Istruzioni ministeriali per raccontare la storia ai bambini
«Nelle “Indicazioni nazionali” destinate alla scuola dell’infanzia e del primo ciclo, l’idea di Occidente formulata da Hegel nella prima metà dell’Ottocento dovrebbe essere alla base dell’insegnamento nelle scuole italiane dell’infanzia e di primo grado»

L’11 giugno scorso è uscita sul sito del ministero dell’Istruzione e del merito la seconda bozza delle Indicazioni nazionali per il curricolo destinate alla scuola dell’infanzia e del primo ciclo dell’istruzione. Si tratta di una versione revisionata del testo pubblicato a marzo sempre dal ministero, frutto dei lavori di una commissione di più di cento esperti coordinata dalla professoressa di pedagogia Loredana Perla. Per la scuola italiana le Indicazioni nazionali sono il fondamentale riferimento pedagogico e didattico che all’inizio degli anni Duemila ha sostituito i cosiddetti programmi, anche se spesso i due termini vengono ancora usati erroneamente come sinonimi.
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Il nuovo testo messo a disposizione del dibattito pubblico prima di entrare in vigore ricalca la prima versione, nonostante in questi mesi si sia sviluppato un confronto tra molti docenti e educatori così acceso e conflittuale che sono state organizzate proteste e inviti al boicottaggio. Una delle sezioni più controverse è quella che riguarda l’insegnamento della storia alla primaria e alla scuola secondaria di primo grado (le scuole medie). Proviamo a capire perché.
Sono sei pagine redatte da una sottocommissione guidata dallo storico contemporaneista di impostazione liberale Ernesto Galli della Loggia e composta da sette professori: Cinzia Bearzot, ordinaria di storia greca; Giovanni Belardelli, altro contemporaneista; Silvia Capuani, docente di scuola superiore; Elvira Migliario, ordinaria di storia romana; Marco Pellegrini, modernista; Federico Poggianti, ricercatore contemporaneista; Adolfo Scotto di Luzio, contemporaneista che si è occupato molto di storia della scuola.
La sezione si apre con questa affermazione tanto apodittica e schierata da apparire una provocazione: «Solo l’Occidente conosce la Storia». Lo storico Alessandro Vanoli ha riassunto bene la reazione dei molti storici, pedagogisti, comparatisti e studiosi di culture considerate non occidentali che negli ultimi mesi hanno messo in discussione questa impostazione senza essere ascoltati dal ministero: «L’abbiamo scritto in tanti che non era possibile parlare con toni così eurocentrici (qualcuno ha detto più precisamente ottocenteschi o colonialisti) e che era assolutamente scorretto dimenticarsi di tutte le altre storie prodotte nel mondo: dalla Cina al mondo arabo o persiano».
La critica è stata condivisa da studiosi di altre tradizioni storiografiche. Per esempio, l’Associazione italiana per gli studi cinesi ha scritto un documento che denuncia il ritorno all’idea colonialista dei “popoli senza Storia” e il rischio di polarizzazione di identità culturali contrapposte: «Nel caso della Cina, pare quasi ridondante dover ricordare la lunga storia e il valore della storiografia cinese che, ovviamente con un linguaggio diverso dal nostro, ha espresso lungo i secoli un identico bisogno di interpretare i fatti storici e di pensare e interpretare il passato in termini critici».
L’islamista Paolo Branca ha fatto notare che il mondo islamico ha dato un contributo fondamentale alla nostra concezione di storia, dalla scuola di Ibn Fadlan (siamo intorno all’anno Mille) a quella di Ibn Khaldun (intorno al 1300). «Oggi le categorie monolitiche e contrapposte di Occidente e di Oriente – che non sono realtà oggettive, ma costrutti culturali, storici e politici – risultano inefficaci a descrivere la realtà in cui viviamo», ha scritto l’arabista Renata Pepicelli. «Allargare lo sguardo ad altre storie appare poi necessario anche in virtù del fatto che la platea scolastica a cui si rivolgono le “Nuove linee guida” è sempre più composta da studenti con un’esperienza diasporica alle spalle. Secondo i dati riportati sul sito dello stesso Ministero dell’istruzione e del merito relativamente all’anno scolastico 2022/23, gli alunni con cittadinanza non italiana rappresentano l’11,2% della popolazione studentesca e di anno in anno la loro percentuale cresce. Non si può continuare a ignorare la storia dei paesi da cui loro e i loro genitori provengono e le ragioni (colonialismo, guerre, crisi economiche, ambientali, discriminazioni…) che fanno sì che oggi vivano in Italia».
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Sembrano considerazioni ovvie, ma evidentemente non sono condivise dalla commissione.
Nel documento l’affermazione «solo l’Occidente conosce la Storia» è seguita da una citazione di Marc Bloch – un nume tutelare per chiunque insegni storia – che dovrebbe suffragarla:
«I greci e i latini, nostri primi maestri, erano popoli scrittori di storia. Il cristianesimo è una religione di storici. […] è nella durata, dunque nella storia, che si svolge il gran dramma del Peccato e della Redenzione […]».
Usare in questo modo Marc Bloch è sembrato a molti una strumentalizzazione ad arte. La frase è tagliata e completamente decontestualizzata dal testo da cui è tratta, Apologia della storia, per operare una doppia manipolazione. Lo ha scritto Leonardo Tondelli sul Manifesto in un testo intitolato “Insegnare la storia dei bianchi”: «Marc Bloch […] una tale perentorietà non se l’è permessa: al limite ha riconosciuto che a differenza del cristianesimo “altri sistemi religiosi hanno potuto fondare le loro credenze e riti su una mitologia quasi estranea al tempo umano” (Apologia della storia). Che questo abbia impedito alle civiltà non occidentali di sviluppare una storiografia e un senso della storia, è un salto logico che Bloch non si permetteva: tanto più fa strano trovarlo messo per iscritto ottanta anni dopo la sua scomparsa. In mezzo c’è stata la decolonizzazione e ci sono stati i postcolonial studies, insomma i momenti per mettere in dubbio il nostro eurocentrismo non sono mancati».
Fa ancora più specie vedere associate l’autorevolezza e l’innovazione storiografica di Bloch alla nuova impostazione delle Indicazioni nazionali. Bloch è stato uno dei fondatori della rivista Les Annales, che ha trasformato in modo radicale la concezione della disciplina storica. Per gli storici degli Annales era fondamentale che insegnamento e ricerca andassero insieme, e che quindi fosse centrale il lavoro sulle fonti. Nelle Indicazioni nazionali viene invece esplicitamente dichiarato che i bambini non sarebbero in grado di riconoscere le fonti, per cui non è necessario che imparino
«tutto ciò che di più o meno notevole è avvenuto in ciascuna epoca, bensì che apprendano quanto è stato davvero determinante, in primo luogo nella vicenda storica italiana».
All’uso e alla ricerca sulle fonti si propone di sostituire la “dimensione narrativa”.
«Anziché mirare all’obiettivo, del tutto irrealistico, di formare ragazzi (o perfino bambini!) capaci di leggere e interpretare le fonti, per poi valutarle criticamente magari alla luce delle diverse interpretazioni storiografiche, è consigliabile percorrere una via diversa. E cioè un insegnamento/apprendimento della storia che metta al centro la sua dimensione narrativa in quanto racconto delle vicende umane nel tempo. La dimensione narrativa della storia è di per sé affascinante e tale deve restare nell’insegnamento, svincolato da qualsiasi nozionismo».
Quest’impostazione così convinta sembra non tenere conto del dibattito che dagli anni Novanta richiama l’attenzione sui limiti e i pericoli dello storytelling nella didattica della storia, anche perché altri passaggi delle Indicazioni sembrano alludere al fatto che la “dimensione narrativa” di cui si parla sia riducibile addirittura all’aneddotica o al racconto esemplare.
Lo sviluppo della concezione della storia nelle Indicazioni nazionali ha un carattere piuttosto lineare e coerente. I suoi stadi vengono ricostruiti schematicamente così:
1. Grecia classica e Roma imperiale, quando con Erodoto e Tucidide e con Tacito e Tito Livio nasce la storia come narrazione e giudizio sui fatti del passato e si forma il concetto di Occidente ante litteram;
2. Cristianesimo, quando la storia diventa disegno di redenzione: «La storia umana acquista il carattere di una sorta di percorso di prova che l’umanità era chiamata a intraprendere sulla via di quella salvezza che il suo redentore le aveva promesso. In tal modo essa non solo si apriva a una speranza, ma al tempo stesso acquisiva ciò che fino a quel momento non aveva mai avuto: un senso»;
3. Modernità, il processo di progressiva laicizzazione per cui non è più solo Dio a guidare l’umanità: «La storia, cioè la conoscenza e il giudizio sul passato, sono divenuti per questa via fonte decisiva per il pensiero e l’educazione politica dei popoli del mondo occidentale e in seguito di tutti i Paesi della terra»;
4. Illuminismo, quando – come avrebbe teorizzato il filosofo Nicolas de Condorcet (citato esplicitamente) – «la storia diviene lo specchio dei progressi dello spirito umano. […] Un progresso, almeno secondo l’autore, destinato a essere materiale ma insieme e forse ancor più morale»;
5. Ottocento, in cui la storia fonda le identità nazionali e le ideologie: «L’esistenza e la vita delle nazioni, delle grandi ideologie moderne e dei loro partiti, è dalla storia e dalla sua conoscenza che hanno tratto ispirazione e alimento decisivi»;
6. Novecento dello storicismo: «Vale a dire l’affermazione circa il carattere storico di ogni conoscenza umana e l’assorbimento nella dimensione della prassi di ogni significato o prodotto della conoscenza stessa, vuoi nella sua versione idealistica crociana che in quella dell’attualismo di Giovanni Gentile, vuoi nella versione marxista di Antonio Gramsci –, ha influenzato in misura decisiva l’intero corso del Novecento».
Questo modello evolutivo e l’incipit della sezione («Solo l’Occidente ecc.») fanno venire in mente la concezione razionale della storia di Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831), che assegna all’Europa il privilegio di realizzare e incarnare il dispiegarsi dello Spirito razionale nel mondo. Per i consulenti del ministero, insomma, l’idea di Occidente formulata da Hegel nella prima metà dell’Ottocento dovrebbe essere alla base dell’insegnamento della storia nelle scuole italiane dell’infanzia e di primo grado. Lo storico Antonio Brusa, presidente della Società italiana per la didattica della storia, ha detto in una recente intervista: «Diciamo che questa affermazione poteva essere creduta in Europa ai tempi di Hegel secondo il quale solo l’occidente godeva di una storia intesa come un processo evolutivo. D’altra parte molti grecisti (cito Canfora fra tutti) ci ricordano che i Greci si facevano belli per aver inventato tutto, anche la storia, quando in realtà beneficiavano della cultura del Vicino Oriente e del mondo persiano».
Un altro nome che potrebbe venire in mente per individuare le fonti ideologiche della commissione è quello del filosofo e sociologo tedesco Max Weber (1864-1920) che in Sociologia della religione individua nell’Occidente – «nur im Okzident», «solo in Occidente» – il teatro del processo di razionalizzazione del capitalismo a partire dalla dimensione religiosa (tema sviluppato nell’altra celebre opera di Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo). Ma perfino Weber rifuggiva una prospettiva eurocentrica e rifiutava una gerarchia di valori tra culture. Scrive Pietro Rossi in Max Weber. Una idea di Occidente, uscito per Donzelli nel 2007: «Il suo scopo è quello di porre in luce l’individualità dell’Occidente moderno e del suo processo di razionalizzazione, non già di affermarne la superiorità rispetto alle altre società». Per Weber le scienze sociali – quindi anche la storia – dovevano attenersi al principio di avalutatività: appurare fatti, formulare ipotesi e leggi, senza lasciare che giudizi di valore e morali interferissero nella sua ricerca. Per le Indicazioni nazionali, invece, la storia «si è sempre accompagnata al giudizio morale» ed è il campo dove si forma la nostra «consapevolezza del bene e del male».
«La storia, come si mostra nei grandi testi che l’hanno raccontata, intesa cioè come indagine e ragionamento intorno agli avvenimenti, al loro svolgimento, alle forze che li hanno prodotti e alle qualità dei loro protagonisti, si è sempre accompagnata anche a un giudizio morale su quanto era oggetto del suo racconto. In questo modo essa ha rappresentato una pagina decisiva del modo come si è costruita non solo la nostra comprensione del mondo ma la stessa nostra consapevolezza del bene e del male».
Da tutto il testo è evidente che per gli autori l’Occidente non soltanto conosce la storia ma avrebbe il compito di insegnarla. Ma questo modello pedagogico occidentalista è la via per arrivare all’insegnamento della storia nazionale, soprattutto nella scuola primaria, cioè ai bambini sotto i dieci anni, come base dell’«identità di persona e di cittadino». L’occidentalismo morale si fa nazionalismo morale.
«Nella scuola primaria sembra poi necessario che l’insegnamento abbia al centro le origini della civiltà occidentale, su cui si fonda anche la nostra storia nazionale e la nostra identità, […] al fine di far maturare nell’alunno la consapevolezza della propria identità di persona e di cittadino».
È una prospettiva pedagogica che sembra richiamarsi all’idea della storia come nation building – costruzione della nazione – dell’Ottocento e del primo Novecento. In un mondo che riscopre le guerre nazionalistiche e le retoriche belliciste, è un modello che sta tornando anche in altri Paesi (nell’ultimo numero della rivista di storia contemporanea Passato e presente a cura di Monica Galfré e Piero S. Colla, dedicato proprio all’insegnamento della storia, ci sono saggi approfonditi su vari modelli scolastici europei ed extraeuropei).
Ma è vero anche che chi fa e insegna storia sa che le tradizioni s’inventano, per dirla con Eric Hobsbawm; e che le comunità – anche quelle nazionali – s’immaginano, per dirla con Benedict Anderson. Con tutti i rischi di queste invenzioni e immaginazioni.
Per gli autori delle Indicazioni nazionali la funzione del progetto pedagogico della storia come nation building è anche quella di integrare «giovani provenienti da altre culture», per farli sentire italiani (naturalmente anche senza cittadinanza).
«Vista la sempre maggiore presenza di giovani provenienti da altre culture – al fine di favorire l’integrazione di questi ultimi, integrazione che dipende anche, in modo determinante, dalla conoscenza dell’identità storico-culturale del paese in cui ci si trova a vivere».
È di fatto una visione assimilazionista dell’integrazione, se non di un paternalismo colonialista. Tutto il contrario di quello che servirebbe alla scuola italiana, in cui non si riflette e studia abbastanza il feroce colonialismo italiano. Ed è anche l’esito peggiore di un testo che argomenta in modo così poco autorevole e scientifico su una questione invece così importante.
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