Questo è il testo dell’ultima bozza – sono sette punti – del documento sul PD promosso da Walter Veltroni, che dovrebbe essere firmato da oltre settanta parlamentari e sarà presentato domattina, al massimo con qualche piccola modifica. Sul Post ne abbiamo parlato qui e qui. La bozza è stata diffusa da Stefano Menichini, direttore di Europa (e blogger del Post). In tarda serata di giovedì ne abbiamo ricevuto una versione successiva con poche correzioni, tra cui la trasformazione in minuscola della emme di “movimento” al punto sette.
Un Pd grande e aperto, per cambiare l’Italia
1.
La crisi politica del centrodestra è arrivata ad un punto di non ritorno. Dopo la rottura del Pdl, Berlusconi ha davanti a sé due strade: aprire la crisi di governo e invocare le elezioni, al caro prezzo di dover ammettere il fallimento politico della più consistente maggioranza parlamentare della storia della Repubblica; o tenere in piedi il governo e la legislatura, ma al prezzo non meno alto di legittimare la presenza determinante, nella coalizione di centrodestra, di una forza e una leadership che si collocano in modo esplicito su una linea politicamente e culturalmente autonoma.
Qualunque sarà la scelta, è chiaro che si va concludendo un ciclo storico, quello segnato dall’egemonia sul centrodestra e sul Paese del populismo berlusconiano, che ha dimostrato in questi anni una indiscutibile capacità di rappresentanza di una parte larga e tendenzialmente maggioritaria della società italiana, ma non è riuscito a trasformarla in azione di governo all’altezza dei problemi del Paese, adeguata ad affrontare in modo risolutivo i nodi che ostacolano lo sviluppo dell’Italia.
La crisi politica del centrodestra è dunque una crisi strategica: è il fallimento di un modello che ha preteso di governare il Paese preferendo la delega carismatica alla responsabilità condivisa, la facile popolarità dei demagoghi al rischio dell’impopolarità degli statisti, la ricerca dei motivi di divisione del Paese, compresi i più artificiosi, alla ricomposizione delle sue fratture reali, l’elogio dei suoi vizi ancestrali alla promozione delle sue virtù civili, fino alla concentrazione illiberale del potere – politico, economico, mediatico – che ha preso il posto della divisione dei poteri, fondamento di ogni democrazia liberale. Un potere tanto prepotente nella sua pretesa insindacabilità, quanto impotente dinanzi ai problemi dell’Italia, che sono stati abilmente agitati a fini di consenso, senza mai riuscire ad utilizzare il consenso per affrontarli in modo risoluto.
La crisi politica del centrodestra ha reso evidente come un simile modello possa nutrire l’ambizione di vincere la competizione elettorale, ma non assicurare la capacità di governare in modo stabile, credibile, affidabile una società plurale, articolata e complessa come la nostra e tanto meno la capacità di organizzare un programma di riforme adeguato alle necessità dell’Italia di oggi. Il fallimento del berlusconismo ha insomma dimostrato ancora una volta che il populismo è l’antitesi, la negazione dell’innovazione e del riformismo.
Berlusconi deve prendere atto di avere fallito e di avere tradito la fiducia che gli elettori avevano riposto nella sua proposta politica. E chi ha fallito non può pretendere di determinare il corso degli eventi, tanto meno può rivendicare il diritto di precipitare il Paese in uno scontro elettorale trasformato in un’ordalia pro o contro di lui.