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  • Lunedì 24 febbraio 2025

Le regole della Wada avevano qualche problema sin dall’inizio

Un libro appena uscito per 66thand2nd racconta la nascita dell'Agenzia mondiale antidoping, il suo monopolio e i suoi criteri giudicati da subito vaghi e controversi

Il ciclista statunitense Lance Armstrong dopo un controllo antidoping al Tour de France del 2004 (Tim De Waele/Getty Images)
Il ciclista statunitense Lance Armstrong dopo un controllo antidoping al Tour de France del 2004 (Tim De Waele/Getty Images)
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Negli ultimi mesi, soprattutto in Italia in relazione al caso del tennista Jannik Sinner, si è discusso molto dell’efficacia e del senso che hanno le regole dell’Agenzia mondiale antidoping (Wada). Istituita nel 1999 come organizzazione indipendente dal Comitato olimpico internazionale, con l’obiettivo di dotare lo sport di regole uniche per contrastare la diffusione del doping, sin dalle premesse la Wada è stata accusata da un lato di essere poco efficace nel combattere programmi di doping sistemico, come dimostra il recente caso dei nuotatori cinesi, e dall’altro eccessivamente vessatoria nei confronti di singoli atleti o atlete, anche quando era evidente la loro intenzione a non doparsi. Il libro Doping. Una storia di sport, scritto da April Henning e Paul Dimeo e uscito venerdì 21 febbraio per 66thand2nd, ripercorre la storia del doping e dell’antidoping, interrogandosi poi su come sia possibile creare politiche antidoping che lavorino assieme agli atleti e non contro di loro. In questo estratto Henning e Dimeo raccontano che il primo Codice mondiale antidoping (Wadc), approvato dalla Wada nel 2004, aveva già diversi problemi e incoerenze.

***

Per essere all’altezza delle sue ambizioni, la Wada doveva convincere i paesi e gli sport a sottoscrivere il nuovo codice. La standardizzazione era di fatto un passaggio di consegne. I singoli atleti non avevano la possibilità di aderire solo ad alcune parti del Wadc, e il rifiuto di firmare il documento da parte di paesi o federazioni sportive era visto come una mancanza di serietà in materia di doping. La Wada è stata fin dall’inizio un organo rigido, con poco spazio per resistenze, negoziazioni, flessibilità o considerazione di circostanze specifiche. Come risulta chiaro dai casi già citati e dalle rispettive sentenze, per rendere i processi più consistenti andavano previste forme di ricorso. La Wada si avvalse del Tribunale arbitrale dello sport (Tas), istituito nel 1984 dal Comitato olimpico internazionale.

Il pilastro dell’Agenzia mondiale antidoping e del suo codice era la «Lista delle sostanze e dei metodi proibiti», accompagnata da una dichiarazione che spiegava su quali basi veniva deciso che una sostanza o un metodo andassero vietati. Si fornivano tre criteri e la soddisfazione di due di essi bastava per l’inclusione nell’elenco. In primo luogo, il metodo o la sostanza doveva presentare un rischio effettivo o potenziale per la salute dell’atleta. In secondo luogo, doveva migliorare le prestazioni effettivamente o in potenza. Infine, doveva essere in conflitto con una vaga nozione di «spirito sportivo». Una sostanza dopante è di solito un farmaco le cui tracce sono riscontrabili nei campioni di urina degli atleti. La Wada confermò la norma della «stretta responsabilità», già introdotta dal Cio, che prevedeva che l’atleta fosse ritenuto responsabile di qualsiasi elemento rinvenuto nel suo campione e venisse punito di conseguenza. Le sanzioni arrivavano fino alla squalifica a vita. Il codice del 2003 stabiliva che l’uso di una sostanza inclusa in una categoria indicante forti vantaggi in termini di prestazioni – steroidi anabolizzanti e ormoni peptidici – avrebbe comportato una squalifica di due anni da tutte le competizioni sportive. Altri farmaci avrebbero implicato sanzioni minori.

I criteri adottati erano controversi. Come già detto, i leader dell’antidoping e i media tendevano a pensare il peggio delle sostanze, sopravvalutandone i rischi. Molti farmaci della lista non erano stati studiati in modo approfondito, soprattutto riguardo ai rischi per la salute. Inoltre, sostanze teoricamente in grado di migliorare le prestazioni potevano non avere un grande impatto sulle capacità di un atleta specifico, specialmente negli sport di squadra, in quelli di abilità o in quelli cognitivi, come il bridge o gli scacchi. Ad ogni modo, la nozione più confusa di tutte era quella di «spirito sportivo». Questo concetto fu menzionato per la prima volta in Canada all’indomani della Dubin Inquiry, per indicare i valori positivi comuni al mondo dello sport. La definizione di antidoping fornita dal Wadc evidenzia anche l’influenza del Cio sulla Wada:

I programmi antidoping si sforzano di preservare ciò che c’è di intrinsecamente prezioso nello sport. Tale valore intrinseco viene spesso definito come «spirito sportivo». È l’essenza dello spirito olimpico, il perseguimento dell’eccellenza umana attraverso l’impegno nel perfezionare i talenti di ciascuno. È il gioco pulito. Lo spirito sportivo è la celebrazione dello spirito umano, del corpo e della mente, e si riflette nei valori che troviamo nello sport e che coltiviamo mediante esso: l’etica; il fair play e l’onestà; la salute; l’eccellenza delle prestazioni; lo sviluppo del carattere e la formazione; il divertimento e la gioia; il lavoro di squadra; la dedizione e l’impegno; il rispetto delle regole e delle leggi; il rispetto di sé stessi e degli altri partecipanti; il coraggio; il senso di comunità e di solidarietà.

I «metodi» a cui faceva riferimento il codice riguardavano principalmente il doping ematico, ma anche la prospettiva del doping genetico. Solo che per quest’ultimo non esistevano test né c’erano prove della sua diffusione. Il fulcro dei controlli erano i prelievi di urina, che servivano a individuare quelle che la Wada definiva «evidenze analitiche». L’espressione «risultato analitico avverso» era usata per descrivere un test positivo. Data l’importanza di questi prelievi, la Wada introdusse una serie di procedure per garantire che i campioni non venissero manomessi o scambiati. Una delle violazioni delle norme antidoping era proprio la manomissione: un atleta o un membro di una squadra potevano andare incontro a squalifiche per non aver seguito correttamente i rigorosi protocolli per i prelievi. Sottrarsi a un test costituiva un altro tipo di infrazione.

Le conseguenze di tali politiche e procedure ebbero un impatto pesante tanto sugli atleti puliti quanto su quelli che imbrogliavano. Per assicurarsi che i campioni prelevati appartenessero effettivamente agli esaminandi, gli addetti ai controlli antidoping («Drug Control Officers», Dco) dovevano vedere con i propri occhi l’urina che usciva dai corpi. Il Dco non doveva perdere di vista l’atleta dal momento della chiamata al momento in cui era pronto a urinare: l’avrebbe seguito in bagno, insistendo che si spogliasse dalla vita in giù esponendo i genitali, poi l’avrebbe guardato riempire di urina la boccetta, il cui contenuto sarebbe stato suddiviso in due flaconi (come precauzione, in caso fosse stato necessario un secondo test).

Per prevenire il doping lontano dai periodi di gara – periodi durante i quali venivano effettuati i test – la Wada introdusse un sistema più rigoroso di controlli al di fuori delle competizioni. In base a questo approccio, gli atleti potevano ricevere l’avviso di un test in qualunque giorno, momento e luogo: a casa, in vacanza o ovunque si trovassero. In caso di rifiuto, sarebbero incorsi in una squalifica di due anni. Inoltre, gli atleti selezionati per il Registered Testing Pool (Rtp) dovevano fornire agli agenti informazioni su dove reperirli per un’ora al giorno in modo da poter essere testati, un tipo di reperibilità e sorveglianza ventiquattr’ore su ventiquattro che in genere si riserva ai detenuti. Durante l’Rtp gli atleti non hanno diritto a nessuna pausa dalla minaccia di test.

Un’altra invasione della loro privacy era la pratica di elencare tutti i farmaci o medicinali di cui facevano uso, anche quelli non vietati, teoricamente per evitare ogni confusione al momento dell’analisi del campione. Tale divulgazione – un ulteriore tentativo di garantire che gli atleti fossero ritenuti gli unici responsabili in caso di positività a una sostanza vietata – rischiava di rivelare alle agenzie antidoping aspetti della loro storia clinica. Non comunicare l’uso di un farmaco o di un integratore poteva compromettere la futura difesa dell’atleta, e l’obbligo di fornire tali informazioni funzionò come un modo di rafforzare la responsabilità oggettiva. Serviva a prevenire i ricorsi in caso di test positivi e poteva essere usato come prova che l’accusato aveva cercato di mascherare l’uso di sostanze.

La responsabilità oggettiva non era un principio preso molto sul serio al di fuori del mondo dello sport, dunque i ricorsi degli atleti attraverso i sistemi giudiziari nazionali potevano minare l’applicazione delle norme Wada. La soluzione fu una clausola che diceva che gli unici ricorsi accettabili erano quelli presentati di fronte a un tribunale presieduto dall’organizzazione antidoping del paese dell’atleta o al Tribunale arbitrale dello sport. In tal modo le decisioni sulle sanzioni sarebbero state prese dalle federazioni sportive in conformità con il Codice Wada. Si poteva presentare reclamo solo per motivi procedurali e facendo riferimento agli articoli del Wadc. Data la norma della responsabilità oggettiva, i ricorsi per mancanza di intenzionalità o contaminazione delle prove venivano accolti molto raramente; anche in caso di esito positivo, di solito portavano a una semplice riduzione della pena e non allo scagionamento completo.

Tutte queste politiche furono sviluppate in fretta e furia, in risposta al senso di crisi diffuso tra dirigenti sportivi e governi che era stato al centro della conferenza di Losanna. Le consultazioni con i soggetti maggiormente coinvolti dalle regole, gli atleti, furono pochissime. All’epoca poteva sembrare che la Wada stesse facendo progressi nella guerra al doping, reprimendo l’imbroglio attraverso l’individuazione dei colpevoli e le sanzioni, e sviluppando un sistema di prevenzione tramite iniziative educative. L’Agenzia era vista come un organo indipendente che incoraggiava ogni Stato o regione a dotarsi di una propria organizzazione antidoping. I suoi leader cercarono supporto politico e finanziario dagli Stati, e nel 2007 il Wadc venne rafforzato da una convenzione dell’Unesco che i governi potevano firmare a sostegno della lotta per uno sport pulito. L’Agenzia mondiale antidoping godeva, dunque, del supporto dei più alti livelli della politica e dello sport internazionale, e aveva anche il monopolio nel decidere le modalità di sviluppo dei test e delle regole antidoping.

La copertina del libro (66thand2nd)