Gli attacchi ucraini alle raffinerie sono un grosso problema per la Russia
Hanno causato un aumento del prezzo del carburante e code ai distributori: in Ucraina li chiamano «sanzioni coi droni»

Domenica il presidente russo Vladimir Putin ha prorogato gli ingenti sussidi per incentivare le raffinerie a vendere i carburanti prodotti sul mercato interno e non all’estero, dove farebbero profitti più alti. È un segnale che sta funzionando la campagna ucraina di attacchi coi droni alle raffinerie russe, che si è intensificata notevolmente dalla fine dell’estate e ha avuto effetti concreti: soprattutto sui prezzi del carburante, che sono aumentati, e sulla sua disponibilità, che s’è ridotta, con code ai distributori.
Da agosto in poi l’esercito ucraino ha colpito almeno 16 delle 38 principali raffinerie russe, in molti casi più volte. Quest’anno, in tutto, ne ha colpite almeno 21. L’ultima campagna di attacchi è diversa rispetto alla precedente, della primavera del 2024, anzitutto per scala e frequenza. I droni delle forze armate ucraine oggi possono volare più lontano e trasportare una carica esplosiva maggiore.
Gli obiettivi sono due. Da un lato vengono tuttora attaccate le raffinerie nelle regioni russe più vicine all’Ucraina, come già avveniva, per intaccare i rifornimenti dell’esercito invasore. Dall’altro sono stati presi di mira impianti che si trovano molto più in profondità nel territorio russo, anche a 1.500 chilometri dalla linea del fronte. Serve a compromettere la produzione nazionale e, in estrema sintesi, a far sentire ai cittadini russi le conseguenze della guerra.

I cartelli avvisano che le pompe di benzina sono temporaneamente fuori uso, a Luhansk, nel Donbas occupato, il 10 settembre (Alexander Reka/TASS via ZUMA Press)
Il concetto è che «le sanzioni più efficaci, quelle che funzionano più in fretta, sono gli incendi nelle raffinerie russe», ha detto recentemente il presidente ucraino Volodymyr Zelensky. I comandanti ucraini parlavano già di «sanzioni coi droni»: un modo per dire che questi attacchi puntano a effetti più incisivi e immediati di quelli ottenuti dalle sanzioni degli alleati occidentali, almeno fino a quest’anno, quando l’economia russa ha cominciato a rallentare.
La campagna ha causato quella che l’Economist ha definito una «crisi del carburante» in Russia. Da gennaio il costo della benzina è aumentato del 40 per cento. In diverse regioni russe ci sono state carenze e si sono viste lunghe code ai distributori, che in alcuni casi hanno razionato i rifornimenti. A fine settembre è rimasta a secco metà dei distributori della Crimea occupata.
È una conseguenza della costanza degli attacchi. Dopo l’estate in certi periodi sono arrivati a compromettere tra un quinto e un terzo della produzione di petrolio, a seconda delle stime (che si basano sulla percentuale nazionale che viene lavorata nell’impianto colpito). Quando l’attacco ha successo, infatti, la produzione viene interrotta e ci vogliono settimane prima che riprenda.
Presi singolarmente, gli attacchi non risaltano nella copertura giornalistica della guerra, ma nel loro complesso sono diventati un problema per il regime russo, soprattutto dal punto di vista del consenso. Ed è per questo che l’Ucraina insiste, nonostante non intacchino le principali fonti di finanziamento del regime e della guerra, cioè le esportazioni di petrolio greggio e gas naturale.
L’efficacia della campagna ucraina si misura anche sulle contromisure prese dal governo russo. A fine settembre il governo ha rinnovato il divieto alle esportazioni di benzina e ha aggiunto nuove restrizioni a quelle di gasolio, che sono comunque ai minimi dal 2017. Lo scopo è tutelare il mercato interno, come per il provvedimento di Putin citato all’inizio. Sempre nel contesto delle difficoltà dell’economia, da gennaio 2026 l’IVA salirà dal 20 al 22 per cento per finanziare le spese militari.
C’è un’ultima novità rispetto al passato, e non è secondaria. La precedente campagna sistematica di attacchi alle raffinerie, quella del 2024, era malvista dall’amministrazione statunitense, che fece pressioni per fermarla. Questa invece, secondo le ricostruzioni del Financial Times, è stata condotta con l’appoggio degli Stati Uniti e soprattutto con il sostegno della loro intelligence.

Un distributore a Novosibirsk, l’8 ottobre (Kirill Kukhmar/TASS via ZUMA Press)
All’inizio del suo secondo mandato il presidente Donald Trump aveva cercato invano di convincere Putin almeno a un cessate il fuoco parziale, limitato agli attacchi contro le infrastrutture energetiche. Negli ultimi mesi, e specie dopo l’incontro in Alaska di ferragosto in cui aveva preso le posizioni di Putin, Trump è però tornato a mostrarsi insofferente verso di lui ed è probabile che la sua amministrazione consideri gli attacchi alle raffinerie un altro modo per spingerlo ad accettare un accordo di pace.
Trump stesso aveva notato le code ai distributori e, a fine settembre, le aveva citate in un post sul suo social Truth come prova che la Russia fosse diventata una «tigre di carta», cioè una potenza finta e fragile. Oltre a scrivere che nel paese «è diventato quasi impossibile fare benzina», nel post Trump sosteneva esplicitamente e per la prima volta che l’Ucraina potesse vincere la guerra e riprendersi tutti i territori invasi dalla Russia (senza indicare precisamente quali).
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