Investigando sul grande sopruso subito dalla trisnonna Pierina

«Per lavoro ho smascherato avi imbroglioni e riabilitato bugiardi, poi un giorno mi sono messa a cercare la verità su una mia ava, nata nel marzo del 1875 a Venezia, la novantatreesima bambina abbandonata quell'anno»

La lapide sulla ruota degli esposti in calle della Pietà a Venezia (foto Giulia Depentor)
La lapide sulla ruota degli esposti in calle della Pietà a Venezia (foto Giulia Depentor)
Giulia Depentor
Giulia Depentor

Si occupa di esplorazione cimiteriale, ricerca genealogica e narrativa investigativa. Il suo ultimo libro è Dinastia (Feltrinelli, 2024), il suo ultimo podcast MIKE - Storia di una salma rubata (OnePodcast, 2024).

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Quando qualcuno mi assume per fare ricerca genealogica sul passato della sua famiglia, inizio sempre con lo stesso avvertimento: «Se cerco, qualcosa trovo. E potrebbe non piacerti». È una frase che ho ripetuto decine di volte, non tanto per le brutte sorprese (rare) quanto per la possibilità di venire a contatto con storie dolorose che in qualche strano modo ancora ci riguardano. E infatti qualcosa del genere è successo anche a me, quando mi sono messa in testa di investigare sul «grande sopruso subito dalla mia trisnonna Pierina».

La prima fase di ogni ricerca è l’ascolto: le storie tramandate in famiglia sono un filo sottilissimo e delicato che collega il passato al presente. I racconti orali possono essere ricchi di aneddoti e informazioni, ma spesso vengono trasmessi in modo distorto o lacunoso, a volte addirittura arricchiti da particolari inventati nel corso del tempo. È normale, fa parte del gioco ed è compito dei genealogisti individuare il preziosissimo fondo di verità di ogni leggenda, ricostruendo le storie e ripulendole dalle incrostazioni degli anni.

Per lavoro ho smascherato avi imbroglioni, e ho riabilitato bugiardi, ho rintracciato antenati fuggiti all’estero, riscoperto storie cancellate e svelato segreti e silenzi che si sono propagati, spesso lasciando dolorosi strascichi, nel corso delle generazioni. Ogni volta che una mia ricerca ha successo, è come se una storia familiare smettesse di essere semplicemente un racconto per diventare un legame tangibile con la vita di persone morte decenni o secoli prima, di cui si è persa memoria.

Tra tutte le vicende sulle quali ho lavorato, ce n’è una che riguarda una parte oscura della storia della mia famiglia e che mi ha fatto conoscere un fenomeno sociale molto diffuso alla fine dell’Ottocento e oggi quasi dimenticato. È una storia che – con le sue inesattezze – mi veniva raccontata da mia nonna Isetta. Ricordo benissimo i suoi occhi che fiammeggiavano di indignazione quando mi parlava della mia trisnonna Pierina, presunta figlia illegittima di un conte trevigiano non meglio identificato. Nessuno di noi, e meno di tutti mia nonna, ha mai desiderato un titolo nobiliare, tuttavia quell’ingiustizia, che lei chiamava «il grande sopruso», bruciava ancora, sebbene fossero passati moltissimi anni e nessuno avesse mai fatto nulla per andare a fondo della questione.

La versione ufficiale era un classico del poverissimo mondo contadino veneto del 1800 da cui la mia famiglia proviene: la “contessina mancata”, in teoria, era la figlia di un’ava che, scampata al suo destino di villica, era stata assunta come domestica in una casa nobiliare dove era stata messa incinta dal padrone, un conte, che si era rifiutato di riconoscere la neonata, condannandola a un destino da “figlia di padre ignoto”, stigma piuttosto pesante da portare in quel periodo e un po’ anche oggi.

Tanti dettagli, però, non tornavano. Nessuno sapeva chi fosse questo fantomatico “conte”, tanto per cominciare, e nessuno aveva mai pensato di chiedere alle dirette interessate, quando erano ancora in vita, la loro versione dei fatti. 

Era una storia raccontata chissà quante volte e da chissà quante persone, e si erano persi quasi tutti i dettagli necessari ad avviare un’indagine. A un certo punto, lo ammetto, ho anche pensato che il conte fedifrago fosse un’invenzione per coprire qualcosa che era considerato scabroso e inaccettabile nell’Ottocento, una figlia nata fuori dal matrimonio. Ma ogni leggenda ha il suo nucleo di verità e il compito del genealogista è individuarlo ricostruendo tutto a partire da zero – e magari, chissà, ottenendo il titolo nobiliare ingiustamente negato.

[Spoiler: la verità l’ho scoperta, ma non sono ancora diventata contessa.]

Il primo e più grosso problema di chi fruga nel passato è che i protagonisti delle ricerche sono morti da decenni: in loro assenza, quindi, dobbiamo indagare basandoci sui documenti anagrafici che li riguardano, con la speranza che non siano andati distrutti durante guerre, alluvioni e disastri vari. Questi documenti vengono in genere conservati negli Archivi di stato civile e negli Archivi parrocchiali, assieme a tutto ciò che riguarda le tappe salienti delle vite degli antenati: nascite, matrimoni, adozioni, divorzi, cambi di residenza, espatri, morti, e così via. 

Leggendo queste pagine ingiallite vergate con calligrafie svolazzanti a volte incomprensibili, bisogna tenere a mente che, se a una prima consultazione potrebbero non rivelare nulla di anomalo, l’analisi certosina di ogni singolo elemento può far scoprire segreti: annotazioni a margine, parole sibilline e dettagli stonati sono tutti particolari che, se valutati con attenzione, possono mettere sulla buona strada.

San Donà di Piave, Archivio parrocchiale, Registro degli atti di morte (141/1947) (foto Giulia Depentor)

Per ricostruire la storia della nascita di Pierina, la presunta figlia del conte, ero partita dalla fine, cioè dalla sua morte (l’unico vago riferimento che possedevo su di lei). 

«Pierina residente a S. Donà, nata a Venezia di anni 72, casalinga, vedova morì il 6.8.1947, ore 14.30 in via Nazario Sauro per causa di poliatrite. Dopo le preci di rito, la salma fu oggi tumulata in questo cimitero 7.8.1947»

L’atto che raccontava i dettagli della sua dipartita era inusuale perché non comparivano i nomi dei suoi genitori. [Per i poco avvezzi: normalmente, il nome del protagonista del documento è seguito dai nomi dei genitori preceduti dalla parola “fu” se erano già morti, “di” se invece erano ancora vivi al momento della compilazione dell’atto.]

Certo, questi documenti venivano redatti a mano direttamente dai parroci e gli errori erano abbastanza frequenti. Nel caso della mia trisnonna, l’omissione dei genitori poteva essere spiegata benissimo con una distrazione. Oppure no. Avevo un indizio, ma ancora nessuna prova e l’unico modo per confermare la teoria di mia nonna Isetta era effettuare un controllo incrociato su una fonte diversa.

Il documento parrocchiale mi regalava due informazioni importanti – l’età di Pierina al momento della sua morte e il luogo in cui era nata – grazie alle quali avrei individuato senza problemi il suo atto di nascita all’Archivio di stato civile di Venezia, trovando conferma delle congetture di mia nonna e a quel punto anche mie: Pierina era proprio una figlia illegittima.

Venezia, Archivio di stato civile, Registro degli atti di nascita (885/1875) (foto Giulia Depentor)

Pierina era nata nel 1875 da «una madre che non consente di essere nominata» a un indirizzo che corrisponde ancora oggi a quello dell’ospedale civile di Venezia. Nelle annotazioni finali, il segretario comunale dichiara che la bambina venne subito portata all’Istituto degli Esposti della città. 

Perché, senza esitazione, avevo capito che Pierina era davvero la figlia illegittima di un conte? Per una piccola stranezza contenuta nel documento. Ancora una volta si trattava solo di un indizio, ma l’istinto del genealogista non sbaglia quasi mai.

«Alle ore antimeridiane una […] del dì venticinque del corrente mese, nella casa posta in Castello al numero seimila, da una donna che non consente di essere nominata, è nato un bambino di sesso femminile».

Era sicuramente strano che la poverissima madre ignota di Pierina (la famosa domestica), dalla provincia di Treviso dove viveva e lavorava, fosse arrivata fino a Venezia (un’isola, ricordiamolo) per partorire addirittura in ospedale, cosa che all’epoca era veramente rara anche per i ceti più abbienti.

La prassi, invece, era piuttosto diffusa tra i nobili che seminavano in giro figli illegittimi: per risolvere la situazione ed evitare ulteriori problemi e rivendicazioni, spedivano la partoriente il più lontano possibile da casa, meglio se in un luogo dove nessuno avrebbe potuto riconoscerla. A quei tempi tutti i parti avvenivano in casa, compresi quelli illegittimi: era la levatrice o qualche persona di fiducia, eventualmente, a portare il bambino all’Istituto degli Esposti per farlo sparire, ma partorire in ospedale non era necessario, anzi. Forse invece il conte, volendo azzerare il rischio di pettegolezzi, aveva mandato la mia quadrisavola a partorire nell’ospedale di Venezia in modo anonimo e lontano da sguardi indiscreti, dopo di che la piccola Pierina era stata spedita agli Esposti. Problema risolto.

Anche se sembra un po’ stonato, in un certo senso Pierina era stata fortunata. Sua mamma aveva potuto usufruire di una novità introdotta in quel periodo: la possibilità di partorire nel totale anonimato in una struttura pubblica, e di affidare in seguito la figlia alle cure della Chiesa.

L’introduzione del parto anonimo aveva concesso una possibilità di sopravvivenza a tutti quei figli illegittimi (nati da unioni problematiche o da violenze – da tutte quelle situazioni, cioè, in cui a una donna nubile non veniva lasciata molta scelta) che prima di allora venivano abbandonati un po’ ovunque e a qualsiasi condizione, con poche possibilità di sopravvivenza. I registri parrocchiali dell’epoca sono pieni di battesimi somministrati in extremis a bambini trovati già morti o in fin di vita nei luoghi più disparati. Il parto anonimo in ospedale contribuì ad arginare abbandoni indiscriminati e infanticidi, ma allo stesso tempo intensificò gli abbandoni legali, che negli ultimi decenni dell’Ottocento raggiunsero il loro apice (tanto per fare un esempio, la mia trisnonna, nata nel marzo del 1875, era già la 93ª bambina abbandonata a Venezia quell’anno).

Quando il parto avveniva in casa (o in altri luoghi che non fossero l’ospedale pubblico), l’abbandono si verificava attraverso la cosiddetta “ruota degli esposti”, un meccanismo che, oltre a garantire l’anonimato, scongiurava anche il pericolo che il bambino potesse morire in attesa di essere trovato. Si trattava di una semplice struttura girevole posizionata in prossimità di chiese o conventi, composta di due settori, uno esterno all’edificio e uno interno: il bambino veniva adagiato nella parte esterna e poi, mediante la rotazione della struttura, trasportato all’interno dove sarebbe stato raccolto e messo al sicuro. 

I bambini, accolti nei vari istituti religiosi, andavano incontro a diverse sorti. Pochissimi fortunati ritornavano alle loro famiglie di origine. La maggior parte degli abbandoni, infatti, era causata dalla povertà: erano bambini legittimi, ma i genitori non avevano i mezzi per nutrirli. Per questo potevano essere esposti con un segno di riconoscimento (di solito un santino strappato a metà) grazie al quale i preti prendevano atto della volontà di ricongiungimento e i genitori (che conservavano l’altra metà) avrebbero potuto provare la parentela al momento del recupero.

Si trattava, però, di rarissimi casi. Per la maggioranza dei trovatelli, il destino era più triste: alcuni rimanevano negli orfanotrofi e morivano di malattia o di stenti, altri venivano adottati da famiglie che, dietro un contributo per il mantenimento, li sfruttavano come lavoratori di campagna. Per questo, alcuni ritengono che le ruote non facessero altro che prolungare la sofferenza di questi bambini, rimandando semplicemente il momento della loro morte.

Calle della Pietà a Venezia: il luogo in cui si trova l’Istituto degli Esposti (foto Giulia Depentor)

La mia trisnonna, invece, era morta a 72 anni, quindi aveva attraversato il periodo critico dell’infanzia ed era riuscita in qualche modo a diventare adulta. Ma a che prezzo? Come aveva vissuto la sua condizione? Sapevo che molti segreti sulla sua vita mi sarebbero stati rivelati all’Istituto degli Esposti di Venezia, fondato nel 1346 come orfanotrofio e ancora oggi esistente come ente di ricerca e museo. La calle della Pietà, dove si trova, è un luogo che, a partire dal suo nome, porta ancora tutti i segni del suo drammatico passato.

Calle della Pietà a Venezia: la ruota degli esposti (non originale) (foto Giulia Depentor)

La calle è stretta e quasi scompare accanto alla magnifica chiesa di Antonio Vivaldi, che le ruba tutta la scena. Appena si gira l’angolo, ci si trova di fronte a un semplice capitello provvisto di una fessura a salvadanaio per raccogliere le offerte destinate ai trovatelli. Poco più avanti si apre l’ingresso della famigerata ruota che oggi è stata inglobata da un ristorante che la utilizza come vetrina. In realtà – mi ha spiegato dopo la responsabile dell’archivio – la ruota originale non si trovava esattamente in quel punto, ma la struttura è comunque molto simile e dà l’idea di come potesse presentarsi il varco di ingresso per gli anonimi trovatelli.

A metà calle, un altro capitello ammonisce i passanti con una specie di anatema. 

Calle della Pietà a Venezia: particolare di un capitello (foto di Giulia Depentor)

«Fulmina il Signor Iddio maleditioni, e scomuniche contro quelli quali mandano ò permettano syno mandati li loro figlioli, e figliole si legittimi, come naturali inquesto hospedale della pietà havendo il modo, e faculta di poterli allevare esseendo obligati al resarcimento di ogni danno, e spesa fatta per quelli, ne possono esser assolti se non sodisfano, come chiaramente appare nella bolla di nostro signor Papa Paolo Terzo.
Data, adì 12 novembre, l’anno 1548».

Va bene tutto – sembra dire il capitello – ma portateli qui solo se è davvero necessario!

Quasi alla fine della calle, sulla sinistra, si entra nel vecchio orfanotrofio che ha confermato tutti i miei stereotipi sugli istituti ottocenteschi, corridoi tetri ed enormi crocifissi compresi. Nella sala studio l’archivista mi ha illustrato pagina per pagina il fascicolo con la documentazione di Pierina relativa alla sua vita da “esposta”, dal suo ingresso in istituto fino al matrimonio che segnò il momento formale a partire dal quale lei non fu più “responsabilità” della Chiesa. 

Venezia, Archivio dell’Istituto degli Esposti, la copertina del fascicolo dedicato alla trisnonna Pierina (foto di Giulia Depentor)

«Era preferibile che i trovatelli venissero introdotti subito alla vita esterna», mi ha spiegato l’archivista, «tenerli in orfanotrofio era proprio l’ultima possibilità». L’istituto contava su una rete di supporto diramata nel territorio e composta da diverse figure, a partire dalle balie, donne che avevano già dei figli ma ne accoglievano altri in casa per allattarli e svezzarli in cambio di un contributo in denaro. Poi c’erano le famiglie affidatarie che si occupavano dei bambini, sempre dietro compenso, e talvolta li adottavano; e le tenutrici, infine, che erano incaricate di trasportare i neonati dall’istituto alla casa della balia e viceversa. Importante era anche il contributo dei parroci e dei medici locali che svolgevano dettagliatissime indagini, fornendo delle vere e proprie relazioni all’istituto sulle condizioni economiche e di salute di balie e famiglie, nonché sulle loro doti morali e cattoliche. 

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Le storie dei trovatelli si intrecciavano spesso con altri drammi e situazioni di estrema povertà: la prima balia di Pierina, per esempio, aveva accolto in casa la mia trisnonna perché il suo bambino era morto a un mese di vita e lei, spinta dal bisogno e avendo ancora latte, si era offerta di svezzare una trovatella. La seconda famiglia affidataria aveva espresso il desiderio di adottarla, ma poi l’aveva rimandata in orfanotrofio «per mancanza di mezzi».

Venezia, Archivio dell’Istituto degli Esposti, esempio di indagine svolta su una famiglia alla quale fu affidata la trisnonna (foto di Giulia Depentor)

A funzionare, almeno all’apparenza, fu il terzo tentativo. Pierina, che ad appena tre anni aveva già vissuto in varie case sparse in diverse province venete, fu accolta da una famiglia del trevigiano; dopo di che le annotazioni su di lei si interruppero per circa 15 anni. No news is good news, come si suol dire: il fatto che non siano registrati altri spostamenti significa che la mia trisavola non fu rimandata indietro e forse conobbe per la prima volta una stabilità. I documenti riprendono nel 1895 quando la diciannovenne Pierina decise di sposarsi con un uomo di nome Luigi. Essendo minorenne, aveva bisogno del permesso del Pio Istituto che, ancora una volta, chiamò il parroco locale e gli chiese un rapporto completo sul pretendente. È un bravo cattolico? Potrà prendersi cura della moglie e dei futuri figli? È di costituzione sana e robusta? 

Luigi passò il severo esame e la dote di Pierina fu sbloccata. Il matrimonio sembrava imminente. La piccola somma di denaro che spettava di diritto ai trovatelli era probabilmente la loro unica qualità sociale. I figli di ignoti non godevano di buona fama (qualcuno sostiene, senza prove, che la dicitura m.ignota che si trovava nei documenti sia all’origine di un epiteto offensivo diffuso ancora oggi nella lingua italiana) e fu forse proprio per questo che, improvvisamente, l’accordo per il matrimonio saltò, senza ulteriori spiegazioni. 

Poco più di un anno dopo, tuttavia, nel documento si fa avanti un secondo pretendente di nome Lorenzo. Anche Lorenzo passò il severo esame del parroco, e diventò il mio trisnonno.

Il fascicolo di Pierina finisce così, con la ricevuta della dote, questa volta regolarmente elargita. 

Nella sua cartellina non ci sono santini strappati a metà, lettere o messaggi: segno che nessuno la voleva e che il suo destino era chiaro fin da subito. 

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Mi sono chiesta tante volte che carattere avesse Pierina e se i fantasmi del suo passato l’avessero perseguitata per tutta la vita. Mi sono fatta tante domande anche sulla mia quadrisavola, sua mamma, il cui nome è stato per sempre cancellato dietro una riga in linguaggio burocratico in un registro di stato civile: «una donna che non consente di essere nominata».

Probabilmente desiderava davvero rimanere anonima, eppure l’ho cercata ugualmente, contattando in una sorta di cieca pesca a strascico tutte le ville nobiliari della zona per chiedere di visionare i registri del personale. Senza successo.

Sarà stata bella la sua vita di povera domestica ripudiata e macchiata dalla colpa di un figlio illegittimo? Il “conte”, in uno scrupolo di coscienza, si sarà occupato in qualche modo di lei? Le avrà dato dei soldi – quanti? – per liberarsi della colpa?

Nei documenti, tanti e molto dettagliati, non c’era nessuna risposta. 

Non esistono foto di Pierina, eppure mia nonna si diceva sicura che i tratti del suo viso fossero indiscutibilmente nobili, qualunque cosa questo possa significare. Li ho cercati nel viso della sua unica figlia, la mia bisnonna Angela Virginia, che mi guarda severa ogni volta che vado in cimitero a visitare la sua tomba e sembra quasi dirmi che potrei impegnarmi di più. 

Nessuno dei miei parenti – neanche i più anziani – ricorda altro. Paradossalmente, sono stata io a raccontare loro i dettagli che ho letto nelle carte ingiallite del suo fascicolo. La mia indagine doveva fermarsi. La ricerca genealogica è fatta anche di questo: c’è un momento in cui si deve accettare che non si faranno progressi immediati, ed è meglio aspettare una svolta o un’illuminazione.

Proprio quando stavo per mettere da parte la storia di Pierina, mia mamma si è ricordata di un vago racconto, di per sé non decisivo, ma che aggiunge una pennellata al quadro di questa vita che sta sbiadendo inesorabilmente.

Nel 1944, quando San Donà di Piave fu pesantemente bombardata, Pierina aveva quasi settant’anni ed era ricoverata nella casa di riposo cittadina. Aveva talmente paura di quello che stava succedendo che chiese di essere portata a casa per morire vicina ai suoi cari. A occuparsi del trasferimento fu il marito di sua figlia Angela Virginia, il mio bisnonno Enrico, che andò a prenderla alla casa di riposo, la caricò sulla canna della bicicletta e la portò via, a casa sua. Vedo la scena come se fossi stata lì davvero: Enrico che pedala tra gli edifici distrutti della mia città e Pierina, anziana e fragile, che si aggrappa al manubrio e forse piange per la paura.

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