La battaglia dell’IVA

Dario Di Vico parte dall'ipotesi di questi giorni di aumentarla per fare il punto sul commercio nel nostro paese

Dario Di Vico analizza sul Corriere della Sera l’ipotesi ventilata in questi giorni di aumentare di un punto percentuale l’IVA, spiegando a chi gioverebbe e a chi no il nuovo provvedimento.

La potremmo chiamare «la battaglia dell’Iva» ed è quella che in queste ore si sta combattendo attorno all’eventualità di aumentare l’aliquota di almeno un punto. L’ipotesi di far salire la tassazione Iva è stata presa in considerazione più volte in questi mesi dal governo e poi sempre scartata. Ma prima ancora che a una misura legislativa la battaglia dell’Iva rimanda alle difficoltà del governo guidato da Silvio Berlusconi nel mediare all’interno della sua constituency elettorale.

Gli imprenditori di osservanza confindustriale vedono di buon occhio l’aumento dell’Iva ma al loro interno devono fare i conti con la Federalimentare decisamente contraria. Rete Imprese Italia vede al suo interno posizioni diverse, con gli artigiani sostanzialmente neutrali e con i commercianti schieratissimi per il no. La vera anima della rivolta dell’Iva è infatti il gran capo di Confcommercio Carlo Sangalli, personaggio di spicco del mondo camerale ma soprattutto amico personale di Silvio Berlusconi. Sangalli da tempo sostiene che per aumentare l’Iva bisognerà passare sul suo corpo e dalle dichiarazioni del premier di ieri evidentemente non c’è questa intenzione. Del resto la parola «consumi» nel lessico berlusconiano ha una storia di tutto rilievo, il Cavaliere non dimentica che la gran parte dei suoi successi sono nati da Publitalia e dal meccanismo più spot/più vendite. Di conseguenza è portato a considerare come sinonimi la crescita dei consumi e lo sviluppo dell’economia. I grandi centri commerciali sono per Berlusconi il cuore e il termometro del capitalismo e sa come oggi siano poco frequentati. Il mondo della distribuzione vive una stagione difficile: la moda degli ipermercati è alle nostre spalle, le liberalizzazioni incrociano l’opposizione della Cgil e gli unici che riescono ad attutire i contraccolpi della crisi sono per ora i colossi stranieri come Ikea che vogliono aprire nuovi punti vendita come niente fosse.

I piccoli commercianti, poi, sono vittime di una lenta morìa. Nelle grandi città gli spazi destinati ai negozi rimangono spesso vuoti o danno vita a rotazioni schizofreniche nel giro di pochi mesi. Stentano ad affermarsi formule nuove, idee capaci di colpire l’attenzione del consumatore e il piccolo commercio si sente la Cenerentola del Paese. È chiaro che il mondo dei consumi complessivamente preso vale molto elettoralmente e quindi «il partito Sangalli» ha un forte potere di dissuasione. Invece il ceto medio privato, quello più colpito dalla tassa di solidarietà e impossibilitato ad evadere le tasse, conta molto meno. Le associazioni dei dirigenti non hanno forza lobbistica e comunque agli occhi del tardo-berlusconismo sono giudicati più infedeli dei commercianti. Perché la verità è che quando si parla di ceti medi oggi si individua un perimetro molto largo al cui interno le contraddizioni aumentano e non ci sono provvedimenti che accontentino tutti.

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