Com’è andato l’incontro fra Trump e Netanyahu
Era atteso perché gli Stati Uniti vorrebbero procedere con la “fase due” del piano per Gaza, ma il presidente statunitense si è limitato a dire che comincerà «presto»

Lunedì sera, ora italiana, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e il presidente statunitense Donald Trump si sono incontrati a Mar-a-Lago, la residenza di quest’ultimo in Florida. L’incontro era molto atteso perché gli Stati Uniti vorrebbero procedere con la seconda fase del loro piano sul futuro della Striscia di Gaza, su cui invece il governo israeliano sta frenando. Non sono finora emersi molti dettagli su come sia andato ma non sembra ci siano stati significativi passi in avanti: Trump si è limitato a dire che la ricostruzione di Gaza comincerà «presto» e che «c’è pochissima differenza» tra i suoi obiettivi e quelli di Netanyahu.
Trump ha detto che prima dell’inizio della seconda fase Hamas dovrà disarmarsi, e dovrà farlo in tempi brevi. Ha poi detto di non essere affatto preoccupato delle azioni di Israele, anche se ha ammesso che lui e Netanyahu hanno discusso parecchio sulla Cisgiordania: ha detto che è un tema su cui non sono «al cento per cento d’accordo». L’amministrazione Trump ha più volte criticato i piani degli estremisti religiosi per annettere la Cisgiordania, perseguiti attraverso l’espansione delle colonie (l’ultima è stata approvata una settimana fa).

(AP Photo/Alex Brandon)
I principali aspetti della “fase due” del piano per la fine della guerra nella Striscia sono ancora irrisolti. Secondo il giornalista di Axios Barak Ravid, sempre molto informato sui rapporti tra Israele e Stati Uniti, Trump vorrebbe convocare a gennaio la prima riunione del Consiglio di Pace, l’organismo che dovrebbe supervisionare il rispetto dell’accordo insieme a un contingente internazionale di truppe da inviare nella Striscia (al momento non esistono né il contingente né il Consiglio di Pace). Trump tiene molto a presentarsi come un pacificatore e un pezzo della sua amministrazione vede Netanyahu come un ostacolo a questa narrazione.

La città di Gaza, il 29 dicembre (Omar Ashtawy/APA Images via ZUMA Press Wire)
Israele vorrebbe invece conservare lo status quo a Gaza, cioè di fatto fermarsi alla “fase uno” del piano, iniziata a ottobre e che prevede il cessate il fuoco, il ritiro parziale dell’esercito israeliano dalla Striscia e un aumento degli ingressi di cibo e altri beni essenziali. In questa fase Israele continua a occupare militarmente più di metà della Striscia e, nonostante il cessate il fuoco, non ha mai interrotto del tutto gli attacchi contro la popolazione palestinese.
Nella “fase due” l’esercito israeliano dovrebbe ritirarsi del tutto dalla Striscia e Hamas dovrebbe disarmarsi. Quest’ultimo è uno dei punti meno concreti dell’accordo, dato che il gruppo non ha mai acconsentito a farlo e non sono chiari i tempi né i modi in cui dovrebbe succedere. Il governo israeliano minaccia di disarmare il gruppo con la forza: significherebbe la ripresa della guerra, cosa che gli Stati Uniti non vogliono.
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Il quotidiano israeliano Haaretz ha scritto che Netanyahu era arrivato in Florida con una concessione: la piena riapertura del varco di Rafah, l’unico punto di passaggio via terra che collega la Striscia con un paese diverso da Israele (ossia l’Egitto), chiuso da maggio del 2024. A inizio dicembre il governo israeliano aveva prospettato di riaprirlo in un senso solo, da Gaza verso l’Egitto, ma poi non era accaduto. Haaretz scrive che a opporsi è stata l’estrema destra israeliana, alleata di Netanyahu ed estremamente ostile ai palestinesi. Non si sa se Trump e Netanyahu ne abbiano parlato.

Soldati israeliani vicino al confine siriano, in una foto del dicembre 2024 (AP Photo/Matias Delacroix)
Oltre che sulla Cisgiordania, ci sono divergenze anche sull’interventismo israeliano in Libano e in Siria. Nel primo caso Israele ha continuato gli attacchi aerei in Libano nonostante il cessate il fuoco con Hezbollah, concordato nel novembre del 2024 e mediato proprio dagli Stati Uniti. L’accordo prevede il graduale disarmo di Hezbollah a partire dalla parte sud del paese, quella al confine con Israele. Israele ha giustificato gli attacchi in Libano, malvisti dagli Stati Uniti, contestando l’efficacia del disarmo.
Il governo di Netanyahu ha proseguito anche gli attacchi e le incursioni via terra in Siria, nonostante l’amministrazione Trump abbia di fatto normalizzato i rapporti col nuovo presidente del paese, Ahmed al Sharaa.
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Secondo le ricostruzioni dei media israeliani e internazionali, Netanyahu intendeva parlare con Trump della possibilità di compiere nuovi attacchi contro l’Iran, dopo la guerra di 12 giorni della scorsa estate. Pochi giorni fa sul profilo Instagram ufficiale di Netanyahu è stato pubblicato un video, fatto con l’intelligenza artificiale, che mostra Netanyahu e Trump a bordo di un bombardiere B-2, il modello di aereo militare usato dagli Stati Uniti per bombardare i siti del programma nucleare iraniano, a giugno. Durante la conferenza stampa Trump ha minacciato in modo vago l’Iran dicendo se il paese dovesse riprendere il proprio programma nucleare gli Stati Uniti sarebbero costretti a intervenire.
Per Netanyahu l’incontro è avvenuto in un momento molto delicato anche a livello interno, per via delle inchieste in cui è coinvolto con l’accusa di corruzione. Lunedì Trump si è detto sicuro che il presidente di Israele, Isaac Herzog, concederà la grazia a Netanyahu: «Come potrebbe non farlo? È primo ministro in tempo di guerra, un eroe». Trump ha pure sostenuto che Herzog gli avrebbe detto che la grazia è in arrivo, cosa smentita poco dopo dall’ufficio di Herzog.
La richiesta di grazia fatta da Trump è stata ovviamente ribadita da Netanyahu stesso: nel 2026 in Israele ci saranno le elezioni e secondo i sondaggi il blocco di estrema destra del primo ministro rischia di non avere più la maggioranza. Se perdesse l’incarico, per Netanyahu diventerebbe molto più complicato sottrarsi ai processi che lo riguardano.
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