Amo Tex Willer, dannazione
«Il ranger del Texas mi piaceva e mi piaceva parlare come lui. Imparavo un sacco di parole nuove: “cribbio”, “tanghero”, “scartoffie”. Per questo, in tutte le classi in cui mi è capitato di insegnare, ho fatto in modo che le alunne e gli alunni lo conoscessero»

Qualche mese fa durante la ricreazione, un mio alunno di prima liceo è venuto alla cattedra e mi ha chiesto: «Prof., scusi la domanda, ma chi è Tex? Ho visto che ha la sua immagine come logo della mail d’istituto e un adesivo lì sull’agenda…». Ho provato a spiegargli che Tex è un fumetto, un uomo in camicia gialla ma anche un vero eroe, buono, un cavaliere senza macchia, ma anche – talvolta – un detective come quelli che avevamo appena studiato in antologia. Il giorno dopo gli ho portato Acqua alla gola, episodio numero 309, uno dei miei albi preferiti, e l’indomani il mio alunno è tornato soddisfatto. Mi ha chiesto di leggere il seguito, voleva sapere come Tex avrebbe evitato una terribile epidemia a San Francisco, e mi ha fatto una domanda che mi è rimasta in mente: «Ma chi è davvero Tex? Chi è per lei?».
L’ho conosciuto che avevo sei anni; era settembre, mancava poco alla fine del secolo. Trottavo insieme a mio fratello dietro a nostro padre verso un’edicola del paese sulle rive del Po dove siamo nati. Sulla copertina di Missione speciale, episodio numero 450, che mio padre aveva comprato, c’era un uomo – camicia gialla e Colt 45 in mano– che risaltava su un cielo notturno, davanti al Campidoglio di Washington illuminato dalla luna. Non avevo mai visto una cupola e le pieghe di un abito disegnate così bene.
Nostro padre adocchiò una panchina nel parco lì accanto, ci posizionò uno alla sua destra e uno alla sua sinistra, e iniziò a leggere. All’inizio guardavamo solo i disegni, non ci importava nulla della storia e delle scene – interminabili – in cui i personaggi dialogavano. Poi, piano piano, cominciammo a prestare attenzione anche alle parole racchiuse nelle nuvolette. E quel gesto mi sembrò così bello che da allora non ho più smesso.
– Leggi anche: Il fumetto argentino più importante di sempre, scritto da un desaparecido
Perché Tex, l’intrepido giustiziere, il ranger del Texas, il saggio capo bianco della tribù indiana dei Navajo, creato nel 1948 da Gianluigi Bonelli e Aurelio Galleppini, mi piaceva. Mi piaceva come parlava; e mi piaceva parlare come lui. Imprecare come lui: le maestre si stupivano nel sentirmi pronunciare «dannazione», «cribbio» o «peste». Le sue sentenze («adesso facciamo i conti» o «non ho ancora finito con te») entravano nelle mie chiacchiere con gli amici e nei miei temi di scuola. Cavalcando con lui, imparavo un sacco di parole nuove come «cautamente», «frattanto», «tanghero», «oppio», «trippone», «scartoffie»; scoprivo che cos’è un “arroyo” (letto di un torrente in secca) o che il fucile non ha altro nome che “Winchester”.
– Leggi anche: Vita di un giallista da edicola
Mi piaceva anche che la sua presenza scandisse il mio tempo: crescevo nell’attesa del giorno più fausto di tutti, il 7 di ogni mese, e nella convinzione che il profumo di inchiostro del “Texone”, l’albo gigante dalla costina bianca e azzurra in edicola a fine giugno, fosse la sola garanzia dell’inizio dell’estate e che, fianco a fianco, tutti quegli albi formassero una piccola enciclopedia del vivere perché ogni numero conteneva uno spunto.
Anche quando ai tempi bizzarri delle medie si insinuarono le domande dell’amore, cercai nuove risposte nel mio vate. Sfogliavo le pagine di Il giuramento, episodio numero 104, in cui Tex si commuoveva – un unicum nella saga – per la morte della moglie Lilyth, uccisa da un’epidemia scatenata dagli uomini bianchi, ed ero colpito dalla sua decisione di non risposarsi mai più: un rapporto forte genera sempre buoni ricordi, sembrava suggerire quella scelta radicale, quasi monastica. Non so se sia stato il cocktail di Super-io e catechismo a inebriarmi, ma la fedeltà era un valore così denso, in quelle pagine, un’idea così convincente che, da allora, ha convinto anche me.
Durante le ore di matematica del liceo, laggiù nelle ultime file, ho ringraziato con tutto il cuore che il ranger esistesse e che il suo formato 16×21 fosse compatibile con quello del manuale di geometria analitica. Come in ogni amicizia vera, ho assimilato anche qualche suo lato che non mi ha fatto bene. Sono cresciuto amando i giudizi netti e definitivi, per esempio: Tex però non si sbaglia mai, mentre a me capita quasi sempre. Magre figure. Ho anche imparato da lui che la divisione tra bene e male si intuisce fin dalle prime battute e che dallo sguardo si può comprendere all’istante l’animo di chi hai davanti. Ed ecco, sarà la miopia, ma nel quotidiano la cosa è maledettamente più spinosa. Così ho compreso molto più tardi di altri che vivere – per dirla alla Philip Roth – significa proprio capirle male, le persone.
Nel tempo la nostra amicizia ha attraversato qualche momento di crisi. Un po’ perché mi rendevo conto che lui era amato da tante altre persone (per molti anni ho odiato lo scrittore Fabio Geda per aver scritto un romanzo in cui il mio amico Tex era il mito del protagonista: come si era permesso?), un po’ perché io cambiavo mentre lui rimaneva sempre identico.
Era normale: lui le sue scelte le aveva già fatte, mentre io al liceo e all’università stavo ancora cercando di intuire dove portasse la mia pista. Ma mentre guidavo per la prima volta, davo un esame di letteratura greca o cercavo di scrivere un curriculum, di una cosa ero certo: che Tex era sempre là, a cavalcare nel deserto, inseguendo banditi, sfasciando saloon e offrendo poi da bere a tutti. Ma, magia, ogni volta in cui ci perdevamo di vista lui tornava, per esempio quando una prof. di storia dell’arte mi consigliava di imparare a riconoscere il segno di Botticelli e Mantegna esercitandomi a distinguere il tratto dei disegnatori di Tex come Giovanni Ticci, Claudio Villa o Guglielmo Letteri.
Leggendo Tex Willer. Un cowboy nell’Italia del dopoguerra, un bel saggio di Elizabeth Leake, pubblicato dal Mulino nel 2018, credo di aver intuito il segreto del suo fascino: Tex ha dentro di sé l’America e l’Italia, l’America vista dall’Italia, il cinema e il romanzo e poi, soprattutto, il dopoguerra. Quell’uomo dalla camicia gialla che avevo incontrato a sei anni era nato sulle macerie dei bombardamenti, per traghettare i suoi lettori in un mondo altro (non a caso il suo west è sempre far) mentre il nostro veniva ricostruito.
Nonostante vivesse in Arizona, in lui ci si poteva rispecchiare: anche Tex aveva qualcosa da dimenticare come gli italiani di allora, era stato un bandito o almeno dalla parte sbagliata della legge, e aveva dovuto arrangiarsi; anche lui era sopravvissuto a una guerra civile (quella tra confederati e unionisti, con cui aveva militato contro lo schiavismo) e non ne parlava volentieri; anche lui aveva una voglia matta di divorare il presente, tacendo il passato. Provava sfiducia per lo Stato e per «gli alti papaveri di Washington», per dirla a modo suo: in una delle sue prime storie guida persino, insieme all’amico Montales, una rivoluzione per ribaltare la dittatura messicana, «capeggiata da un gruppo di loschi avventurieri che stanno portando il paese alla rovina». Nel suo bagaglio genetico, però, c’era anche l’altra faccia della medaglia: il ventennio e tutto il suo immaginario eroico.
Il Tex delle origini non assomigliava per niente ai cowboy biondi e rubicondi della cinematografia. Era atletico, sanguigno, un po’ smargiasso e con un’idea contadina della giustizia: italianissimo. Le due anime erano intrecciate in modo inedito, ma il tratto che me lo rendeva vicino era un altro: alla fine, dopo aver fatto la rivoluzione, punito il sopruso e restituita la refurtiva, Tex usciva di scena, come scrive Elizabeth Leake, «diretto verso nessun luogo in particolare, con la sola certezza che, nonostante abbia creato un nuovo mondo, egli non vi appartenga più». Era proprio lì, in quell’attitudine un po’ cinica, ma anche romantica che sentivo essere appartenuta ai miei avi, in quel suo sentimento di perenne insoddisfazione, ma anche di disinteressato pragmatismo, che si celava per me l’incantesimo delle sue cavalcate.
Anche oggi, a trentadue anni, continuo a leggere Tex ogni mese. Lo faccio in un’ora buca, in sala insegnanti, sul treno o con il cielo sopra la testa. Leggo a mente, rapido, ma lo analizzo con attenzione e certe volte non mi piace: con suo figlio Kit è un padre presente, ma un po’ afasico. Un maschio di altri tempi non può mostrare debolezze o indulgere in sentimentalismi, perché nella dura legge del west gli empatici duravano poco. A volte mi pare anche un tantino grossolano: le ingiustizie che vedo intorno a me non si possono risolvere sequestrando un riccone e incendiandogli la casa; ci vuole tempo, costanza e una gran fatica. Ma il senso della mia ammirazione rimane intatto: Tex per me è l’ideale a cui tendere per essere un uomo e un cittadino migliore.
Per questo sbaglia chi cerca di incasellarlo politicamente. Il suo pregio più grande è il senso di urgenza: adesso, non domani c’è una realtà da migliorare, quindi sii retto e abbi cura della tua pòlis. L’intento pedagogico nelle sue vignette è un tantino moralista e didattico, ma non è mai palese. Per questo, in tutte le classi in cui mi è capitato di insegnare, ho fatto in modo che le alunne e gli alunni lo conoscessero e dietro ai banchi, talvolta, mette radici un piccolo rito mensile che incoraggio con tutto l’entusiasmo di cui dispongo. Il mio alunno che mi aveva chiesto chi fosse Tex Willer, oggi lo legge ogni mese.
La settimana scorsa, uscendo da scuola, ci siamo confrontati sull’ultimo albo ed ero felice. Mi sono accorto che anche se parlavamo di Tex, in realtà parlavamo di noi, quelle vignette disegnavano anche un po’ il nostro vivere e mi è sembrato, non so perché, che tutto il resto – cribbio! – non contasse.
– Leggi anche: Ricordate quando i fumetti erano una cosa da nerd?