Sono gli smartphone il problema degli adolescenti?

Un libro dello psicologo sociale Jonathan Haidt ha riaperto negli Stati Uniti le discussioni su un tema controverso e importante

Una ragazza cammina lungo un marciapiede con lo sguardo sullo smartphone e le cuffie in testa
(Sean Gallup/Getty Images)

Negli Stati Uniti un libro scritto dallo psicologo sociale statunitense Jonathan Haidt e pubblicato a marzo ha rianimato un esteso dibattito in corso da anni riguardo agli effetti degli smartphone e dei social network sulla salute mentale dei giovani. Il libro, intitolato The Anxious Generation: How the Great Rewiring of Childhood Is Causing an Epidemic of Mental Illness, riprende e amplia una tesi per cui Haidt è molto conosciuto, non solo tra gli esperti: la correlazione significativa tra l’utilizzo degli smartphone e dei social media, dai primi anni Dieci del Duemila in poi, e il progressivo aumento dei livelli di depressione, ansia e autolesionismo tra gli adolescenti.

Haidt insegna psicologia sociale alla Stern School of Business della New York University (NYU), scrive spesso sull’Atlantic ed è uno dei pensatori più popolari e citati della Silicon Valley. Negli Stati Uniti è diventato in anni recenti un riferimento per molti moderati avversi alle politiche identitarie e un interlocutore di intellettuali e giornalisti molto apprezzati dalla sinistra o dalla destra, da Ezra Klein a Jordan Peterson.

Oltre che di smartphone e salute mentale, in passato si è occupato di influenza dei geni e delle emozioni sulle credenze e sulla morale, di cancel culture, e degli effetti dei social media sulle istituzioni democratiche. Due dei suoi libri precedenti, Felicità: un’ipotesi e Menti tribali, sono stati tradotti anche in italiano e pubblicati da Edizioni Codice.

– Leggi anche: Come i social hanno istupidito le istituzioni

L’idea alla base del libro più recente di Haidt è che la rapida diffusione degli smartphone e la prevalenza di un modello di genitorialità iperprotettivo abbiano provocato una progressiva riduzione del tempo trascorso dai giovani offline. Questa condizione sarebbe la causa di una sorta di «ri-cablaggio» delle connessioni sinaptiche durante l’infanzia e l’adolescenza, e di un conseguente aumento delle malattie mentali.

Sebbene espressa in termini differenti, è un’idea popolare anche tra molti genitori che cercano di limitare l’utilizzo dei dispositivi elettronici da parte dei loro figli più piccoli. A volte le loro preoccupazioni finiscono tuttavia per essere sminuite, perché alcuni le interpretano come l’espressione di un passatismo ottuso o di pregiudizi infondati sull’evoluzione dei costumi e della tecnologia.

Altri genitori, che pure condividono alcune preoccupazioni, sono poi condizionati dal timore che privare i figli dello smartphone possa di fatto costringerli a vivere un’infanzia diversa e alienante rispetto a quella dei loro coetanei che ce l’hanno, con effetti altrettanto deleteri sulla salute mentale. Tra gli studiosi esiste infine qualche dubbio riguardo al fatto che l’aumento del tempo trascorso davanti a uno schermo sia causalmente correlato all’aumento dei livelli di depressione e ansia tra gli adolescenti.

Il fatto generale rispetto al quale le opinioni tendono a convergere è l’aumento statistico dei problemi di salute mentale: un fenomeno di cui si parla ormai da anni in termini di «epidemia» e «crisi nazionale». Negli Stati Uniti i livelli di ansia e depressione, rimasti abbastanza stabili negli anni Duemila, secondo diversi studi citati da Haidt sono cresciuti di oltre il 50 per cento dal 2010 al 2019. La percentuale di suicidi è aumentata del 48 per cento nella fascia di età compresa tra 10 e 19 anni: tra le adolescenti dai 10 ai 14 anni, in particolare, è aumentata del 131 per cento.

Tendenze simili sono state riscontrate nello stesso periodo di tempo anche in altri paesi, tra cui Canada, Regno Unito, Australia, Nuova Zelanda, paesi scandinavi e altri paesi in Europa, inclusa l’Italia. Secondo vari parametri e in molti posti diversi del mondo, sintetizza Haidt, la cosiddetta generazione Z – le persone nate a partire dalla metà degli anni Novanta – soffre di ansia, depressione, autolesionismo e disturbi correlati più di qualsiasi altra generazione di cui esistano dati confrontabili.

Due bambini maneggiano un tablet e uno smartphone in un negozio di elettronica

(Chung Sung-Jun/Getty Images)

Altre statistiche condivise da Haidt indicano anche un aumento della solitudine e una riduzione delle amicizie tra gli adolescenti a cominciare dai primi anni Dieci del Duemila, e un parallelo peggioramento dei risultati scolastici nella lettura, nella matematica e nelle scienze, negli Stati Uniti e in altri paesi membri dell’OCSE (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico).

Secondo alcuni sondaggi le persone della generazione Z sono inoltre più timide e meno inclini al rischio rispetto alle generazioni precedenti. È un fattore che potrebbe peraltro spiegare almeno in parte perché per la prima volta dagli anni Settanta nessuno dei principali imprenditori della Silicon Valley ha meno di 30 anni, come fatto notare nel 2023 in un’intervista dal cofondatore di OpenAI Sam Altman e dal cofondatore di Stripe Patrick Collison.

– Leggi anche: L’America è a corto di nuove idee?

Nel corso degli anni sono state fornite varie spiegazioni possibili dei dati negativi sulla salute mentale. Haidt sostiene tuttavia che l’internazionalità del fenomeno, per quanto complesso sul piano psicologico, dovrebbe far propendere verso le ipotesi che si concentrano su fattori comuni a tutti i paesi. E i dati mostrano che le malattie mentali tra i giovani sono cominciate ad aumentare notevolmente e un po’ dappertutto con il passaggio dai telefoni cellulari agli smartphone, e con il progressivo trasferimento online di gran parte della vita sociale dei ragazzi e delle ragazze, su piattaforme di social media per di più progettate per generare dipendenza.

La possibilità di avere Internet a portata di mano giorno e notte, secondo Haidt, ha condizionato le esperienze quotidiane e i processi di sviluppo degli adolescenti a tutti i livelli: amicizie, sessualità, sonno, esercizio fisico, studio e relazioni familiari. Il cambiamento ha interessato anche i bambini più piccoli, che hanno cominciato ad avere accesso agli smartphone dei genitori e poi a possedere iPad e altri dispositivi già durante la scuola elementare. Nel 2011 soltanto il 23 per cento degli adolescenti negli Stati Uniti possedeva uno smartphone: nel 2015 la percentuale era salita al 73 per cento.

Un recente sondaggio della società Gallup indica che gli adolescenti statunitensi trascorrono circa cinque ore al giorno soltanto sulle piattaforme di social media (incluso il tempo trascorso a guardare video su TikTok e YouTube). Se si includono tutte le altre attività svolte interagendo con uno schermo, il numero di ore sale a una media compresa tra sette e nove ore al giorno. Nei casi di utilizzo più assiduo, in altre parole, quasi ogni ora di veglia degli adolescenti è un’ora assorbita in tutto o in parte dai loro dispositivi.

– Leggi anche: La dipendenza da internet esiste?

Un altro importante cambiamento riguardo agli stili di vita delle persone è stata la crescente propensione dei genitori a privare bambini e adolescenti della possibilità di giocare all’aperto senza supervisione di un adulto: possibilità che secondo diversi studi è uno dei più potenti fattori di apprendimento tra i giovani mammiferi. L’origine di questo approccio iperprotettivo risale secondo Haidt agli anni Ottanta, quindi prima dell’arrivo di Internet, quando molti genitori influenzati dalle informazioni apprese attraverso la televisione cominciarono a temere per la sicurezza dei propri figli lasciati incustoditi.

A quel cambiamento seguirono secondo Haidt un progressivo declino del «capitale sociale», cioè del livello di fiducia delle persone nei propri vicini e nelle istituzioni, e una crescente riduzione delle interazioni faccia a faccia e delle opportunità lasciate ai giovani per accrescere il loro senso di responsabilità e la loro predisposizione ad assumersi rischi. È un cambiamento con profonde ripercussioni, perché dopo i sei anni il cervello umano ha ormai quasi raggiunto le dimensioni definitive ma i circuiti nervosi devono ancora essere riordinati dall’azione dell’esperienza. In quella fase gli stimoli ambientali diventano fondamentali per l’apprendimento delle norme e la padronanza di abilità fisiche, analitiche, creative e sociali.

L’infanzia e l’adolescenza umane si sono evolute in un ambiente fisico pieno di pericoli, scrive Haidt, ma anche di opportunità per il gioco, l’esplorazione e la socializzazione, e di continue necessità di compiere scelte, risolvere i conflitti all’interno dei gruppi e prendersi cura gli uni degli altri. Le attività virtuali, sotto questo aspetto, «non assomigliano per niente alle esperienze del mondo reale per cui i giovani cervelli si sono evoluti».

Un gruppo di ragazzi all'aperto con l'attenzione rivolta verso lo schermo di uno smartphone

(Alexander Koerner/Getty Images)

Le esperienze virtuali mancano infatti di molte delle caratteristiche che rendono le interazioni umane utili per lo sviluppo fisico, sociale ed emotivo, spiega Haidt. Le interazioni nel mondo fisico sono prima di tutto «incarnate»: si servono cioè delle mani, delle espressioni facciali e degli spazi, tutti elementi fondamentali del linguaggio (e le emoji sono una compensazione molto parziale di quella mancanza). Sono anche «sincrone», cioè avvengono nello stesso momento: caratteristica che non solo permette alle persone di imparare a rispettare i turni nelle conversazioni, ma riduce la possibilità di equivoci in generale e di stress in caso di mancata risposta immediata.

Inoltre le interazioni nel mondo fisico sono perlopiù del tipo uno-a-uno, e solo a volte uno-a-molti, prosegue Haidt. Le interazioni virtuali, che spesso consistono invece in decine di interazioni asincrone in parallelo, tendono a essere più superficiali perché la «reputazione è sempre in gioco: un errore o una prestazione scarsa possono danneggiare la posizione sociale con un gran numero di pari». In generale è probabile che le occasioni di confronto sociale, di vergogna pubblica e di ansia cronica, secondo Haidt più numerose nelle relazioni virtuali, pongano i cervelli in via di sviluppo in uno stato abituale di modalità «difensiva» a scapito di una modalità «esplorativa».

Infine le interazioni nel mondo fisico pongono molto in alto l’asticella per entrare e per uscire dal gruppo, ragione per cui le persone sono di solito molto motivate a investire nelle relazioni e a risolvere eventuali conflitti con altre persone. Molte relazioni virtuali sono invece di un tipo completamente diverso perché le persone possono facilmente bloccare determinati canali o abbandonarli se sono scontente.

– Leggi anche: Come passare meno tempo allo smartphone

Le riflessioni di Haidt sugli effetti degli smartphone sui giovani sono alla base di un’altra ipotesi che sostiene da tempo e per cui in passato aveva ricevuto diverse critiche dalle parti più radicali della sinistra progressista. Secondo lui la ridotta predisposizione al rischio e la prevalenza della modalità «difensiva» durante lo sviluppo degli adolescenti della generazione Z è anche la ragione della loro maggiore sensibilità alle «microaggressioni» e della loro inclinazione a richiedere «spazi sicuri» e trigger warning nelle università.

Un’altra caratteristica problematica e sostanzialmente nuova dei social media, secondo Haidt, è che esercitano anche su chi non li usa una pressione fortissima, molto diversa da quella esercitata dal fumo, che al culmine della diffusione tra gli adolescenti negli anni Novanta arrivò a interessare appena un terzo degli studenti delle superiori negli Stati Uniti. «Anche una ragazza che sa, consapevolmente, che Instagram può favorire l’ossessione per la bellezza, l’ansia e i disturbi alimentari potrebbe preferire correre questi rischi piuttosto che accettare l’apparente certezza di essere fuori dal giro, all’oscuro ed esclusa», ha scritto Haidt sull’Atlantic.

Il funzionamento stesso dei social media è incentrato sugli effetti di rete: la maggior parte degli studenti li usa solo perché lo fanno anche tutti gli altri. E la maggior parte di loro – il 57 per cento, secondo uno studio dell’economista della University of Chicago Leonardo Bursztyn, citato da Haidt – preferirebbe peraltro che nessuno fosse sulle piattaforme e che i social media non esistessero affatto.

Questa è la definizione da manuale di ciò che gli scienziati sociali chiamano un problema di azione collettiva. È ciò che accade quando un gruppo starebbe meglio se tutti i membri del gruppo intraprendessero una particolare azione, ma ogni attore è dissuaso dall’agire, perché a meno che gli altri non facciano lo stesso, il costo personale supera il beneficio.

– Leggi anche: Sui social funzioniamo come stormi

L’introduzione urgente di quattro regole condivise nelle comunità, stando ai risultati di ricerche preliminari condotte in alcune scuole, potrebbe secondo Haidt portare in due anni al miglioramento sostanziale della salute mentale dei giovani. La prima è vietare l’uso dello smartphone prima del liceo, cioè prima dei 14 anni. Un’altra è vietare di aprire account sui social media prima dei 16 anni. Dovrebbe poi essere vietato utilizzare lo smartphone a scuola, sia durante le lezioni che durante le pause. E infine i genitori dovrebbero concedere ai propri figli più indipendenza e libertà di giocare senza supervisione, e affidare loro maggiori responsabilità (chiedendo di sbrigare commissioni o di prendersi cura di altre persone, per esempio).

Una delle obiezioni alla proposta di Haidt è che il compito di concedere più spazio fisico e psicologico ai propri figli, indipendentemente dalle opinioni, sia irrealistico specialmente in certi contesti e in certi paesi. «Sarebbe necessario invertire tendenze decennali non solo nella privatizzazione dello spazio pubblico ma anche nell’edilizia abitativa, nella pianificazione municipale, nella progettazione delle strade e nell’applicazione del codice della strada, che hanno reso gli Stati Uniti uno dei paesi sviluppati meno a misura di pedone al mondo», ha scritto il New Yorker.

Soprattutto sarebbe molto difficile sradicare dalle persone e dalle istituzioni una certa mentalità collettiva che pone la sicurezza al di sopra di molti altri valori. «Per quanto laissez faire un genitore possa desiderare di essere, se accompagni il tuo bravo bambino di terza elementare per un pomeriggio di esplorazione libera per il bosco di Prospect Park, più tardi nella stessa giornata puoi ragionevolmente aspettarti qualche domanda da un agente del settantottesimo distretto di polizia».

In ambito accademico la più condivisa obiezione alla tesi di Haidt riguarda invece la premessa di tutto il suo ragionamento: il rapporto tra i dati sull’utilizzo dello smartphone e quelli sul peggioramento della salute mentale degli adolescenti. Secondo alcuni studiosi di scienze sociali la correlazione tra i dati non implica necessariamente un rapporto di causalità, perché l’espansione storica dell’accesso a Internet nei primi anni Dieci del Duemila coincide con decine di altre tendenze, molto difficili da analizzare separatamente l’una dall’altra.

«Dobbiamo fare molta attenzione a non attribuire ai social media la responsabilità delle tendenze con cui la loro ascesa ha coinciso», ha detto al New York Times Brendan Nyhan, professore statunitense di scienze politiche del Dartmouth College, che si è occupato a lungo di disinformazione, polarizzazione politica e social media.

– Leggi anche: Dovremmo studiare meglio gli effetti dei social network sul comportamento collettivo

Critiche simili a quelle di Nyhan ma ancora più severe sono state espresse sulla rivista Nature dalla psicologa dello sviluppo statunitense Candice Odgers, professoressa alla University of California Irvine e autrice di diversi studi sull’influenza della povertà e di altri fattori sulla salute mentale degli adolescenti. L’idea secondo cui «le tecnologie digitali starebbero ri-cablando il cervello dei nostri figli e causando un’epidemia di malattie mentali non è sostenuta dalla scienza», e asseconda molte paure esistenti tra i genitori, ha scritto Odgers.

Le ricerche da cui emergono associazioni significative tra l’uso dei social media e i problemi di salute mentale suggeriscono non che il primo fenomeno sia causa del secondo, secondo Odgers, ma che i giovani con problemi di salute mentale tendono a utilizzare le piattaforme più frequentemente oppure in modi diversi rispetto ai loro coetanei che non hanno problemi. Odgers sostiene che la comprensione dell’attuale crisi di salute mentale tra i giovani sia incompleta e richieda ulteriori ricerche, ma che tentativi come quello di Haidt rischiano di distrarre dalle risposte più adatte al problema, che sono complesse.

Come fattori alla base del costante aumento dei suicidi negli ultimi 20 anni negli Stati Uniti diversi ricercatori citano spesso diversi fenomeni: l’accesso alle armi, l’esposizione alla violenza, la discriminazione strutturale, il razzismo, il sessismo, gli abusi, l’epidemia di oppioidi, le difficoltà economiche e l’isolamento sociale. Secondo altri studiosi influiscono anche fenomeni come le sparatorie nelle scuole, la crisi finanziaria del 2008 e il riscaldamento globale.

La contro-obiezione di Haidt è che, sebbene questi eventi possano aver contribuito alla crisi in alcuni paesi, nessuno è in grado di spiegare né i tempi né la portata internazionale del fenomeno. «Non riesco proprio a vedere un percorso causale attraverso cui le sparatorie nelle scuole americane, la disuguaglianza o il razzismo avrebbero indotto le ragazze in Australia a cominciare improvvisamente ad autolesionarsi o a suicidarsi nello stesso momento in cui hanno cominciato a farlo le ragazze americane», ha scritto Haidt.

Haidt ha inoltre citato 16 studi e otto esperimenti di psicologia che proverebbero non soltanto la correlazione ma anche la causalità tra l’uso dei social media e degli smartphone e i problemi di salute mentale. E ha infine contestato l’idea che la sua spiegazione sia semplicistica e basata su un unico fattore, perché riguarda invece due fattori principali – la fine dell’infanzia basata sul gioco e l’ascesa dell’infanzia basata sullo smartphone – che hanno a loro volta molteplici cause.

***

Dove chiedere aiuto
Se sei in una situazione di emergenza, chiama il numero 112. Se tu o qualcuno che conosci ha dei pensieri suicidi, puoi chiamare il Telefono Amico allo 02 2327 2327 oppure via internet da qui, tutti i giorni dalle 10 alle 24.
Puoi anche chiamare l’associazione Samaritans al numero 06 77208977, tutti i giorni dalle 13 alle 22.