I programmi scolastici non esistono più, lo volete capire?

«Oggi ci sono le “indicazioni nazionali”. Usarli come sinonimi significa pensare che noi a scuola impariamo delle materie, come voleva Giovanni Gentile, la cui riforma del 1923 ha più di cento anni»

Un registro elettronico (Ansa/Franco Silvi)
Un registro elettronico (Ansa/Franco Silvi)
Caricamento player

Qualche tempo fa nel suo podcast Morning, Francesco Costa, commentando una serie di notizie legate alla scuola, parlava dello smarrimento che un lettore consapevole prova di fronte a un lessico fatto di acronimi e tecnicismi che somiglia a un codice catacombale per addetti ai lavori. Mad, Pei, Pdp, Gps, Pcto, “riservista”, “funzione strumentale”, “pre-ruolo”, “misure compensative” e “dispensative”…

Lo smarrimento non è solo il suo. Di fronte a questa opacità, le strade che prende il dibattito pubblico sono due: da una parte c’è chi discute di scuola partendo dalle opinioni che aveva sviluppato alle superiori, magari finite nel 1985; dall’altra c’è un’inflorescenza di giornalismo che si occupa di questioni specifiche con una pletora pressoché infinita di altri tecnicismi, offrendo un’informazione interessante solo per chi è direttamente coinvolto nel mondo della scuola.

Sui siti più letti, come Orizzonte ScuolaTecnica della Scuola, Tuttoscuola o Professione Docente, si trovano titoli di questo tipo: «Si parte con gli interpelli di docenti: le scuole, così come previsto dall’OM 88/2024, pubblicano gli avvisi dopo che risultano esaurite le GPS, si scorrono le graduatorie di istituto e non si trovano aspiranti neanche nelle scuole vincitori», oppure «Percorsi abilitanti 60, 30 e 36 CFU secondo ciclo 2024/25, riunione al Ministero il 24 gennaio».

Il fatto che di scuola si parli così nebulosamente è un grande problema, non solo della scuola, per tante ragioni diverse. La più evidente è che le riforme della scuola sembrano riguardare solo una parte piccola della popolazione e non portare a nessun grande cambiamento, comunque vadano. La scuola sembra sempre uguale: interrogazioni, compiti a casa, bocciature, voti, registri… E popolata dagli stessi personaggi di sempre: i secchioni, i lecchini, i prof impreparati, quelli che invece ispirano e salvano la vita… Che differenza potrebbe mai fare il ritorno dei giudizi sintetici al posto della valutazione formativa? E se viene reinserito il voto in condotta? Che differenza fa se i superiori tecnici o professionali invece di cinque anni ne durano quattro?

– Leggi anche: Storia della lotta in classe

Sono convinto che chiunque sia andato a scuola, quindi chiunque, sappia invece che un singolo cambiamento, anche impercettibile, modifica radicalmente il nostro modo di pensare, studiare, relazionarci agli altri, diventare adulti. E spesso le riforme, soprattutto quelle che non tengono conto degli effetti delle innovazioni ormai in atto nella scuola, possono fare molti danni. La realtà è che ogni giorno in Italia entrano a scuola quasi dieci milioni di persone, il che significa che se si contano le famiglie la scuola riguarda direttamente la maggioranza della popolazione italiana. Se vogliamo essere anche un po’ e giustamente retorici, potremmo dire che ci riguarda tutte e tutti.

Poi purtroppo questo non è vero. Neppure le persone che lavorano a scuola o quelle che hanno i figli a scuola si interessano molto alla scuola: accettano – e spesso subiscono – i cambiamenti, o le involuzioni o le inerzie, tutto come un destino, e al massimo protestano perché «è incredibile quello sta succedendo in classe di mio figlio», come se quello che sta succedendo nella classe di mio figlio non riguardasse anche i compagni di mio figlio e le altre classi e le altre scuole. In questo contesto, la comunicazione istituzionale spesso non aiuta, ma aggiunge confusione a confusione.

Da qualche settimana, per esempio, si parla di una “riforma Valditara” e di “cambiamento dei programmi scolastici”. Sembra una cosa grossa, no? Se ne parla a partire da alcune interviste del ministro dell’Istruzione e del Merito (qui quella seminale sul Giornale), senza che nessuno abbia visto una bozza di documento, senza che ci sia stata una conferenza stampa, senza che il confronto della commissione citata dal ministro su questa “riforma” sia stato minimamente reso pubblico. Eppure su cosa si studia a scuola, e soprattutto su come si studia a scuola, si gioca un bel pezzo di democrazia.

Il dibattito si riduce a una serie di dichiarazioni buttate là: il latino aiuta a ragionare, le poesie a memoria fanno bene, occorre leggere la Bibbia alla primaria, la storia italiana (o della Patria, come viene detto) va studiata prima di quella mondiale… Si riduce, cioè, a una specie di non dibattito, a cui si potrebbe replicare semplicemente: e perché, l’inglese o l’arabo non aiutano a ragionare? L’informatica non fa bene? Testi e documenti di altre culture religiose non potrebbero essere letti alla primaria? E perché mai dovrebbe essere meglio conoscere la storia d’Italia o dell’Europa o dell’Occidente prima della storia del mondo? E in che senso meglio?

– Leggi anche: Sei cose che so sulla scuola

Ma se vogliamo trovare un elemento esemplare di questa discussione, è che si continua a parlare di “programmi” e non di “indicazioni nazionali”, come se “indicazioni nazionali” fosse un tecnicismo da nerd della scuola, il puntiglio di chi mette puntini sulle i, ancora una volta, per non farsi capire. Invece chi parla di programmi e non di indicazioni nazionali, con l’aria di chi vuole semplificare, dirla spiccia, pane al pane, per me è complice del disastro della discussione intorno alla scuola.

– Leggi anche: Come do i voti ai temi

Proviamo a semplificare, ma sul serio. Tra la fine del secolo scorso e l’inizio di questo secolo la scuola è cambiata tantissimo. Nel 1999 abbiamo avuto una legge sull’autonomia scolastica che, tra molte altre cose, dice:

«L’autonomia didattica è finalizzata al perseguimento degli obiettivi generali del sistema nazionale di istruzione, nel rispetto della libertà di insegnamento, della libertà di scelta educativa da parte delle famiglie e del diritto ad apprendere».

La sostanza è che ogni scuola, ogni classe, ogni studente, ogni relazione educativa è un mondo a sé. La legge sull’autonomia scolastica trasforma, cioè, quel mammozzone centralizzato che è la scuola in una rete di persone che pensano, davvero, ogni giorno come modulare alcuni principi e obiettivi educativi generali nella vita reale delle persone, perché è questo il senso di un’istruzione democratica, costituzionale, eccetera…

Da questa temperie qui, tra l’inizio degli anni duemila e gli anni Dieci, sono venute fuori le indicazioni nazionali, che sono l’opposto dei programmi. Tantissimi anni di discussione tra docenti, educatori, studiosi, tantissimi anni di sperimentazioni, di innovazione in classe, di confronto tra insegnanti, pedagogisti, studiosi, hanno prodotto un risultato semplice: le indicazioni nazionali mandano all’aria l’idea che ci siano i programmi, e anche per questo sono un capolavoro, di riflessione educativa e di scrittura.

Leggetele, se non l’avete mai fatto, quelle per l’infanzia e per il primo ciclo di istruzione (cioè fino alla terza media), e quelle per la secondaria di secondo grado, articolate secondo gli indirizzi di studio. Mostrano che esiste una possibilità di un discorso comune, qualificato, chiaro, anche ispirante, sul senso del lavoro che si fa e che si potrebbe fare in classe tutti i giorni.

Ora, ecco il sintomo del disastro incombente che quasi nessun articolo sulla scuola coglie!

Proprio quelle persone, quei professori, che dovrebbero occuparsi della revisione delle indicazioni nazionali – che non sono certo le tavole mosaiche, ma un capolavoro di scrittura e di sintesi di una riflessione collettiva – spesso definiscono il loro lavoro, affidato dal ministero, revisione dei programmi. E i giornali che si occupano di scuola gli vanno dietro.

Lo fa l’intervista sul Giornale al ministro Beppe (sic) Valditara da cui è scaturito tutto questo dibattito.

Lo fa Il Foglio nel titolo di un articolo dello storico Giovanni Belardelli, uno dei membri della commissione per la revisione delle indicazioni nominata da Valditara: «I programmi di storia sottratti ai pedagogisti e restituiti agli storici. Bene».

– Leggi anche: Chiedi chi erano l’Abbagnano-Fornero (e il Reale-Antiseri)

Lo fa in ogni occasione pubblica Ernesto Galli della Loggia, un altro membro della commissione, editorialista del Corriere della Sera e storico contemporaneista spesso chiamato a rappresentare la visione pedagogica del ministro Valditara, anche attraverso Insegnare l’Italia. Una proposta per la scuola dell’obbligo, il libro scritto con Loredana Perla, la coordinatrice della commissione di revisione, che si presenta come il nucleo ispiratore della volontà riformatrice del ministro.

Dentro questa sinonimia sbagliata c’è il senso di un’abitudine, di una prospettiva pedagogica molto marcata, che rischia di essere una delle calamità più grosse per la scuola italiana. Significa pensare che noi a scuola impariamo delle materie, come pensava Giovanni Gentile, la cui riforma del 1923 ha più di cento anni. La centralità delle discipline! E così, anche ultimamente, si è pensato con un atteggiamento gentiliano che per supplire a una qualche mancanza degli studenti basti inserire «un’ora di x», «un’ora di educazione civica», «un’ora di orientamento», «un’ora di alternanza scuola-lavoro»…

A scuola, all’opposto, e per fortuna, impariamo a familiarizzare con, a padroneggiare poi, dei metodi: il metodo matematico, il metodo storico, il metodo argomentativo, il metodo scientifico… Questo modo di vedere la scuola vuol dire ragionare sulle competenze e non sulle discipline. Equiparare “indicazioni nazionali” e “programmi” è voler male alla scuola. Sarebbe un po’ come se qualcuno dovesse occuparsi di ragazzi con disabilità e continuasse a nominarli come “gli handicappati”. Sarebbe credibile il suo lavoro?

La verità è che spesso le persone che si occupano di scuola spacciano la loro legittima idiosincrasia per quello che potremmo chiamare “il pedagogichese” per mancanza di fiducia verso la pedagogia. Dall’altra parte spesso i pedagogisti che si occupano di riformare la scuola hanno troppa fiducia nelle loro idee da non rendersi conto di come è cambiata la realtà viva della scuola, anche quella italiana, negli ultimi anni.

Allora, veniamo alle domande cruciali e proviamo a dirci la verità: davvero vogliamo che a riflettere e a decidere sulla scuola siano persone che in fondo non ritengono la pedagogia una scienza? E davvero pensiamo che la scuola com’era un tempo, quella che abbiamo fatto noi e che hanno fatto i nostri genitori, i nostri nonni, i nostri bisnonni – quando la riflessione pedagogica era, nella maggior parte dei casi, legata all’improvvisazione o all’esperienza personale – sia il riferimento da recuperare per il presente e il futuro?

Anche se fosse così, per favore, parliamone bene.

– Leggi anche: Lo scrittore e insegnante Christian Raimo è stato sospeso per 3 mesi dall’insegnamento per aver criticato il ministro dell’Istruzione

Christian Raimo
Christian Raimo

Nato nel 1975 a Roma, dove ancora vive, insegna filosofia e storia al liceo. Collabora con diverse testate, fa parte del progetto di giornalismo indipendente Sveja. Ha pubblicato da poco il podcast Willy, una storia di ragazzi. Il suo libro più recente è L’ultima ora (Ponte alle Grazie, 2022).

STORIE/IDEE

Da leggere con calma, e da pensarci su