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  • Domenica 17 marzo 2024

Quando il Dalai Lama fuggì dal Tibet, attraverso l’Himalaya

Sessantacinque anni fa scappò dal palazzo di Lhasa assediato dall'esercito cinese: al termine di una marcia di 14 giorni arrivò in India, dove è sempre rimasto in esilio

Il Dalai Lama pochi giorni dopo l'arrivo in India, nel 1959 (AP Photo, File)
Il Dalai Lama pochi giorni dopo l'arrivo in India, nel 1959 (AP Photo, File)
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Il 17 marzo del 1959, sessantacinque anni fa, il Dalai Lama, massima autorità religiosa e politica del buddismo tibetano, iniziava travestito da soldato la sua fuga da Lhasa, la città principale del Tibet. Aveva 23 anni e temeva di essere catturato o ucciso dall’esercito cinese: in 14 giorni attraversò i passi montani dell’Himalaya e raggiunse il confine con l’India, a cui chiese asilo. Da allora non è mai tornato in Tibet ma ha fondato un governo in esilio a Dharamsala, oggi conosciuta anche come “Piccola Lhasa”.

Tenzin Gyatso ha 88 anni ed è il 14esimo Dalai Lama, un’espressione che unisce un termine mongolo e uno tibetano e che si può tradurre come “maestro supremo”. Il Dalai Lama viene scelto da un consiglio di importanti monaci buddisti ogni volta che muore la persona che manteneva la carica fino a quel momento.

Nel 1913, dopo la nascita della Repubblica Cinese, il suo predecessore aveva dichiarato l’indipendenza del Tibet, che non fu mai riconosciuta dai governi cinesi. Dopo la rivoluzione di Mao Zedong la Repubblica Popolare Cinese decise di mettere fine al governo autonomo tibetano: nel 1950 l’esercito cinese invase il Tibet centrale e impose l’autorità della Cina sulla regione. L’attuale Dalai Lama aveva 15 anni, era stato “riconosciuto” e incoronato nel 1940, quando aveva cinque anni, ma avrebbe dovuto assumere il potere politico in prima persona a venti. L’invasione cinese causò un’accelerazione nell’assunzione dei poteri, e nel 1951 fu il nuovo Dalai Lama a firmare un accordo con la Cina in 17 punti che riconosceva la sovranità della Repubblica Popolare in cambio di un’autonomia di gestione.

Una foto durante la marcia attraverso i passi himalayani nel 1959 (AP Photo)

I confini di questa autonomia si ridussero costantemente, provocando un’aperta ribellione anticinese in Tibet nel 1959, a cui parteciparono anche i monaci buddisti. La repressione della Cina fu violentissima: il 10 marzo i soldati cinesi arrivarono nella capitale Lhasa, mentre una folla di tibetani si posizionava davanti ai palazzi Potala e Norbulingka, residenze del Dalai Lama e delle massime autorità religiose, per “proteggerli”. Secondo quanto ricostruito dagli storici, l’ordine di Mao era di condurre il Dalai Lama in Cina, per poi rilasciarlo riconoscendone l’autorità religiosa ma non quella politica.

Nella sua autobiografia il Dalai Lama raccontò che in quella situazione consultò tre volte “l’oracolo supremo” tibetano per sapere come avrebbe dovuto rispondere all’arrivo dei militari cinesi. Alla terza consultazione l’oracolo gli avrebbe indicato la necessità di una fuga, descrivendo anche dettagliatamente la via che avrebbe dovuto seguire.

Quindi nella notte del 17 marzo una comitiva di venti persone, tra cui la madre del Dalai Lama, i fratelli minori, alcuni membri del suo governo e soldati della sua scorta, uscì dal palazzo di Lhasa e iniziò una lunga marcia. Il Dalai Lama iniziò la fuga vestito come un soldato tibetano, e una volta uscito dalla città il gruppo fu raggiunto da una scorta più organizzata. Poche ore dopo cominciarono i bombardamenti dell’artiglieria cinese verso il palazzo Norbulingka.

La folla a protezione del palazzo Potala (AP Photo)

Il viaggio era particolarmente complesso perché prevedeva di superare vari passi himalayani e alcuni fiumi: oltre a gestire l’altitudine e il clima rigido, il gruppo doveva evitare di essere notato dalle truppe cinesi. Per questo viaggiava prevalentemente di notte, passando le giornate nei monasteri buddisti o negli accampamenti delle tribù khampa, che vivono nelle valli himalayane. La comitiva coprì una distanza di circa 19 chilometri al giorno, con cavalli, asini e yak, e superò anche il passo Karpo, a 5.197 metri di altitudine, e il fiume Brahmaputra, largo oltre 400 metri (con un battello).

La notizia della fuga del Dalai Lama si diffuse tre giorni dopo la sua partenza e fece intensificare le ricerche da parte dell’esercito cinese. Il Dalai Lama raccontò che tre giorni prima di arrivare al confine indiano un piccolo aereo passò sopra le loro teste, abbastanza vicino per vederli, ma viaggiava troppo veloce per capire se si trattasse di un velivolo militare cinese.

Nel quattordicesimo giorno di viaggio il gruppo del Dalai Lama entrò infine in India, attraverso il passo Khenzimana. Da lì fu scortato da soldati degli Assam Rifle, un corpo speciale indiano che si occupa principalmente di presidiare i confini del paese. Il primo ministro indiano Jawaharlal Nehru garantì asilo politico al Dalai Lama, che terminò la sua marcia presso il monastero di Towang, a circa 50 chilometri dal confine con il Tibet. 

L’arrivo del Dalai Lama in India (Public domain, via Wikimedia Commons)

Secondo alcune ricostruzioni, mai confermate ufficialmente, la fuga del Dalai Lama fu favorita e organizzata anche dai servizi segreti statunitensi. La CIA aveva da tempo rapporti con la resistenza tibetana e intercedette con il governo indiano per garantire l’accoglienza dei profughi, mentre un ruolo attivo nella traversata himalayana o la presenza di agenti statunitensi non sono mai stati provati.

Dopo la fuga del Dalai Lama la repressione cinese a Lhasa fu violenta: migliaia di tibetani furono uccisi e molti altri deportati in Cina, anche se il numero definitivo dei morti non è chiaro. Il governo tibetano venne sciolto, circa 80mila profughi fuggirono in Nepal o seguirono il Dalai Lama in India, dove quest’ultimo formò un governo in esilio a Dharamsala. Nel 1965 la Cina dichiarò la nascita Regione Autonoma del Tibet, con l’intento di normalizzare la regione all’interno dei confini della Repubblica Popolare.

L’esercito indiano scorta il gruppo del Dalai Lama (Public domain, via Wikimedia Commons)

Il Dalai Lama vinse il premio Nobel per la Pace nel 1989 e nel corso di questi 65 anni in esilio ha svolto una costante opera di sensibilizzazione all’estero verso la causa tibetana. Nel 2011 annunciò la rinuncia al potere temporale, dunque alla sua leadership politica. Poco dopo si svolsero le elezioni del governo tibetano in esilio (non riconosciuto dalla Cina né da nessun altro paese) che portarono alla vittoria Lobsang Sangay, il primo laico a diventare Kalon Tripa, primo ministro, a cui dal 2021 è succeduto Penpa Tsering.

Il Dalai Lama ringrazia nel 2018 Chandra Das, uno dei membri degli Assam Rifles che lo scortarono in India (Shailesh Bhatnagar/Pacific Press via ZUMA Wire)