• Mondo
  • Venerdì 1 luglio 2022

Le promesse tradite di Hong Kong

Il 1° luglio è l’anniversario della restituzione alla Cina della colonia britannica, e di uno dei momenti più importanti delle ultime proteste per la democrazia

di Eugenio Cau

(AP Photo/Kin Cheung)
(AP Photo/Kin Cheung)
Caricamento player

Il 1° luglio ricorrono i 25 anni della restituzione del territorio di Hong Kong alla Cina da parte del Regno Unito, che aveva governato sulla città come una colonia per oltre un secolo. Per la Cina è un momento estremamente importante, a tal punto che giovedì il presidente Xi Jinping ha viaggiato a Hong Kong tra enormi misure di sicurezza, per tenere un discorso trionfale: è il primo viaggio di Xi fuori dalla Cina continentale da quando è iniziata la pandemia da coronavirus, oltre due anni e mezzo fa.

Il 1° luglio ricorre anche un altro anniversario, più recente e certamente non commemorato in città: quello dell’occupazione del Parlamento locale da parte dei manifestanti per la democrazia, che costituì il culmine delle manifestazioni contro le ingerenze politiche del Partito comunista cinese che si tennero a Hong Kong tra il marzo e il novembre del 2019. Giovedì è uscito in Italia un documentario che racconta quelle proteste: si chiama Revolution of Our Times.

Entrambi gli eventi – la restituzione del 1997 e le proteste del 2019 – furono fondamentali per Hong Kong e la sua popolazione: il primo perché pose fine a un secolo e mezzo di dominio coloniale, sebbene in maniera frettolosa e con vari errori da parte del governo britannico; il secondo perché, dopo il fallimento delle proteste, Hong Kong non è più stata la stessa: quella che era considerata una delle città più libere dell’Asia è caduta sotto un autoritarismo molto pesante, che ha stupito gli analisti per la rapidità e la durezza con cui è stato imposto.

1997
Hong Kong divenne una colonia britannica a metà del Diciannovesimo secolo, a seguito delle due Guerre dell’Oppio combattute dall’Impero britannico (a cui poi si aggiunsero altre potenze europee) contro quello cinese.

Le Guerre dell’Oppio furono guerre di conquista portate avanti con l’obiettivo di approfittare dell’indebolito Impero cinese. I britannici le vinsero facilmente entrambe, e ottennero Hong Kong come bottino di guerra: nel 1842, dopo la vittoria nella prima Guerra dell’Oppio, la sola isola omonima; poi nel 1860, dopo la vittoria nella seconda Guerra dell’Oppio, la penisola di Kowloon; e infine, nel 1898, i cosiddetti “New Territories”, che l’Impero cinese cedette ai britannici per 99 anni.

Sotto l’Impero britannico prima e il Regno Unito poi, Hong Kong conobbe un notevole grado di repressione politica e razzismo da parte dei dominatori coloniali, ma anche un benessere sempre più diffuso. Soprattutto dopo il 1949, quando la Cina fu conquistata dal Partito comunista cinese, le differenze tra Hong Kong e la Cina divennero sempre più accentuate: Hong Kong sviluppò un’economia di mercato fiorente e divenne una delle città commerciali più prospere del mondo, mentre per decenni la Cina rimase poverissima sotto le politiche economiche dirigiste del regime comunista.

Anche la situazione politica cambiò notevolmente dopo il 1949. Benché Hong Kong fosse una colonia in cui i cittadini godevano di diritti molto scarsi, e benché nel corso della seconda metà del Novecento ci siano state proteste contro il dominio coloniale, la situazione non era nemmeno paragonabile a quella della Cina, dove governava un regime totalitario. Nel corso dei decenni, migliaia di persone fuggirono dalla Cina per trovare riparo e speranze di ricchezza a Hong Kong.

Pian piano, la città costruì un’identità propria: preservò il proprio dialetto, il cantonese, mentre in Cina il Partito comunista cercava di omologare la lingua al cinese mandarino (con scarsi risultati in realtà: i dialetti in Cina sono ancora fortissimi); mantenne il vecchio modo di scrivere i caratteri, il cosiddetto “cinese tradizionale”, mentre in Cina il Partito comunista creò un metodo “semplificato”; e in generale creò una cultura sempre più singolare e propria.

In questo contesto di ricchezza e cultura sempre più autonoma da quella cinese, negli anni Ottanta il governo britannico stipulò un accordo con la Cina per la restituzione di Hong Kong. Fu un processo piuttosto controverso, anche perché la città nel frattempo era diventata relativamente libera, benché i cittadini ancora non potessero votare per i propri rappresentanti e non esistesse il suffragio universale.

Nel 1984 il governo di Margaret Thatcher firmò con il regime cinese un protocollo d’intesa per restituire la città nel 1997, allo scadere dei 99 anni dalla cessione dei New Territories.

Nell’accordo, la Cina prometteva che avrebbe mantenuto per 50 anni le libertà di Hong Kong, e che anzi le avrebbe espanse, concedendo ai cittadini di eleggere i propri rappresentanti a suffragio universale (cosa che il Regno Unito non concesse mai). Il compromesso prese il nome di “un paese, due sistemi”, per indicare che Cina e Hong Kong sarebbero state infine riunite, ma avrebbero avuto due regimi differenti. Nonostante le rassicurazioni, tra il 1984 e il 1997 quasi un milione di persone lasciò Hong Kong, temendo che il ritorno alla Cina avrebbe significato una riduzione della libertà e del tenore di vita.

In quel periodo, secondo vari sondaggi, tra l’85 e il 93 per cento della popolazione della città sosteneva il mantenimento dello status quo.

La cessione di Hong Kong avvenne il 1° luglio del 1997, durante una cerimonia pomposa a cui parteciparono il principe Carlo e l’allora primo ministro Tony Blair, assieme al presidente cinese Jiang Zemin. Hong Kong era di fatto l’ultima colonia di quello che un tempo era stato l’Impero britannico. Chris Patten, l’ultimo governatore britannico di Hong Kong, nel suo discorso d’addio disse: «Ora il popolo di Hong Kong governerà Hong Kong: questa è una promessa e un destino irremovibile».


Per una quindicina d’anni le cose andarono davvero così. Hong Kong divenne la porta d’ingresso del mercato occidentale alla sterminata economia cinese, divenne ancora più ricca e rimase libera: per quindici anni, fu l’unica città cinese con una stampa libera, un sistema giudiziario indipendente, piena libertà d’espressione e di protesta, internet ed editoria non censurati.

2019
Le cose peggiorarono a partire dal 2013, quando Xi Jinping divenne presidente della Cina e introdusse un nuovo stile di governo più nazionalista e autoritario. Gradualmente, ma in maniera sempre più preoccupante, la Cina cominciò a revocare alcune delle libertà di cui Hong Kong aveva goduto negli ultimi decenni, e ad avviare politiche di progressiva assimilazione.

Nel 2014 ci fu in città la cosiddetta “rivoluzione degli ombrelli”, un grande movimento di protesta giovanile per ottenere il suffragio universale, che per alcuni mesi bloccò la città senza tuttavia ottenere particolari risultati, se non quello di convincere il governo cinese che l’assimilazione sarebbe stata l’unico modo per mettere Hong Kong sotto controllo.

Le proteste più dure e importanti iniziarono però nel 2019, come reazione a una legge voluta dal governo cinese che facilitava le estradizioni da Hong Kong alla Cina continentale, e di fatto minava la libertà del sistema giudiziario. Ben presto lo scopo delle proteste si estese, perché ormai era chiaro che la libertà di Hong Kong era a rischio: il motto delle manifestazioni divenne «Libertà per Hong Kong!». Quando veniva urlato nelle manifestazioni, la folla rispondeva: «È la rivoluzione dei nostri tempi!».


Le proteste cominciarono a marzo del 2019 con enormi manifestazioni, ad alcune delle quali parteciparono più di due milioni di persone (su sette milioni di popolazione totale della città).


Il culmine delle proteste avvenne probabilmente il 1° luglio, quando un gruppo di manifestanti più radicali occupò per qualche ora la sede del Parlamento locale di Hong Kong, con un misto di violenza ed estrema civiltà: i manifestanti spaccarono i vetri e scrissero slogan a favore della democrazia sui muri, ma lasciarono soldi alla mensa dell’edificio per ripagare delle merendine che avevano preso.

Fu a quel punto, inoltre, che il movimento per la democrazia di Hong Kong, formato soprattutto da ragazzi ventenni e anche più giovani divenne una minaccia seria per il regime cinese. Fu a quel punto che cominciarono le violenze della polizia, che per decenni era stata un modello di gestione pacifica elogiato a livello internazionale ma si trasformò in una forza brutale e repressiva nel giro di poche settimane.

Queste proteste sono raccontate nel documentario Revolution of Our Times, che è composto quasi esclusivamente di video girati durante le manifestazioni del 2019 e interviste ai leader del movimento democratico. Il documentario è uscito il 30 giugno in alcune sale italiane ed è una testimonianza notevole di cosa furono le proteste in quei mesi: dell’ingenuità dei manifestanti, molti dei quali erano ragazzini (a un certo punto uno maneggia la sua prima molotov e si versa tutta la benzina sui vestiti: per fortuna era spenta); della brutalità della polizia (sono notevoli le scene in cui i poliziotti malmenano un gruppo di anziani hongkonghesi che era sceso in piazza per «proteggere i giovani») e in generale dell’ultimo movimento democratico di Hong Kong.


Dopo la fine delle proteste nel novembre del 2019 la repressione che seguì fu eccezionale.

L’ultima vittoria del movimento democratico fu alle elezioni per i consigli distrettuali, organi locali senza veri poteri in cui però i candidati democratici vinsero con un’enorme maggioranza nel novembre del 2019. Ma pochi mesi dopo il governo cinese fece approvare dal compiacente Parlamento locale la cosiddetta “legge sulla sicurezza nazionale”, che dava alle autorità ampissimo margine per accusare di «sedizione, sovversione e secessione» chiunque si opponesse o anche soltanto criticasse il regime.

Dopo l’approvazione della legge sulla sicurezza, e grazie all’isolamento e al controllo sociale reso possibile dallo scoppio della pandemia da coronavirus, Hong Kong si è trasformata nel giro di appena due anni in una città di fatto autoritaria. I partiti democratici sono stati smantellati, i giornali liberi chiusi, i movimenti per la democrazia sciolti. Le elezioni sono tornate rigidamente sotto il controllo del regime cinese. Approfittando della legge sulla sicurezza, le autorità filocinesi di Hong Kong hanno di fatto ritirato il diritto di manifestazione, quello di libera espressione e di associazione. L’autonomia della magistratura è stata gravemente indebolita.

Soprattutto, ci sono state migliaia di arresti, tra parlamentari d’opposizione, manifestanti, attivisti per i diritti e giornalisti. In molti luoghi di lavoro di rilievo politico ci sono state enormi purghe: dopo l’approvazione della legge, oltre 1.000 giornalisti e lavoratori dei media sono stati licenziati.

Hong Kong non è ancora una piena dittatura come la Cina. Internet non è ancora censurato, e rimangono alcuni diritti: di recente, un’ex parlamentare pro democrazia che ha perso il posto a causa della repressione raccontava che quanto meno può andare a trovare i suoi compagni e colleghi in prigione, cosa che in Cina non sarebbe possibile.

Ma la situazione è in continuo peggioramento: secondo varie indagini fatte dalla Human Rights Measurement Initiative, lo stato dei diritti umani a Hong Kong, che un tempo era una delle città più libere dell’Asia orientale, è ormai simile a quello dell’Arabia Saudita.

Hong Kong è diventato inoltre un tema sensibile per il regime cinese, che minaccia e persegue gli attivisti per la democrazia perfino all’estero. Anche per questo la casa di produzione italiana che ha tradotto e distribuito Revolution of Our Times ha lavorato sotto copertura, e non ha voluto che fosse rivelato il suo nome, per evitare problemi con il governo cinese.