La Cina vuole decidere come si parla della Cina
Da sempre il regime cinese cerca di rendersi più rassicurante di quello che è: una strategia che ora funziona più del solito, grazie ai disastri provocati dai dazi di Trump

Per la Cina la guerra commerciale globale cominciata ad aprile dal presidente degli Stati Uniti Donald Trump è un grosso problema economico, ma per certi versi anche un’opportunità diplomatica. Con i suoi dazi contro praticamente tutti i paesi del mondo, Trump si è inimicato gli alleati degli americani, facendo crollare la fiducia negli Stati Uniti. Nel frattempo la Cina ha mandato messaggi opposti: i portavoce del governo e i media di stato hanno descritto il paese come un «pilastro di stabilità», e hanno esortato gli stati europei e asiatici a unirsi per affrontare i dazi americani.
È una strategia comunicativa che la Cina porta avanti da decenni, e che viene esaltata nei momenti di crisi in Occidente: quella di presentarsi come un partner commerciale e diplomatico serio, discreto e affidabile. È anche una strategia che cerca di mettere da parte gli aspetti più autoritari del regime cinese, quegli stessi aspetti che in altri paesi del mondo governati con sistemi altrettanto repressivi diventano a volte un ostacolo nelle relazioni con le democrazie occidentali.
La Cina è un’autocrazia governata da un solo partito, il Partito Comunista. Nel paese mancano la libertà d’espressione e i media e internet sono censurati. Le minoranze etniche sono sistematicamente represse.
Al tempo stesso, la Cina controlla in maniera rigidissima la propria immagine all’estero attraverso un sistema di propaganda capillare e una diplomazia molto attenta alla comunicazione: ha tutta una serie di “linee rosse retoriche” che gli altri paesi non devono superare se vogliono fare affari con lei. La più nota è quella sullo status di Taiwan, isola democratica e di fatto indipendente che però la Cina rivendica come propria. I paesi che riconoscono diplomaticamente Taiwan, o anche soltanto quelli che hanno rapporti amichevoli con l’isola, subiscono rappresaglie retoriche, diplomatiche e anche economiche.
Altre simili linee rosse riguardano regioni cinesi che per varie ragioni hanno status sensibili, come il Tibet, Hong Kong e lo Xinjiang.
Queste linee riguardano anche il modo in cui si parla della Cina in generale: il regime cinese, pur essendo uno stato autoritario guidato da un unico partito, non sopporta che lo si definisca in questo modo. La Costituzione cinese definisce lo stato una «democrazia socialista con caratteristiche cinesi», e di recente il presidente Xi Jinping ha detto che la Cina è «una vera democrazia, che funziona».

Il direttore della banda militare cinese durante il Congresso nazionale del popolo a Pechino, marzo 2025 (AP Photo/Ng Han Guan)
Questa pressione continua della Cina sul modo in cui è rappresentata all’estero ha fatto in modo che anche paesi più potenti abbiano finito per fare degli aggiustamenti, quanto meno retorici. Per esempio, tutte le volte che un presidente cinese e un presidente americano comunicano, la Cina pretende che il presidente americano ribadisca in maniera pubblica e formale tutte le politiche relative alla Cina e a Taiwan.
Per capire il livello: qui George W. Bush durante un incontro l’allora presidente cinese Hu Jintao, nel 2006 (i nomi dei documenti e delle politiche non sono tanto rilevanti in questo contesto, quanto il tono rituale e cavilloso):
«Gli Stati Uniti mantengono la loro politica di “una sola Cina” basata sui Tre comunicati e sul Taiwan Relations Act. Si oppongono a cambiamenti unilaterali dello status quo nello Stretto di Taiwan da parte di entrambe le parti ed esortano tutte le parti a evitare atti conflittuali o provocatori».
E qui Joe Biden con Xi Jinping, in una telefonata dell’anno scorso:
«Riguardo a Taiwan, il presidente Biden ha sottolineato che la politica statunitense di “una sola Cina” resta invariata, guidata dal Taiwan Relations Act, dai Tre comunicati e dalle Sei garanzie».
Più in generale, quando hanno a che fare con la Cina, molti paesi tendono a tenere ben separati i piani: quello economico, quello diplomatico e quello dei diritti umani. In Occidente, quanto meno prima di Trump, la Cina veniva sì criticata per le sue violazioni dei diritti umani, ma sempre facendo in modo che il piano economico e degli scambi commerciali rimanesse distinto.
Nel momento in cui le politiche volubili e ostili di Trump stanno indebolendo le alleanze tra i paesi occidentali, questa immagine di paese stabile e affidabile che la Cina promuove di se stessa risulta più efficace, anche tra i paesi occidentali. «È come se ci dovessimo appigliare a qualcosa», dice Francesca Ghiretti, ricercatrice e direttrice dell’Iniziativa Cina del centro studi RAND Europe. «Queste linee narrative esistono da decenni, e nascosto dietro a queste parole c’è uno stato autoritario e revisionista che ha costantemente tentato di ridisegnare a proprio vantaggio il sistema globale».
Zoltán Fehér, ricercatore del centro studi Atlantic Council, dice che non si può davvero considerare la Cina un “pilastro di stabilità”: «Dal punto di vista commerciale nessun paese negli ultimi 35 anni ha violato così tante regole del libero mercato quanto la Cina, mentre dal punto di vista politico minaccia regolarmente i propri vicini: Taiwan, le Filippine, il Vietnam, l’Australia». Fehér fa inoltre notare come la Cina stia attivamente destabilizzando l’Europa, tramite i suoi aiuti economici e militari all’invasione russa dell’Ucraina.

Xi Jinping e Donald Trump nel 2017 (AP Photo/Andy Wong, File)
In questo contesto nessun paese ha davvero accettato la proposta cinese di fare fronte unito contro i dazi americani, ma ci sono stati comunque segnali d’apertura. Per esempio da parte dell’Europa.
Pochi giorni dopo l’annuncio dei dazi trumpiani, la presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen ha avuto una telefonata con il premier cinese Li Qiang. I due hanno parlato di come affrontare congiuntamente la minaccia economica statunitense. «La Cina è pronta a lavorare con la controparte europea per promuovere un serio e continuo sviluppo delle relazioni Cina-UE», ha detto il premier cinese a von der Leyen. Negli stessi giorni Pedro Sánchez, il primo ministro spagnolo, è andato a Pechino a incontrare il presidente cinese Xi Jinping e ha descritto la Cina come un «partner essenziale».
L’apertura di questi giorni è per ora soltanto tattica. «Non c’è una vera inversione di rotta da parte dell’Unione Europea nei confronti della Cina» dice Francesca Ghiretti. Tra le altre cose, i governi europei sono molto spaventati dall’idea che, non potendo più esportare negli Stati Uniti a causa dei dazi, la Cina riverserà le proprie merci a basso costo in Europa, con grave danno per le industrie locali.
Continua però Ghiretti: «Al tempo stesso, è vero che almeno nella percezione comune c’è l’idea di compensare con la Cina l’assenza degli Stati Uniti. E la Cina è ben consapevole di questa opportunità».