Lo schifo per chi ti mangia davanti

«La misofonia, che rievoca un problema connesso all’avversione al suono, è a ben vedere connessa (anche) al movimento. Mio padre mangia con foga. Le briciole guizzano da tutte le parti, le particelle salivari schizzano come se il mangiare corrispondesse allo sbraitare, i lati della bocca riflettono l’untume»

Due spettatori al Kentucky Derby, la più antica corsa di cavalli degli Stati Uniti che si è svolta ininterrottamente dal 1875. Louisville, Kentucky, 6 maggio 1995 (Porter Gifford/Liaison)
Due spettatori al Kentucky Derby, la più antica corsa di cavalli degli Stati Uniti che si è svolta ininterrottamente dal 1875. Louisville, Kentucky, 6 maggio 1995 (Porter Gifford/Liaison)
Anonima
Anonima

Docente universitaria, già esperta presso il Dipartimento per gli Affari Europei della presidenza del Consiglio dei ministri. Ha scelto l’anonimato per non dare un dispiacere al papà.

Caricamento player

Mio nonno era un uomo raffinato, elegante, distinto. Era sempre ben vestito, curato, impeccabile. Mio nonno era un illustre medico prima, un illustre primario poi. Era un uomo stimato, ammirato.

Soprattutto, però, mio nonno mangiava di merda.

Non ricordo esattamente quando è scoccata la prima scintilla di questo disturbo – perché di disturbo si tratta – ma ricordo precisamente un pranzo a casa dei nonni, seduti al lungo e maestoso tavolo della sala da pranzo, gli scuri leggermente accostati per impedire alla luce estiva di entrare, il viso di mio nonno illuminato solo a metà da un unico fascio luminoso: un personaggio quasi caravaggesco. I capelli bianchi pettinati tutti verso destra, la testa immobile china verso il piatto, lo sguardo vuoto ma attento rivolto al cibo, la bocca mostruosamente ruminante. Un movimento circolare regolare, accompagnato dalla lingua salivosa leggermente macchiata dal bolo.

L’intero processo, trascurabile e impercettibile ai più, lo vivevo con l’animo dell’anatomopatologo che viviseziona ogni singolo elemento del campione di tessuto prelevato da biopsie, con lo spirito del biologo che indaga la più piccola delle particelle al microscopio.

In effetti, la misofonia, che rievoca ai più un problema connesso all’avversione al suono (e del resto il termine deriva dal greco “μῖσος”, odio, e “ϕωνή”, voce) è, a ben vedere, un fenomeno fortemente connesso (anche) all’attrazione e al movimento.

– Leggi anche: Cos’è la misofonia

È vero che è il suono a repellere, a respingere, ma è altrettanto vero che a renderlo così ripugnante è anche la combinazione con il moto che quel suono accompagna, cioè la movenza delle labbra. E tuttavia, sebbene il disgusto indurrebbe ad allontanarsi dalla fonte sonora, è altrettanto vero che esiste qualcosa di stranamente affascinante e attrattivo in quella stessa fonte, e spesso mi sono ritrovata incantata a fissarla. A fissare sedotta la bocca ruminante di mio nonno, quella stessa bocca che avrei voluto menare.

La letteratura scientifica (v., per tutti, A. Imbesi et a.) descrive la misofonia, in sintesi, come un disturbo in cui i pazienti soffrono di una limitata tolleranza a specifici suoni o stimoli a essi associati, contraddistinta da una significativa attivazione neurofisiologica. I sintomi comprendono una notevole sensibilità a rumori quotidiani quali tosse, respirazione pesante e masticazione, che si traduce in comportamenti di evitamento, allontanamento e, talvolta, in risposte aggressive. Le emozioni che il fastidio suscita sono tipicamente la rabbia, il disgusto, l’ansia. Nonostante il crescente interesse per questo fenomeno, peraltro, attualmente non esiste una classificazione diagnostica.

– Leggi anche: Perché alcune persone non sopportano il rumore di chi mastica?

C’è una scena di un film piuttosto noto e molto bello, Phantom Thread di Paul Thomas Anderson (Il filo nascosto, in italiano), in cui il protagonista, magnificamente interpretato da Daniel Day-Lewis, prova una evidente e tangibile tensione nel guardare la sua compagna mangiare dei cereali. All’occhio attento, è per un attimo percettibile il tic nervoso che lo costringe a dei movimenti minimi ma scattosi del collo, della bocca e degli occhi causati dal fastidio che sente.

A ben pensare, non stupisce il fatto che Reynolds Woodcock, il protagonista del film, fosse un uomo evidentemente ossessionato dal controllo e dalla perfezione. Mi pare, infatti, che la misofonia sia un disturbo che si accoppia fluidamente all’ossessione. Ossessione per la reiterazione dei gesti, ossessione per lo stesso uomo lunga dieci anni, ossessione per l’ordine, la pulizia, l’organizzazione. Parlo per esperienza, naturalmente. Tale percezione, del tutto empirica, sembra confermata da numerosi studi (come, ex multis, questa ricostruzione di S. Iskander et a.) che, in effetti, mettono in relazione in modo significativo e diretto la misofonia con il disturbo ossessivo compulsivo (alcuni ritenendola financo una manifestazione di quest’ultimo). Ora, ciò non significa necessariamente che chi soffre di misofonia soffra anche di disturbo ossessivo compulsivo (come la sottoscritta), ma significa solo che i due disturbi tendono a essere correlati in misura rilevante.

Che poi, in fondo, le ossessioni altro non sono che dei rituali e, quindi, in un certo qual modo, delle forme di scaramanzia. Del resto, la scaramanzia si risolve spesso nella ripetizione di “liturgie” e la ripetizione, si sa, è fatta della stessa materia dell’ossessione. La ripetizione ossessiva di un pensiero, accompagnata dalla speranza che quel pensiero, replicandolo all’infinito, si risolva. E la ripetizione è prodromica alla perfezione. Reynolds Woodcock, in due parole.

Quella breve scena di Phantom Thread, comunque, ha il pregio di restituire efficacemente l’angoscia profonda, il terrore, il tormento che certi suoni suscitano nel misofonico. Soprattutto, però, restituisce con potenza il disprezzo viscerale che prova (rectius, provo) nei confronti degli esseri umani che, quei suoni, li emettono. Un disprezzo che, spesso, avvelena i rapporti sociali, familiari, sentimentali. La sensazione di voler uccidere, di voler menare, di voler spaccare la bocca a chi osa disturbare la quiete data dall’assenza di rumori. Parlo di bocca, ma non è che tratterei granché meglio le dita delle mani di quelli che pigiano i tasti del computer come fossero degli homo habilis intenti a spaccar pietre con la clava. Vi svelo un segreto: la “a” comparirà magicamente sullo schermo del vostro laptop anche se schiacciate il relativo tastino con leggerezza. Incredibile, vero? Lo so.

Edoardo Vitale nel suo recente pezzo sul (per me ovvio) rapporto rumore-morte ha raccontato l’interessante storiella secondo cui Schopenhauer, «noto misofonico […] arrivò a spingere giù dalle scale la sua vicina di casa troppo rumorosa». Empatizzo, Arthur, empatizzo.

Ed è quindi questo il cilicio che mi porto addosso: vivere faticosamente in equilibrio tra due nature opposte e contrarie del mio stesso essere: la dolcezza, l’allegria, il sincero piacere nel mettere a proprio agio gli altri e lo sforzo immane di avere gli altri attorno, colpevoli di non avere alcun disturbo psicologico, ma di emettere con soddisfazione apparente suoni reiterati, viscidi, in una parola disgustosi. Sorridi, sorridi sempre, anche a quella collega che mangia i cracker flemmaticamente mentre lavora di fianco a te. Sorridile e chiedile di bere un caffè anche se vorresti lanciarle una sedia in testa.

Il problema si acuisce terribilmente, e anche tristemente, se il disturbatore – ma che dico – l’idea platonica di disturbatore, l’archetipo di disturbatore, è tuo padre. Tuo padre che, manco a dirlo, è figlio di tuo nonno. Tuo padre che, guarda un po’, era un illustre medico prima, un illustre primario poi.

È strano coniugare la figura “pubblica” di mio padre – stimata, rispettata, autorevole – con quella “privata”, che io collego irrimediabilmente a dei modi di fare screanzati, incivili, primitivi. Il suo ruminare, infatti, non è regolare e cadenzato come quello di mio nonno, che, in fondo, risultava elegante anche in quell’obbrobrio. Mio padre mangia con foga, con irruenza, con irrequietezza. Le briciole guizzano da tutte le parti, le particelle salivari schizzano come se il mangiare corrispondesse allo sbraitare, i lati della bocca riflettono l’untume. Credo che l’atto del mangiare fosse per lui un mezzo per sfogare il nervosismo delle infinite ore in sala operatoria. Lo credo perché, da quando è andato in pensione, la situazione è vagamente migliorata e mi sono quindi interrogata su quanta inquietudine si portasse a casa dall’ospedale sotto forma di foga gestuale e nutritiva.

Mi spiace perché è fuor di dubbio che il mio disturbo abbia in qualche modo inquinato il nostro rapporto e aumentato la distanza tra noi, anche se mi sono chiesta più volte se questa distanza sia stata generata dal fastidio o sia stato il fastidio a essersi generato dalla distanza che lui ha sempre frapposto tra sé stesso e me e le mie sorelle. Mi sento di poter dire con discreta convinzione, comunque, che il suo non aver mai riconosciuto la natura di “disturbo” di tale fastidio, ma, anzi, l’aver sempre preso sul personale frasi come «Papi, per favore, mangia piano» di certo non ha aiutato.

Le relazioni che vivono un momento di profonda e pura (nel senso di candida) connessione, quasi fusione, sono, invece, quelle con gli altri misofonici: lo vedi, lo senti, il pazzo luccichio negli occhi di chi, guardandoti, ha capito che sei come lui. Non c’è nulla che unisca più delle idiosincrasie e nulla più della misofonia condivisa, al punto da riempire di significato il termine “complicità”. Potresti quindi, per esempio, ritrovarti delle ore a parlare con un amico della miracolosa «macchinetta del rumore bianco»:
«Copre sostanzialmente tutto»
«Ma i passi dei vicini? Il bum bum bum dei vicini lo copre, santiddio?!»
«No, per quello non c’è soluzione, ma te lo giuro, funziona! Molto meglio di quella robaccia che trovi su Spotify».
«Ok, la voglio, dammi il link, quant’è?»
«Costa solo 20 euro, ma sta’ attento, Gianlu, è roba forte, crea dipendenza, non riesco più a dormire senza».
«Non preoccuparti. So come usarla».
Due tossici.

È fuor di dubbio che il rumore bianco abbia funzioni salvifiche. «White noise, what an awful sound», cantava Sufjan Stevens. Povero ingenuo. Per quanto mi riguarda, comunque, ho risolto (si fa per dire) il problema ascoltando musica tutto il tempo. Semplicemente ascoltando-musica-tutto-il-tempo, ripeto. Quando faccio la spesa, quando sono in coda alle poste, quando bevo il caffè al bar, quando lavoro. Sempre. In continuazione. Incessantemente. Mi pare sia la soluzione migliore per una appassionata come me: ha il doppio vantaggio di accrescere la mia cultura e rendermi sorda in tempi tutto sommato brevi. Un prezzo da pagare, forse, per la pace interiore. La sordità come ultima frontiera contro il rumore del mondo.

– Leggi anche: Quelli che odiano aglio e cipolla

STORIE/IDEE

Da leggere con calma, e da pensarci su