Gli smartphone hanno reso gli adolescenti più tristi?

Sempre più esperti li considerano il fattore principale, in un dibattito senza certezze ma approfondito da nuovi studi

smartphone adolescenti
Una scena del film del 2021 “Spider-Man: No Way Home”
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La recente pubblicazione dei dati aggiornati di un ampio sondaggio periodico condotto negli Stati Uniti dai Centers for Disease Control and Prevention (CDC), il più importante organo nazionale di controllo sulla sanità pubblica, ha riattivato una discussione avviata già da tempo riguardo alla salute mentale e i comportamenti a rischio tra gli adolescenti. Il rapporto sul sondaggio, che prende in considerazione la popolazione delle scuole superiori nel periodo tra il 2011 e il 2021, ha confermato un generale peggioramento delle condizioni degli adolescenti, già attestato in altre ricerche. Ha mostrato inoltre, tra le altre cose, un aumento della percentuale di ragazze che affermano di provare «sentimenti persistenti di tristezza e disperazione» (dal 36 al 57 per cento) e di quelle che hanno pensato al suicidio (dal 19 al 30 per cento).

Nella discussione portata avanti nelle ultime settimane da giornalisti e analisti che si occupano di questo fenomeno da tempo è emersa una tendenza sempre più condivisa e omogenea a considerare la diffusione degli smartphone il singolo fattore più influente nell’incremento storico dei casi di suicidio, ansia e depressione tra gli adolescenti, non soltanto negli Stati Uniti. È un dibattito che prosegue da anni e in cui si misura anche un approccio diverso, più cauto nel definire nessi di causalità tra l’utilizzo degli smartphone e l’aumento dei problemi di salute mentale tra i giovani, considerato un fenomeno complesso e condizionato da numerose altre variabili difficili da isolare.

Molti studiosi, pur non escludendo l’influenza di altri fattori, affermano tuttavia che negli ultimi tempi sia aumentata la quantità di studi solidi e attendibili a sostegno dell’ipotesi che gli smartphone siano la variabile più importante tra tutte. Altri ancora, che finora non erano molto convinti, hanno cambiato idea. Continuare a mettere in dubbio o negare la relazione tra gli smartphone e la salute mentale, secondo questi studiosi, potrebbe ostacolare o rallentare i tentativi di promuovere un rapporto più consapevole, equilibrato e attento degli adolescenti con gli smartphone e con le app per cui lo utilizzano.

Il sondaggio dei CDC ha mostrato un aggravamento significativo dei problemi di salute mentale tra i ragazzi e le ragazze durante la pandemia, presumibilmente associato alle limitazioni della socialità e ad altri fattori eccezionali. Ma esperti e analisti hanno segnalato una tendenza evidente che precede di molto il periodo della pandemia: è circolato, in particolare, un grafico tratto da uno studio della psicologa statunitense Jean Marie Twenge, docente alla San Diego State University, che mostra un incremento regolare dei casi di suicidio e dei sintomi di ansia e depressione tra le adolescenti statunitensi più o meno a partire dal 2012.

twenge suicidi ragazze 2001 2018

L’incremento dei casi di depressione, autolesionismo e suicidio tra le adolescenti statunitensi tra il 2012 e il 2018 (Jean M. Twenge, 2020)

Lo studio di Twenge, che approfondisce la correlazione tra i problemi di salute mentale e l’utilizzo degli smartphone tra gli adolescenti, fu pubblicato a marzo 2020 (prima della pandemia) su Psychiatric Research and Clinical Practice, una delle riviste della American Psychiatric Association (APA), l’organizzazione di psichiatri americana che cura, tra le altre cose, il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM), testo di riferimento internazionale per la classificazione dei disturbi psichici. Già in passato Twenge si era a lungo occupata di questo fenomeno: i suoi studi erano stati molto apprezzati per l’accuratezza della documentazione e la quantità di ricerche citate, ma contestati per le conclusioni riguardo all’influenza degli smartphone.

Anche nelle ultime settimane, come in passato, sono circolate ipotesi di spiegazioni alternative. La giornalista Taylor Lorenz, che si occupa di tecnologia per il Washington Post, ha sminuito la rilevanza dell’uso degli smartphone e attribuito l’incremento dei problemi di salute mentale tra i giovani alle profonde disuguaglianze economiche e sociali, e alle preoccupazioni per la pandemia e il cambiamento climatico. E Matt Yglesias, ex giornalista di Atlantic, Slate e Vox, ha segnalato una recente analisi epidemiologica che prende in considerazione l’orientamento politico degli adolescenti statunitensi.

L’analisi ha mostrato il più alto aumento di sintomi depressivi in assoluto tra le ragazze progressiste, superiore a quello riscontrato tra i maschi progressisti, e l’aumento minore in assoluto tra i ragazzi conservatori. Il fatto che l’aumento dei sintomi tra i ragazzi progressisti sia stato comunque più consistente di quello tra le ragazze conservatrici suggerisce che l’orientamento politico possa avere una qualche influenza, ha scritto Yglesias. E ha indicato una certa tendenza di una parte dei progressisti a definire i problemi economici e sociali in termini catastrofici, fin dall’inizio degli anni Dieci del Duemila.

La particolare variazione storica dei casi di problemi di salute mentale e suicidi tra gli adolescenti induce però una parte sempre più ampia di analisti e studiosi a considerare, come Twenge fa da tempo, la diffusione capillare degli smartphone – avvenuta prima tra le persone più giovani che tra le più anziane – come prima spiegazione fondamentale del fenomeno. E questa spiegazione, secondo diversi analisti tra cui l’economista statunitense Noah Smith, dovrebbe avere una precedenza logica rispetto a quella che attribuisce maggiore influenza ai social network in sé.

Quando infatti le persone controllavano i social utilizzando un computer potevano farlo solo in modo intermittente, ha scritto Smith. Avere uno smartphone sempre in tasca e con le notifiche abilitate ha invece aumentato il tempo in cui le persone, per una ragione o per l’altra, utilizzano un’app. «Quindici anni fa Internet era un’evasione dal mondo reale. Oggi il mondo reale è un’evasione da Internet», scriveva Smith già nel 2017, indicando uno dei principali effetti della diffusione degli smartphone.

Secondo queste interpretazioni, l’utilizzo degli smartphone ha quindi sostanzialmente portato a un maggiore isolamento sociale, una condizione saldamente associata nella letteratura scientifica a un aumento del rischio di depressione e suicidio. Lo dimostrano peraltro sia la misura dell’isolamento nelle prigioni, da alcuni considerata una forma di tortura, sia l’isolamento durante la pandemia, che ha avuto conseguenze rilevanti sulle condizioni di salute mentale delle persone.

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Ovviamente lo smartphone non implica di per sé un isolamento sociale, e anzi per certi aspetti è vero il contrario: come altri dispositivi tecnologici permette un tipo di interazione che in moltissimi casi – la pandemia è uno dei più chiari ed estremi – è l’unica possibile. E altrettanto ovviamente quel tipo di interazione è molto diversa da un’interazione fisica. L’ipotesi presa in considerazione da psichiatri, psicologi e altri studiosi è che la diffusione degli smartphone abbia di fatto ridotto quelle interazioni fisiche in diversi modi.

Prima di tutto hanno ridotto l’attenzione che le persone prestano a ciò che hanno fisicamente intorno: un fenomeno noto come phubbing – da phone + snubbing (“snobbare”) – che indica l’alienazione provocata da uno utilizzo eccessivo degli smartphone a scapito dei rapporti umani fisici. Inoltre gli smartphone forniscono una sorta di stimolo comportamentale, nella misura in cui rendono più semplice scrivere agli amici in molte circostanze in cui li avremmo probabilmente visti di persona. E questa preferenza di alcuni per le interazioni a distanza determina una conseguente riduzione delle possibilità anche per tutte le altre persone, un effetto noto nelle economie di rete.

L’opinione condivisa da chi attribuisce all’utilizzo degli smartphone un’influenza fondamentale nel peggioramento della salute mentale degli adolescenti è che questa spiegazione non ne escluda altre, ma che le altre spiegazioni più plausibili siano nella maggior parte dei casi comunque dipendenti dagli smartphone.

Per esempio, un’ipotesi molto popolare – sostenuta tra gli altri da Jonathan Haidt, docente di psicologia sociale alla New York University – suggerisce che l’aumento costante dei tassi di depressione, ansia e autolesionismo tra le ragazze dai primi anni Dieci del Duemila in poi sia uno degli effetti dell’aumento dell’utilizzo e della popolarità dei social media. I social, in sostanza, avrebbero sostituito altre forme di interazione tra le adolescenti, sottoposto il loro aspetto fisico alle metriche dei “Mi piace” e del conteggio dei commenti, e reso pubbliche le dimensioni del loro gruppo di amici.

Ma anche questa variabile, ha scritto Smith, è evidentemente condizionata a monte dalla diffusione degli smartphone: «Senza smartphone sei costretto a stare lontano da Instagram per gran parte della giornata, con uno smartphone in tasca il giudizio onnipresente della tua cerchia è sempre a portata di mano». E lo stesso discorso vale eventualmente anche per la discussa influenza della sovraesposizione alle notizie negative e deprimenti, che sono note da prima di Internet per la capacità di attirare di più l’attenzione, ma che non erano mai state tanto numerose e accessibili quanto lo sono diventate in seguito alla diffusione degli smartphone.

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Il principale problema della spiegazione che riconduce le altre agli smartphone è che è difficile dimostrare nessi di causalità e non di semplice correlazione con l’aumento dei problemi di salute mentale. Anche perché la normalità dell’utilizzo degli smartphone tra gli adolescenti – diversamente dal fumo, per esempio – riduce la disponibilità di gruppi di controllo “naturali” (persone che non usano smartphone) e lo spazio per le analisi rigorose e approfondite del fenomeno.

Negli ultimi anni la quantità di studi attendibili sulle relazioni tra l’utilizzo degli smartphone e le malattie mentali, peraltro raccolti da Haidt e Twenge in un documento condiviso e aggiornato periodicamente, è comunque cresciuta molto. E sebbene non tutti siano convincenti o sufficientemente ampi, molti indicano tendenze omogenee in molti paesi sviluppati: fatto che indebolisce le spiegazioni che fanno riferimento a variabili che valgono soltanto per gli Stati Uniti.

Uno degli studi più estesi e citati in assoluto sugli effetti dei social media sulla polarizzazione e sulla salute mentale è uno studio pubblicato nel 2019, “The Welfare Effects of Social Media”, e condotto negli Stati Uniti da ricercatori della Stanford University, della New York University e del National Bureau of Economic Research (NBER), organizzazione privata statunitense che si occupa di studi economici. Su un campione di 2.743 persone, i ricercatori pagarono alcune di loro perché disattivassero i propri account Facebook durante le quattro settimane prima delle elezioni di metà mandato del 2018.

Alla fine dell’esperimento scoprirono che le persone che avevano disattivato Facebook, rispetto a quelle che non avevano accettato di farlo, avevano ridotto il loro tempo online e aumentato le loro attività offline, e in molti casi non avevano riattivato i loro account nemmeno settimane dopo la fine dell’esperimento. In loro i ricercatori riscontrarono inoltre una diminuzione della polarizzazione politica e dell’esposizione alle notizie, e un aumento del benessere soggettivo.

A conclusioni simili porta un altro studio del 2022 condotto da ricercatori della University of Bath, nel Regno Unito, il cui esperimento centrale richiedeva a 154 partecipanti di età media di 29,6 anni di non utilizzare Facebook, Instagram, Twitter e TikTok per una settimana. Alla fine dell’esperimento, la sospensione dei social media aveva determinato miglioramenti significativi dei valori di salute mentale, ansia e depressione. E studi simili a questo sono stati condotti anche in Germania e in Danimarca.

Nel 2022 uno studio pubblicato sulla rivista American Economic Review, condotto tra gli altri da uno dei ricercatori già autori dell’articolo del 2019 “The Welfare Effects of Social Media”, è stato basato su una specie di «esperimento naturale»: ha analizzato l’introduzione di Facebook scaglionata nel tempo nei diversi college statunitensi. I ricercatori hanno scoperto che la distribuzione di Facebook è coincisa con un corrispondente progressivo aumento dei sintomi di problemi di salute mentale, in particolare la depressione: risultati probabilmente dovuti al fatto che Facebook abbia promosso «confronti sociali sfavorevoli».

Nonostante la quantità crescente di studi sulla relazione tra i social media e i problemi di salute mentale degli adolescenti, l’attuale letteratura scientifica su questo argomento è comunque lontanissima da una situazione in cui sia possibile affermare che quella relazione sia uguale a quella che, per esempio, lega il fumo ai suoi effetti cancerogeni. Non è detto che un giorno non si possa arrivare a quel punto, anche se è molto improbabile, ha scritto il giornalista statunitense Derek Thompson, che si è a lungo occupato degli effetti dei social media sull’Atlantic.

L’ipotesi di Thompson è che come paragone – a patto di considerarlo utile fino a un certo punto e non oltre – funzioni meglio quello tra social media e alcol: «una sostanza che, a piccole dosi, può essere divertente o addirittura utile per gli adulti, ma a dosi maggiori può causare problemi a certe persone». Ma potrebbe anche succedere che altri studi in futuro ridimensionino, anziché confermare e rafforzare, l’influenza dei social media.

Esperti in altri ambiti, come per esempio lo stimato informatico e saggista statunitense Paul Graham, hanno inoltre ricordato la necessità di distinguere l’influenza degli smartphone in quanto tali da quella delle app. Molti degli studi condivisi da Haidt e Twenge si riferiscono infatti ai social media e suggeriscono che il modo in cui le piattaforme sono costruite abbia una certa rilevanza a prescindere dal dispositivo su cui vengono usate: considerazione che comunque non esclude l’ipotesi di Smith sull’isolamento sociale e su un aggravamento degli effetti dei social media dovuto alla diffusione degli smartphone.

L’opinione largamente condivisa da psicologi e altri studiosi ed esperti è che per una comprensione migliore del fenomeno sia necessario svolgere comunque altri studi, più estesi e rigorosi. Ma già adesso, secondo Smith, in attesa che la ricerca stabilisca in via definitiva che gli smartphone possono provocare problemi alla salute mentale e chiarisca come ciò avviene, sarebbe utile sviluppare e promuovere una consapevolezza diversa di questa tecnologia.

«Ogni tecnologia ha i suoi costi», ha scritto Smith, e nella maggior parte dei casi scegliamo di gestirne e mitigarne i costi invece che vietarla. È la ragione per cui non avrebbe molto senso parlare di vietare l’utilizzo degli smartphone (anche se i genitori di ragazzi e ragazze adolescenti potrebbero anche volerlo limitare o regolare). Una possibilità potrebbe essere quella di attendere che le società si adattino, come già avvenuto in passato con altre tecnologie i cui effetti negativi non hanno comunque impedito che nel complesso le nostre vite migliorassero, ha scritto Smith.

Ma un’altra possibilità potrebbe essere incentivare e dare priorità alle interazioni di persona. E fare in modo che frequentarsi fisicamente, per lungo tempo l’unico modo di avere una relazione, diventi «qualcosa per cui le persone si ritagliano deliberatamente del tempo».

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