Hanno vinto davvero i partigiani?

«La pulsione qualunquista non può essere un ideale comunitario. I morti volevano liberare la patria, ma volevano anche un altro mondo. Un ordine diverso di rapporti umani. Ecco allora il punto: i partigiani erano pronti a rompere costantemente i coglioni».

Un gruppo di partigiane e partigiani della Brigata Italia, 1943 (via Wikimedia)
Un gruppo di partigiane e partigiani della Brigata Italia, 1943 (via Wikimedia)
Giorgio Fontana
Giorgio Fontana

È uno scrittore. Il suo ultimo romanzo è Kafka. Un mondo di verità (Sellerio 2024).

Verso la fine di uno dei libri più belli e meno letti sulla Resistenza — I giorni veri di Giovanna Zangrandi — la protagonista e l’amico Sergio osservano il corteo della Liberazione a Tai di Cadore. È il 2 maggio 1945; il giorno precedente le forze tedesche si sono arrese in Italia e quello stesso giorno si stanno arrendendo a Berlino.

«Ci guardiamo in silenzio, non abbiamo voglia di parlare; ci passano davanti quei tipi paludati di tricolori e coccarde, passa via la camionetta dei tommies e delle ragazze. Da sotto le armi esce la voce bassa e roca, staccata, di Sergio: “Adesso comincia il casino, vedrai che razza di casino ci impiantano”».

Il timore può sembrare strano: ma come, adesso comincia il casino? Ora che è finito tutto? Ma non era un sentimento isolato. Nonostante il sollievo, c’era da un lato il rimpianto per un tempo sì feroce ma anche libero ed entusiasmante; e dall’altro il carico di preoccupazioni verso l’immediato futuro.

In Diario partigiano Ada Prospero Gobetti racconta del suo 26 aprile insonne a Torino. A tenerla sveglia non è la lotta che prosegue ancora in provincia, né la difficoltà di ricostruire il Paese: piuttosto l’ansia di combattere «contro interessi che avrebbero cercato subdolamente di risorgere, contro abitudini che si sarebbero presto riaffermate, contro pregiudizi che non avrebbero voluto morire». La battaglia si trasferisce in un teatro interiore; la vittoria che ha unito il popolo «si sarebbe frantumata in mille forme, in mille aspetti diversi».

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Ottant’anni ci separano da allora e c’è innanzitutto un equivoco da chiarire: l’idea che il 25 aprile chiudesse più o meno definitivamente i conti con il passato. Così più o meno viene raccontato, del resto; ma quel giorno non ci furono vittoria o pace bensì l’ordine di insurrezione generale emanato dal CLN. Un evento ancora in fieri, non cristallizzato.
E dopo, che accadde?

L’avverbio dopo va inteso in due sensi: prima l’assillo per il “casino” che sarebbe seguito alla Liberazione, dagli immediati giorni di maggio fino al 1948; e poi la celebrazione del mito resistenziale che continua fino a oggi. Le speranze in parte deluse e il rito che cerca di esorcizzarle, tenendo pur ferma l’eccezionalità delle origini repubblicane.

Per i nostalgici del Ventennio è tutto più semplice: la Storia dal 1943 in poi l’hanno scritta le forze della Resistenza e i loro eredi come se non vi fossero altre questioni in gioco se non il mero privilegio dei trionfatori. Ma hanno vinto davvero, nel lungo periodo, i partigiani? Non è una domanda peregrina, tant’è che se la poneva fra gli altri lo storico orale Alessandro Portelli in un volume sulle memorie della Repubblica.

Che il modello e la vicenda dei resistenti si siano diffusamente affermati – altra cosa sono le loro aspirazioni politiche, come vedremo – è in effetti quantomeno opinabile. Un 25 aprile milanese di qualche anno fa, avvicinandomi al corteo, sentii lo scambio due ragazze perplesse: «Ma cos’è?». «Boh. Sarà la festa degli alpini». Al di là dell’aneddoto, è difficile sostenere che la storiografia resistenziale abbia fatto davvero breccia nei cuori della nazione: la Festa della Liberazione per diversi italiani resta solo un giorno di vacanza, magari con un bel ponte di mezzo.

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Tutto ciò ha a che fare con il sistema educativo, la prassi politica, l’informazione in senso largo – e la permeabilità di tutti a un costante revisionismo. Nel breve come nel lungo post-25 aprile esso ha agito non solo negando, ma soprattutto sminuendo: il fascismo come totalitarismo bonario, vagamente grottesco, molto peninsulare; l’olio di ricino una goliardata, i fascisti stessi macchiette un po’ manesche ma ligie al dovere.

In realtà Mussolini inventò un modo radicalmente nuovo di fare politica: sfruttando la rabbia e la frustrazione dei reduci rese la violenza non più un fatto eccezionale bensì la norma quotidiana. Gli squadristi la praticarono in modi tanto feroci quanto vili – l’assalto in molti contro uno, la tortura, la mutilazione, l’aumento deliberato della sofferenza altrui. Questo fu il fascismo prima ancora di incarnarsi in un regime totalitario: la rivendicazione della brutalità e dell’eccesso.

«Nei documenti coevi non si trova mai una espressione se non di rimorso, almeno di dubbio», scrive Amedeo Osti Guerrazzi nel suo eloquente e documentato Nessuna misericordia. Tale fu il modello di comportamento esibito per vent’anni e che avrebbe portato dalle aggressioni nelle campagne all’omicidio Matteotti per finire con i massacri in Africa degli anni ’30 e le stragi durante la guerra civile. La conquista del potere inquadrò e disciplinò in parte l’abitudine alla violenza spiccia, senza placarla bensì innestandola nella repressione poliziesca, in una cultura delatoria e nell’educazione di stampo militare.

Tutto ciò rende ancora più prodigioso sia l’affermarsi di un movimento resistenziale sia il contributo popolare; ma aiuta anche a spiegare cosa accadde dopo il 25 aprile.

Per cominciare, non ci fu l’epurazione tanto desiderata. Al contrario il riconoscimento pubblico dei partigiani venne subito frustrato: già dal maggio di quell’anno, osserva Michela Ponzani nel Processo alla Resistenza, «i Tribunali militari alleati iniziarono i primi arresti nell’Italia del Nord, con l’avvio di istruttorie a carico di partigiani, soprattutto garibaldini, per fatti avvenuti in guerra ma ritenuti illegittimi».

Senz’altro l’operazione non era semplice; significava «considerare anzitutto la necessità di un recupero morale di quanti, cresciuti durante la dittatura fascista, avevano bisogno di essere reinseriti nel nuovo contesto politico». Pretendere una liquidazione completa avrebbe comportato una nuova guerra civile e non sarebbe comunque stato possibile, visti anche gli accordi internazionali; né la dirigenza comunista per prima era interessata a qualcosa di simile. Ma il fallimento resta comunque pesantissimo, e assente nel discorso pubblico sulla nascita della Repubblica.

Prendiamo il caso della magistratura, che avrebbe dovuto essere la titolare ufficiale del compito: qui l’epurazione fu limitata ai soli vertici e ai personaggi più in vista; molti fra i peggiori la scamparono. Valga per tutti il giudice Carlo Alliney, talmente antisemita da denunciare Mussolini a Hitler per eccessiva tolleranza nei confronti degli ebrei (!): nel 1968 risultava ancora in servizio come presidente di sezione della corte di appello di Milano.

In generale ben pochi passi in avanti furono registrati in tal senso, se non in chiave demagogica e superficiale; la burocrazia inceppò le procedure di risarcimento dei partigiani, gli aiuti economici o i premi, per non parlare della totale rimozione del contributo femminile alla Resistenza. Tutto fu lasciato all’iniziativa dei singoli giudici, in mancanza di norme chiare: ed essendo i giudici in gran parte gli stessi del regime, le carceri repubblicane si riempirono di partigiani quando i fascisti fruivano delle amnistie.

La più famosa, emessa nel 1946 da Togliatti, precisa come la clemenza fosse esclusa fra l’altro per delitti quali omicidi e «sevizie particolarmente efferate»: ma qual era il criterio per definirle? Come per l’accertamento dell’«indole politica del delitto», in assenza di prove l’articolo 5 rimetteva ancora tutto nelle mani dei giudici: i quali amnistiarono spesso omicidi, terroristi, saccheggiatori, funzionari dell’OVRA e delatori.

Fu così che una parte rilevante della dirigenza precedente, nella polizia come nelle prefetture o nelle università, passò senza colpo ferire all’interno del corpo repubblicano. «Lo stravolgimento di spirito e sostanza dell’amnistia, attraverso sofismi e interpretazioni “disinvolte”, ha dell’incredibile», commenta Mimmo Franzinelli.

Tale tolleranza – non dovuta a sentimenti umanitari bensì a calcoli di potere – consentì anche di avere uomini senza scrupoli dove necessario, quando la conflittualità operaia e studentesca aumentò nella seconda metà degli anni ’60. Temendo una rivoluzione o anche solo e più realisticamente riforme troppo incisive, servizi segreti ed estrema destra non esitarono a ricorrere allo stragismo – a cominciare da piazza Fontana.

Così la “Repubblica nata dalla Resistenza” usciva dalla culla tra molte contraddizioni. Augurarsi che l’antifascismo diventasse la nuova religione civile degli italiani, dopo vent’anni di totalitarismo, era una pia illusione: ancora poco tempo prima si assisteva alle parate militarizzate, il ricordo delle adunate di piazza era fresco. Come pretendere una conversione integrale e genuina delle masse?

Il patto di memoria basato sull’antifascismo, già scheggiato di suo dalla mancata epurazione, cominciò presto a cedere. Le elezioni del 18 aprile 1948 segnarono un definitivo cambio di marcia: la Resistenza per una dozzina d’anni venne archiviata dalla Democrazia cristiana come un momento doloroso, che occorreva rimuovere invece di elevare a fondamento istituzionale.

Solo dopo il 1960 – con lo spartiacque delle dure proteste contro il governo Tambroni – si affermò un paradigma diverso. L’anno successivo la Rai trasmise per la prima volta una trasmissione sul 25 aprile, e la legge 128/1964 istituì «un Comitato nazionale per la celebrazione del ventennale della Resistenza, con il compito di preparare e di organizzare le manifestazioni celebrative sul piano nazionale».

Ma fin dall’inizio ciò tendeva a imporre una memoria piuttosto monolitica, incapace di restituire la varietà della Resistenza: quando invece, osserva Valerio Romitelli in un saggio molto stimolante, i partigiani «sono figure senza padri, né famiglia di appartenenza, né prole. Esistono solo per conto loro. Proprio questa realtà è quella che i miti celebrativi fanno fatica ad ammettere e quindi preferiscono sublimare».

Le bande, nucleo chiave dell’organizzazione e straordinario laboratorio di politica dal basso, vennero escluse dalla narrazione civile; e insieme a esse gli esperimenti di autogoverno locale, o il ripensamento delle norme giuridiche attuato in varie zone liberate. Lo stesso per il tema della violenza, cautamente espunto senza peraltro valorizzare con piena coscienza gli approcci nonviolenti (sabotaggi, diserzione, cura) o le letture eretiche alla cultura patriarcale dell’antifascismo, come la Resistenza delle donne.

Talvolta la rielaborazione sfocia in un relativismo vittimario, dove ogni singolo morto merita eguale pietà. In astratto e in buona fede è una nobile idea, ma in concreto significa parificare il brigatista nero ammazzato in un agguato e la ragazzina che egli violentò e uccise durante una strage.

In altri casi infine assistiamo a un uso pigro della Storia, dove i venti mesi di guerra partigiana hanno ormai assunto un valore taumaturgico: nella sintesi di Paolo Carusi e Marco De Nicolò, «i concetti di guerra di popolo e di secondo Risorgimento avevano come effetto una sorta di sostanziale condono morale del comportamento degli italiani, riscattati in blocco». Nessuno sforzo è richiesto agli eredi dei partigiani: basta dirsi antifascisti per riscuotere impudicamente il credito morale che altri pagarono a carissimo prezzo; l’hanno fatto e lo fanno tuttora centinaia di politici, intellettuali, dirigenti.

Insomma il 25 aprile, come ogni festa ad alta temperatura emotiva, è stata strumentalizzato a seconda dei bisogni del dopo: anticomunista, procomunista, patriottica, persino goffamente europeista, e com’è ovvio anti-antifascista da parte del MSI. Poteva servire per delegittimare gli avversari (la DC contro il PCI) o accreditarsi come vera forza democratica (il PCI contro la DC).

Non solo: persino tentare una rivendicazione “pura e semplice” della Resistenza si offre a mistificazioni; per esempio insistendo soltanto sull’eroismo e il martirio dei partigiani. Non dobbiamo scordare che molti fra essi si diedero alla lotta perché renitenti, perché non sapevano che fare, per vendicare un amico, per gusto dell’avventura banditesca: e questo, invece di sminuirli, li rende ancora più autentici e preziosi.

Dopo aver osservato per un poco il corteo, Sergio e Anna – la protagonista dei Giorni veri di Zangrandi – si allontanano pensierosi; e il libro finisce così:

«Si va giù a passo per i vicoli, via dalla piazza, estranei, con uno stomaco che deve ingoiar qualcosa e un barlume di pensiero che domani tenterà di orientarsi “in questo casino”, per continuare a fare quel che volevano i morti».

I morti volevano liberare la patria – non come idea astratta bensì nella realtà locale di paesi, strade, campi, stazioni, case – ma volevano anche un altro mondo. Un ordine diverso di rapporti umani, vissuto diversamente a seconda dell’indole o del colore politico, ma con alcuni tratti comuni: innanzitutto appunto il rifiuto del fascismo: la negazione della violenza come unico mezzo e fine, l’indole guerrafondaia, la riduzione della donna ad angelo del focolare, il nazionalismo efferato e così via.

Tutto ciò venne vissuto istante dopo istante, nei corpi molto prima che nelle parole, attraverso quotidiani atti di disobbedienza radicale. Ma come coniugare le bande con l’istituzione, le Repubbliche partigiane con gli accordi di Yalta, i CLN con i partiti di massa, o l’ebbrezza dell’avventura con la politica di palazzo? La trasformazione sociale invocata aveva talora tratti millenaristici, non privi di commovente ingenuità; tuttavia non possiamo prendere l’esperienza soggettiva quale unico metro di giudizio.

Gian Enrico Rusconi ha sottolineato che in ogni caso grazie alla Resistenza abbiamo avuto una democrazia non ideale, certo, ma reale. Libertà, ricostruzione, energie nuove, la Costituzione: è moltissimo, considerate «le opportunità effettivamente disponibili per le forze politiche, […] i vincoli di una situazione economica e sociale difficile e […] le incertezze del consenso popolare». Un realismo che scontenta gli animi infiammati, ma con il quale occorre pur fare i conti.

Però il realismo non dovrebbe nemmeno lasciare porta aperta al cinismo, o alla celebrazione cieca. Non si tratta di speculare ancora una volta sul mito della Resistenza tradita, comprensibile per chi combatté all’epoca ma che generò cattivi frutti poi. Si tratta di riaffermare che attraverso gesti di sconcertante altruismo i partigiani non liberarono solo un Paese, ma posero anche il problema radicale del destino di una comunità libera. Ecco invece quanto scriveva nel 1945 Guglielmo Giannini, il fondatore dell’Uomo qualunque, dando voce a un diffuso sentimento:

«Noi vogliamo vivere tranquilli, non vogliamo agitarci permanentemente come non abbiamo voluto vivere pericolosamente: vogliamo andare a teatro, uscire la sera, recarci in villeggiatura, trovare sigarette, ordinarci un abito nuovo, salire in autobus, non fare la guerra, salutare chi ci pare, non salutare chi non ci pare. […] Ciò che noi chiediamo, noi gente, noi Folla, noi enorme maggioranza della Comunità, noi padroni della Comunità e dello Stato, è che nessuno ci rompa più i coglioni».

Evitiamo di sorridere. Le aspirazioni di Giannini sono comuni a tutti noi: chi non vorrebbe andare a teatro, scansare la guerra, distribuire saluti come gli va? È la vita normale – la vita qualunque, appunto – e mi domando quanti irriducibili parolai di oggi avrebbero sottoscritto quei desideri all’epoca, in una nazione devastata e ridotta alla fame.

Ciò non toglie che la pulsione qualunquista non possa essere un ideale comunitario: è al massimo una base da cui crescere come individui, rendere la società più equa e libera. Ecco allora il punto: i partigiani erano pronti a rompere costantemente i coglioni. Non avrebbero mai raccontato una storia pacificata, svuotata dal conflitto. Per questo dovevano prima essere messi a tacere, e poi neutralizzati con la forza del rito.

Ma allora come raccontiamo questa storia agli adolescenti magari di seconda o terza generazione, ottant’anni dopo? Temo che pretendere di attrarli con la monetina della retorica, moderata od oltranzista che sia, serva a ben poco. Potremmo invece ribadire che i partigiani, lungi dall’essere tutti severi antifascisti della prim’ora, erano per la maggioranza ragazzi e ragazze. Giovani, ribelli e con le idee all’inizio poco chiare: ma non desiderosi di morte, come i loro coetanei fascisti; bensì di un mondo più felice per tutti. E nella lacerazione della guerra, nell’incertezza di ogni giorno, provarono a vivere questo mondo fin da subito. Non è un caso che se il fascismo vietò di ballare in pubblico, furono loro i primi a riappropriarsi di tale forma di gioia collettiva.

Ecco allora l’Anna di Zangrandi che si sente presa dagli eventi «come quando si casca in una gran cotta per un ragazzo» e attraversa con sconvolgente audacia i ghiacciai in solitaria. Ecco Ada Prospero Gobetti che celebra l’amicizia quale «il significato intimo, il segno della nostra battaglia»; o il Milton di Fenoglio che non sa come tenere insieme amore e lotta.

Si dirà: ma tutto questo è sentimento, al più etica, integerrima senz’altro, però la politica resta altro. Va bene. Ma una politica che si dimentica di tale spirito è davvero povera cosa. Allora meglio abbeverarsi all’esperienza diretta dei partigiani, non al giudizio addomesticato di chi poté nascere, appunto, dopo. Nelle parole di Giuseppe Filippetta, ricordare «che una generazione di giovani, nel vuoto di ogni autorità statale, è stata capace di agire sovranamente per rendere libero il mondo significa custodire, per chi c’è e per chi verrà, una possibilità e una responsabilità».

Dunque: rompeteci ancora i coglioni, dovremmo dir loro contro Giannini. Anche perché gli unici che potrebbero protestare in tal modo – e in un senso radicalmente opposto al qualunquismo – sono proprio i partigiani, come scrive Nino Pedretti in un’omonima poesia:

«Non per ragioni di gloria
andammo in montagna a far la guerra.
Di guerra eravamo stufi, di patria anche.
Avevamo bisogno di dire:
lasciateci le mani libere,
i piedi, gli occhi, le orecchie;
lasciateci dormire nel fienile con una ragazza.
Per questo abbiamo sparato
ci siamo fatti impiccare
siamo andati al macello
piangendo nel cuore con le labbra tremanti.
Ma anche così sapevamo
che di fronte ad un boia fascista,
noi eravamo persone
e loro marionette.
E adesso che siamo morti
non rompeteci i coglioni con le cerimonie,
pensate piuttosto ai vivi
che non abbiano a perdere anche loro
la giovinezza».

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