disk con i file di Snowden. Rusbridger – dopo aver spiegato ancora una volta che quei file si trovavano anche in computer fuori dal Regno Unito, e che sottrarli al Guardian sarebbe stato inutile – chiese a Robbins di poter provvedere autonomamente alla distruzione degli hard disk, e Robbins acconsentì. Rusbridger ordinò quindi ad alcuni suoi collaboratori di prendere i cinque laptop, portarli nel seminterrato dell’edificio e distruggerli sotto gli occhi dei due agenti della GCHQ.

Le ultime rivelazioni dell’inchiesta
Il 5 settembre il Guardian ha pubblicato una nuova parte dell’inchiesta – anche questa originata dai documenti forniti da Snowden – in cui si rivela che NSA e GCHQ hanno aggirato o forzato i sistemi di crittografia di centinaia di milioni di scambi di email, ricerche sul web, chat e chiamate telefoniche, negli Stati Uniti e in giro per il mondo (tutti questi dati viaggiano ogni giorno criptati, e ogni scambio – semplificando – è sempre prima di tutto un’operazione di codificazione e decodificazione).

Tre settimane fa, il 24 ottobre, un altro articolo del Guardian – ricavato a partire dall’analisi di una parte dei documenti di Snowden risalente al 2006 – ha aperto un nuovo fronte dell’inchiesta. Nell’articolo si sostiene che la NSA ha sorvegliato per anni le conversazioni telefoniche di 35 leader e capi di stato mondiali, i cui numeri di telefono sarebbero stati passati ai servizi di intelligence direttamente da un funzionario del governo statunitense (l’identità non è stata rivelata).

Pochi giorni più tardi, il 31 ottobre, il Washington Post ha portato ulteriormente avanti le pubblicazioni sul caso NSA, rivelando l’esistenza di un altro programma di sorveglianza internazionale chiamato “Muscular”, tramite il quale la NSA ha avuto accesso ai data center di Google e Yahoo – senza alcuna autorizzazione da parte delle due aziende – e ha raccolto i dati di centinaia di milioni di account, sia negli Stati Uniti che all’estero.

Foto: Peter Macdiarmid/Getty Images