C’era una guerra in Libia

Marta Dassù racconta a che punto è "una guerra che gli oppositori di Gheddafi non sanno combattere sul terreno e che la Nato non può vincere solo dall’alto"

A più di cento giorni dall’inizio della guerra in Libia, prosegue la situazione di stallo tra il regime di Gheddafi, la NATO e i ribelli antigovernativi. Marta Dassù, esperta di politica internazionale e già consigliere della presidenza del Consiglio e del ministero degli Esteri, ne ricapitola le ragioni sulla Stampa.

Sono passati più di 100 giorni dall’inizio della strana guerra di Libia: che ci stiamo dimenticando o vogliamo rimuovere. Intanto, il colonnello Gheddafi minaccia ancora da Tripoli di colpire l’Europa «le vostre case, i vostri uffici e le vostre famiglie» se i raid della Nato non cesseranno. Dichiarazioni del genere aiutano se non altro a chiarire il contesto: il Rais, colpito da un mandato di arresto della Corte Penale Internazionale, abbandonato da parte dei suoi e indebolito dalle sanzioni economiche, è alla ricerca di una soluzione politica. Minaccia perché è debole non perché sia forte. Minaccia per trattare.

Da parte loro, i Paesi della Nato che partecipano alla strana guerra di Libia combattono soprattutto contro se stessi. In America, Barack Obama fa fatica a difendere un impegno che, per gran parte del Congresso e dell’opinione pubblica, non rientra negli interessi vitali degli Stati Uniti. In Francia, la guerra voluta da Sarkozy sta diventando un boomerang per l’inquilino dell’Eliseo. Sopravvive il nemico esterno (Gheddafi) e risorge il nemico interno (Strauss-Kahn): sono giorni difficili per un Presidente debole e di fatto già in campagna elettorale. A Londra, costi e tempi della missione in Libia sono utilizzati dalle gerarchie militari per protestare, fin troppo apertamente, contro i tagli al bilancio della difesa. E a Roma si sa: l’impresa di Libia divide, anche se in modo un po’ finto, la maggioranza di governo. Per cui anche la Nato, allo stesso modo di Gheddafi, vorrebbe trattare. Ma vorrebbe trattare, anzi lo sta facendo, con tutti meno che con il Colonnello.

Il terzo attore – il Consiglio di Transizione creato a Bengasi e già riconosciuto quale governo legittimo della Libia da alcuni Paesi, inclusa l’Italia – sta arrivando alla stessa conclusione. Dopo 100 giorni di una guerra che gli oppositori di Gheddafi non sanno combattere sul terreno e che la Nato non può vincere solo dall’alto, il Consiglio ha circoscritto le sue ambizioni: sembra disposto a trattare con i potenti di Tripoli un accordo nazionale, un patto transitorio di governo, se Gheddafi e suo figlio Saif prenderanno la via dell’esilio forzato. Scenario che il mandato di arresto internazionale rende più difficile; ma non impossibile. L’Unione africana, che sta tentando da settimane una sua mediazione, va ancora più in là (o più vicino): la via di uscita vagheggiata è il ritiro di Gheddafi e della sua famiglia in un’oasi, controllata, della Libia stessa.

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