La Corte costituzionale si esprimerà per la prima volta sull’eutanasia
Dovrà decidere se un medico può somministrare un farmaco a un paziente per farlo morire, se lo ha chiesto il paziente e non può farlo da solo

Il tribunale di Firenze ha chiesto alla Corte costituzionale di dichiarare se sia legittimo vietare a un medico di somministrare a un paziente un farmaco per farlo morire, in un caso specifico: quando un paziente lo ha chiesto perché non può somministrarselo da solo, essendo impossibilitato da una malattia grave, irreversibile e totalmente invalidante.
La Corte dovrà insomma esprimersi sulla cosiddetta “eutanasia”, ed è la prima volta che succede: finora si è espressa più volte sulla legittimità di un’altra pratica che ha a che fare con la fine della vita, quella del suicidio assistito (o morte assistita). La differenza tra le due è che nel suicidio assistito ci si autosomministra il farmaco per morire, mentre nell’eutanasia è un medico o comunque un’altra persona a farlo. La Corte dichiarò legittimo sotto alcune precise condizioni il suicidio assistito, che oggi è legale in Italia grazie a quella sentenza, mentre l’eutanasia al momento è del tutto vietata.
Concretamente il tribunale di Firenze ha sollevato una questione di legittimità costituzionale sull’articolo 579 del codice penale, quello sul cosiddetto “omicidio del consenziente”, che punisce senza nessuna eccezione chiunque provochi la morte di una persona, pur col consenso di quella stessa persona, con pene che vanno da sei a quindici anni di carcere.
In altre parole, il tribunale di Firenze ha chiesto alla Corte costituzionale di stabilire se sia conforme ai principi della Costituzione vietare del tutto e in ogni caso l’omicidio del consenziente, e quindi l’eutanasia, o se invece possano esserci delle eccezioni. Al momento non è prevista alcuna eccezione, nemmeno per le persone gravemente malate, con patologie irreversibili che causino loro profonde sofferenze e le rendano completamente invalide, al punto da non poter assumere in maniera autonoma il farmaco per morire.
La Corte deve sostanzialmente decidere se una persona che avrebbe i requisiti per accedere al suicidio assistito possa ricorrere anche all’eutanasia, nel caso in cui non possa autosomministrarsi il farmaco. Se la Corte accogliesse la questione di legittimità costituzionale, l’eutanasia verrebbe di fatto legalizzata in Italia, per quanto a determinate condizioni.
Il caso di cui si sta occupando il tribunale di Firenze riguarda una donna toscana di 55 anni, identificata col nome di fantasia “Libera” per ragioni di riservatezza, che è affetta da una forma avanzata di sclerosi multipla, è completamente paralizzata dal collo in giù, ha difficoltà a deglutire (e quindi a bere e a mangiare) e dipende dai propri caregiver (cioè le persone che si prendono cura di lei) per tutte le attività quotidiane.
La donna ha tutti e quattro i requisiti con cui in Italia potrebbe accedere al suicidio assistito, quelli contenuti nella sentenza della Corte costituzionale del 2019: la donna è in grado di prendere decisioni libere e consapevoli, è affetta da una patologia irreversibile, questa patologia è per lei fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ritiene intollerabili, ed è tenuta in vita da «trattamenti di sostegno vitale», requisito interpretabile in vari modi, in cui ora rientrano anche le condizioni di Libera e in particolare il fatto che dipenda totalmente da caregiver per le proprie attività quotidiane.
Proprio per via delle sue condizioni, la donna è già stata ritenuta idonea a ricorrere al suicidio assistito dalla propria azienda sanitaria di riferimento, che ha anche identificato il farmaco letale con cui potrebbe morire, come desidera. Solo che siccome è paralizzata dal collo in giù le è impossibile somministrarsi un farmaco in maniera autonoma: ha bisogno dell’aiuto di un medico che però, alle condizioni attuali, rischierebbe da sei a quindici anni di carcere per averle somministrato un farmaco letale: allo stato attuale sarebbe a tutti gli effetti un omicidio, e non avrebbe nessun valore legale il fatto che sia stata la donna a chiederlo.
La donna è seguita dall’associazione Luca Coscioni, che si occupa da anni di libertà di scelta sul cosiddetto “fine vita” (come vengono chiamati nel dibattito pubblico il periodo che precede la morte e le scelte personali che lo riguardano). Date le condizioni di Libera, l’associazione aveva chiesto al tribunale di Firenze di autorizzare il medico della donna a somministrare il farmaco letale che l’azienda sanitaria locale aveva ritenuto idoneo, sollevando una questione di legittimità costituzionale sull’articolo del codice penale che lo vieta.
È quello che ha fatto il tribunale di Firenze, sottoponendo alla Corte costituzionale il possibile contrasto del reato di “omicidio del consenziente”, se quest’ultimo si trova nelle condizioni di Libera, con quattro articoli della Costituzione: l’articolo 2, quello sui diritti inviolabili di ognuno; il 3, sul principio di uguaglianza; il 13, sull’inviolabilità della libertà personale; e il 32, sul diritto alla salute.
Non è la prima volta in assoluto che la Corte costituzionale si esprime sull’eutanasia in generale, ma è la prima volta che deve farlo su un caso concreto: nel 2022 dichiarò inammissibile un referendum in cui si chiedeva di abrogare parzialmente proprio l’articolo 579 del codice penale.
In Italia il caso più noto di eutanasia, per cui si arrivò a processo, è quello con cui nel 2006 il medico anestesista Mario Riccio permise di morire a Piergiorgio Welby, affetto da distrofia muscolare, interrompendo il trattamento sanitario che lo teneva in vita. Lo aveva chiesto in più occasioni e pubblicamente lo stesso Welby, che a partire dalla sua condizione, anni prima, aveva introdotto con forza il tema della legalizzazione dell’eutanasia nel dibattito pubblico italiano.
Riccio fu imputato per “omicidio del consenziente”, e poi prosciolto con una sentenza in cui la giudice citò anche l’articolo 51 del codice penale, che prevede la non punibilità per chi adempie al dovere di dar seguito a una richiesta legittima, come quella del malato di rifiutare le terapie, prevista dall’articolo 32 della Costituzione.