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  • Sabato 8 maggio 2021

Seguiamo troppe notizie

La pandemia ha ribadito i rischi già noti della sovraesposizione a un flusso ininterrotto di informazioni, un problema che riguarda sia i lettori sia i media

greenland
Un fotogramma del film “Greenland”, del 2020

Negli ultimi anni lo sviluppo formidabile e la distribuzione capillare degli strumenti e dei canali tecnologici attraverso cui passa, tra le altre cose, gran parte dell’informazione quotidiana di milioni di persone in tutto il mondo ha accresciuto una progressiva consapevolezza del rischio di sovraesposizione a un flusso di notizie continuo. È un rischio che esiste da prima che la diffusione della COVID-19 condizionasse in modo radicale la vita delle persone, ma che la pandemia ha contribuito a rendere ancora più evidente mostrando, al contempo, alcune dinamiche psicologiche alla base dell’impulso spesso incontrollato di consultare fonti di informazione.

Alcuni esperti e psicologi statunitensi hanno cominciato a parlare di doomscrolling per definire la pratica di scorrere ininterrottamente le notizie – perlopiù drammatiche e deprimenti – sugli smartphone o sui computer, occupando parti della giornata che prima della pandemia erano destinate ad altre attività. Ma la tendenza a cercare compulsivamente informazioni per rimanere costantemente aggiornati sui fatti è un fenomeno che – anche al netto delle espressioni più facilmente riconoscibili come problematiche e morbose – riguarda indistintamente persone di tutte le età, professionisti dell’informazione e non, e fasce della popolazione con alti e bassi livelli di istruzione.

Non è un caso, secondo diversi osservatori, se una parte del gergo (non solo anglosassone) comunemente utilizzato nella descrizione di vari contesti di fruizione dell’informazione – “consumo”, “news feed”, “clickbait” – attinga a sfere semantiche associate anche alla nutrizione, esperienza umana di cui sono note e continuano a essere esplorate le dimensioni patologiche legate a eccessi e abitudini scorrette.

«La maggior parte di noi non capisce ancora che le news stanno alla mente come lo zucchero sta al corpo» scriveva sul Guardian nel 2013 l’imprenditore svizzero Rolf Dobelli, autore del recente libro di auto-aiuto Smetti di leggere le notizie (tradotto in Italia da Silvia Albesano per il Saggiatore). Da allora è cresciuta ulteriormente la quantità di interventi che riflettono sulle cause e sugli effetti a lungo termine, sia individuali che collettivi, della «dipendenza» dalle notizie, come anche la quantità di consigli condivisi per cercare di arginare questo fenomeno.

Le news e i media nell’autunno del 2008
Nel 2008, in piena crisi dei mercati finanziari e nei giorni conclusivi di una frenetica campagna elettorale per le presidenziali americane, un articolo del New York Times riferì di una sorta di «dipendenza» dalle news sviluppata da moltissime persone negli Stati Uniti.

Una contabile di Brooklyn che lavorava per una casa di produzione cinematografica, Yana Collins Lehman, all’epoca trentaseienne, raccontò di aver avuto la percezione di qualcosa di sbagliato nelle sue abitudini quotidiane quando sentì suo figlio di cinque anni cominciare a ripetere da solo frasi come «I’m John McCain, and I approve this message» (l’espressione americana pronunciata dal candidato alla fine di ogni spot elettorale). «È una tale perdita di produttività, una compulsione», disse Collins Lehman descrivendo quelle sue abitudini.

La crisi fu una delle prime occasioni in cui eventi con vasta risonanza mondiale avvenivano in un contesto tecnologicamente mutato rispetto a pochi anni prima. A molte persone, scriveva il Nyt, la «fame di informazioni» ricordava i mesi «tormentati e strazianti» dopo l’11 settembre, con la differenza che nel 2001 non c’erano iPhone, né Twitter, né YouTube, e i blog e i social network erano agli inizi. «Questa esplosione della tecnologia dell’informazione, se combinata con un’insolita confluenza di eventi di cronaca drammatici e in corso, ha portato molte persone a consegnare le loro vite a un’ossessione per le news», scriveva il New York Times.

Newseum Washington D.C.

Una galleria del Newseum di Washington, D.C., dedicata alle prime pagine sugli attacchi dell’11 settembre, il 9 settembre 2016 (Alex Wong/Getty Images)

Secondo Eric Klinenberg, docente di sociologia alla New York University sentito all’epoca dal New York Times, uno degli aspetti più significativi ed eccezionali di quel periodo era che gli effetti della crisi finanziaria sembravano dover investire ogni ambito della vita quotidiana di milioni di persone. E questo impediva loro di tenere separate le loro attività, il lavoro dal tempo libero e dalla famiglia. «È come se quelle sfere stiano collassando l’una sull’altra», disse Klinenberg. Inoltre quelle notizie erano da un lato molto rilevanti e dall’altro estremamente volatili: tutti aspetti che per certi versi ricordano il flusso delle notizie legate alla pandemia.

All’epoca i mercati finanziari generavano oscillazioni di centinaia di punti in un’ora, così come cambiavano frequentemente i risultati dei sondaggi elettorali. «Le notizie in questi giorni hanno una durata di conservazione incredibilmente breve», riferivano le persone sentite dal New York Times, e «se non hai controllato i titoli nell’ultima mezz’ora, il mondo potrebbe essere già cambiato». Alla base di quella volontà di tenersi aggiornati, secondo alcuni sociologi, c’era in molti casi la convinzione che accumulare informazioni potesse restituire alle persone una sensazione di controllo sul loro destino, che in quei momenti sembrava per altri versi completamente legato a eventi inafferrabili e fuori controllo.

Il rispettato psicologo statunitense Kenneth Gergen, docente allo Swarthmore College in Pennsylvania, fornì un ulteriore livello di lettura riguardo ad alcune delle implicazioni meno evidenti della costante esposizione collettiva al flusso di notizie. In alcune circostanze le informazioni possono valere come «moneta sociale», come argomento di discussioni seriali che tengono unita la comunità. In questo, spiegò al New York Times, funzionano esattamente come le serie tv o gli eventi sportivi.

Ci sono poi altri contesti in cui la conoscenza è vista come un «potere», e in quei casi avere informazioni può contribuire a migliorare lo status sociale. Ma quel sistema smette di funzionare nel momento di incertezza in cui i criteri con cui definire quelle conoscenze diventano fragili e instabili di giorno in giorno, e chiunque «può semplicemente dire quello che qualcun altro ha detto ieri», spiegò Gergen.

Gli effetti della pandemia
A marzo 2020, nelle prime settimane di emergenza causata dalla pandemia, diversi siti di news in tutto il mondo hanno ricevuto molte più visite del solito, stabilendo in molti casi nuovi record di traffico. Le emittenti televisive hanno inoltre rilevato un aumento di spettatori nelle fasce più giovani, quelle solitamente meno interessate ai notiziari serali. «Se il nostro apporto giornaliero di notizie fosse misurato in calorie, molti di noi avrebbero accumulato ancora più peso nelle ultime settimane» scrisse la giornalista Maddy Savage, utilizzando un’altra metafora sul cibo, in un articolo per BBC.

Poco più di un mese dopo, alla fine di aprile, il traffico di molti siti e gli indici televisivi di diverse emittenti tornarono a livelli pre-pandemici. In un sondaggio realizzato dall’istituto Pew Research Center, il 71 per cento degli americani dichiarò di aver sentito il bisogno di smettere di seguire le notizie. Circa 4 su 10 riferirono inoltre di sentirsi emotivamente peggio dopo averle seguite, e circa la metà degli intervistati affermò di avere difficoltà a stabilire cosa fosse vero e cosa no riguardo alla pandemia.

«In tempi di crisi, le persone comprendono davvero la necessità di un giornalismo decoroso, ma la situazione sta diventando schiacciante perché in pratica esistono soltanto notizie sul coronavirus» disse a BBC Ulrik Haagerup, un ex redattore danese fondatore del Constructive Institute, un istituto indipendente impegnato in programmi di formazione e in ricerca di strumenti e protocolli condivisi per le testate giornalistiche. «Certo, è una notizia enorme, ma è un fatto psicologico piuttosto noto, che essere sopraffatti porta le persone a tornare dal gatto e alle loro serie su Netflix», aggiunse Haagerup.

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Oltre a una generale “stanchezza da coronavirus” comune a molte persone, diversi psicoterapeuti segnalarono i rischi più specifici legati all’iper-stimolazione prodotta dal flusso di notizie su soggetti con una precedente storia di problemi di salute mentale. «L’ansia guarda al possibile e lo amplifica, si concentra su quello piuttosto che sul probabile» spiegò a BBC lo psicoterapeuta inglese John-Paul Davies, portavoce dell’associazione nazionale che riunisce tutti i professionisti registrati (UK Council for Psychotherapy). Secondo Davies le persone con una predisposizione all’ansia, che leggono per esempio certe notizie sull’economia, «dicono “beh, sai, il mio lavoro è a rischio, perderò il lavoro, e poi non potrò mantenermi, e poi perderò la mia casa”».

La difficoltà intrinseca con questi soggetti è che è proprio l’ansia, secondo Davies, a spingerli a controllare compulsivamente le informazioni: nel tentativo di alleviarla. Nel caso delle persone con una storia di depressione il risultato può essere quello opposto: che possano «spegnersi e diventare apatiche», dopo una sovraesposizione alle notizie sul coronavirus, decidendo di cercare fonti di stimolazione alternative e potenzialmente pericolose come l’alcol o il cibo.

I nuovi media e le informazioni negative
Alcuni studi raccolti dal sito The Conversation sottolineano come il modo in cui le persone guardano, leggono e ascoltano le notizie – profondamente cambiato negli ultimi anni, per effetto dell’evoluzione degli strumenti informatici – determina cambiamenti non soltanto nelle routine di milioni di persone ma anche nel modo in cui quelle persone sono poi influenzate dalle notizie.

Una delle differenze più lampanti tra le piattaforme digitali, come i social media, e i canali di informazione tradizionali «a senso unico», come la televisione e la radio, è che il consumatore di notizie non è più un «ricevitore passivo». Le reazioni ai post sui social, le ricerche e le condivisioni dei contenuti agiscono come feedback immediato in grado di orientare l’offerta per il consumatore di notizie. Ma anche la disponibilità stessa dei contenuti su richiesta lo mette nella condizione di usufruirne in modo potenzialmente illimitato. I risultati di uno studio del 2003 suggerirono che, dopo l’11 settembre, i giovani che avevano utilizzato Internet per avere informazioni e recuperare video e immagini degli attentati mostravano più sintomi da disturbo da stress post-traumatico (PTSD) rispetto a quelli che avevano seguito le notizie soltanto in televisione o sui giornali.

11 settembre 2001

Seoul, 11 settembre 2001 (Chung Sung-Jun/Getty Images)

Secondo Graham Davey, docente di psicologia all’Università del Sussex e caporedattore della rivista Journal of Experimental Psychopathology, sentito da Time a maggio 2020, «il modo in cui sono presentate le notizie e il modo in cui accediamo alle notizie è cambiato in modo significativo negli ultimi 15-20 anni, e spesso questi cambiamenti sono stati dannosi per la salute mentale generale». Davey sostiene in alcune ricerche che l’abbondanza di informazioni «sempre più visive e scioccanti», come clip audio e video che circolano sugli smartphone, e di notizie negative nei programmi televisivi, non solo incrementi il rischio di stress acuto, problemi di sonno e sbalzi d’umore, ma aggravi in generale le preoccupazioni personali dello spettatore anche quando non sono direttamente collegate alle notizie apprese.

Come confermato da altri studi sugli effetti degli attentati dell’11 settembre e di quello alla maratona di Boston nel 2013, le possibilità di sviluppare sintomi di PTSD tendono ad aumentare all’aumentare dell’esposizione a notizie di tragedie, crisi e disastri naturali. E la probabilità che questa sovraesposizione si verifichi è legata in parte anche ad alcuni impulsi che rendono più interessanti le notizie cattive rispetto a quelle buone.

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Da diversi anni studiosi di psicologia sociale e psicofisiologia – come lo statunitense Roy Baumeister in un citato articolo del 2001, pubblicato sulla rivista scientifica Review of General Psychology – hanno esplorato e descritto gli effetti di una distorsione cognitiva nota come pregiudizio di negatività (negativity bias) attiva in un’ampia gamma di fenomeni psicologici. È descritto come la nostra tendenza, in parte sostenuta da ragioni evolutive, a prestare più attenzione agli stimoli negativi rispetto a quelli neutri o positivi. E anche nel caso delle informazioni, sostiene Baumeister, quelle cattive sono di solito elaborate più accuratamente rispetto a quelle buone.

«In uno stato di natura, la nostra sopravvivenza dipende dal trovare ricompense ed evitare danni, ma evitare danni ha la priorità», sintetizza Loretta Breuning, ex docente di management alla California State University e autrice del libro Habits of a Happy Brain. Il cervello umano, spiega Breuning, è attratto da informazioni preoccupanti perché è programmato per rilevare le minacce, non per trascurarle.

L’inclinazione dei lettori a dedicare più attenzione alle brutte notizie è un fatto noto anche alle redazioni, già da molto tempo prima che funzionamento e meccanismi dei social media ne fornissero nuove prove. “If it bleeds, it leads” è una vecchia espressione americana – traducibile, non troppo letteralmente, come “se è violento, porta ascolti” – utilizzata da decenni per descrivere un tipo di approccio ben radicato nel giornalismo televisivo di alcuni network, consapevoli del maggiore interesse suscitato dai contenuti cruenti e, in molti casi, della loro maggiore rimuneratività.

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La moltiplicazione dei canali di informazione favorita dallo sviluppo di Internet e delle tecnologie digitali non ha prodotto, da questo punto di vista, uno stravolgimento di certi approcci tradizionali, soprattutto nei casi in cui l’offerta sia sostenuta da modelli di business basati sulla pubblicità e tarati sull’equivalente digitale dei vecchi indici di ascolto. Nel 2014 un sito di news russo, Cityreporter.ru, ricevette soltanto un terzo della quantità di visite abituali nel giorno in cui decise di trattare, dopo averlo annunciato nei giorni precedenti, soltanto informazioni di cui fosse possibile occuparsi in termini positivi.

«Abbiamo cercato di trattare soltanto notizie positive nel flusso quotidiano, e pensiamo di averle trovate, ma pare che nessuno ne abbia bisogno, ed è questo il problema», scrisse la vicedirettrice.

Barnsley Chronicle

Un giornalista del quotidiano Barnsley Chronicle al lavoro in redazione a Barnsley, Inghilterra, il 19 settembre 2018 (Leon Neal/Getty Images)

Per ogni articolo di giornale su un bambino che non rientra a casa sano e salvo dopo una giornata al parco con gli amici, scriveva nel 2017 la rivista Pacific Standard, milioni di passeggiate verso casa finite bene non vengono riportate. «Le persone vorranno sempre cattive notizie perché non vogliono che quelle brutte cose capitino a loro», secondo Jill McCluskey, docente di economia alla Washington State University e coautore di uno studio pubblicato sulla rivista Information Economics and Policy.

Impiegando modelli matematici e la Legge di utilità marginale decrescente (l’ipotesi secondo cui l’utilità o la soddisfazione di un bene diminuiscono al crescere del suo livello assoluto di consumo), lo studio sostiene che le persone abbiano generalmente più da perdere nel trascurare una tendenza o un evento negativo che da guadagnare nell’apprendere di un evento positivo. «Pensate a quegli articoli estivi sugli attacchi degli squali ai bagnanti», propone McCluskey come esempio.

«Non possiamo prestare attenzione a tutto. Abbiamo bisogno di alcune euristiche che siano di aiuto nel selezionare le informazioni importanti e quelle che non lo sono, o quantomeno informazioni che ci richiedono di cambiare il nostro comportamento rispetto a quelle che non lo richiedono», ha spiegato a Pacific Standard Stuart Soroka, docente di scienze politiche e linguaggi dei media all’Università del Michigan. In uno studio pubblicato nel 2016, Soroka prese in esame la vista dei partecipanti a un esperimento mentre leggevano da una selezione di notizie. I risultati confermarono non soltanto che veniva dedicato più tempo ai contenuti negativi, ma che questo comportamento – implicando l’esistenza di una sorta di «radar di sicurezza inconscio» – si verificava anche tra i partecipanti che dichiaravano una preferenza per le buone notizie.

Rumori e segnali
La quantità di informazioni a cui siamo esposti nella modernità, secondo il saggista libanese Nassim Nicholas Taleb, «sta trasformando gli esseri umani da persone serene a persone nevrotiche». Nel libro Antifragile. Prosperare nel disordine, Taleb fa una distinzione tra «rumore» e «segnale» all’interno del flusso di notizie quotidiano. Ritiene che bisognerebbe prestare attenzione soltanto al secondo e ignorare il primo, definito «una generalizzazione che va al di là del suono vero e proprio, e serve a descrivere informazioni casuali del tutto inutili per qualunque scopo».

Per spiegare gli effetti perversi dell’eccesso di informazioni, Taleb fa un parallelismo con il concetto medico di iatrogenesi, il caso in cui certi effetti imprevisti – anche negativi come un danno funzionale, una malattia o anche la morte stessa – siano riconducibili a interventi terapeutici, preventivi o diagnostici da parte dei medici.

«Pensate alla iatrogenicità dei giornali. Ogni giorno devono riempire le pagine con una serie di notizie fresche – soprattutto quelle trattate anche dagli altri giornali. Tuttavia, per fare le cose per bene, bisognerebbe che imparassero a rimanere in silenzio quando non ci sono notizie di rilievo. I giornali dovrebbero essere lunghi due righe in certi giorni, duecento pagine in altri, a seconda dell’intensità del segnale».

L’osservazione di Taleb ricorda una battuta del comico americano Jerry Seinfeld: «È straordinario che ogni giorno nel mondo succedano esattamente le notizie che ci stanno in un giornale».

Il «rumore», secondo Taleb, genera invece reazioni emotive ed eccessive, e l’abbondanza di dati «tempestivi» disponibili ogni giorno impedisce alle persone che vi sono immerse di percepire anche l’aumento proporzionale di «dati spuri» e l’ineliminabile parte «tossica». «La soluzione migliore consiste nel considerare soltanto i grandi cambiamenti nei dati o nei presupposti, mai quelli piccoli», sostiene Taleb, la cui riflessione è anche in parte basata sulla convinzione che «i segnali significativi trovino comunque il modo di raggiungerci».

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Molti degli argomenti utilizzati da Taleb sono condivisi da Rolf Dobelli, autore del libro Smetti di leggere le notizie, che declina almeno in parte la differenza tra rumore e segnale in termini di opposizione tra «nuovo» e «rilevante». Dobelli sostiene che sia molto difficile individuare ciò che è rilevante e molto più facile, anche per i media stessi, riconoscere ciò che è semplicemente nuovo. E ritiene che i media siano costruiti in modo da far credere che sapere le notizie rappresenti un «vantaggio competitivo», che a suo avviso è la stessa ragione per cui rimanere invece «tagliati fuori dal flusso di notizie» genera ansia.

Tokyo

Tokyo, Giappone, 25 maggio 2019 (Tomohiro Ohsumi/Getty Images)

Il rischio descritto da Dobelli è che, al contrario, l’accumulo di informazioni fattuali possa far perdere di vista il quadro generale e «deformare la lente» di lettura delle singole storie, rafforzando pregiudizi ed errori cognitivi. «Le informazioni fornite il giorno in cui accade qualcosa sono necessariamente basilari e insufficienti», scrive, attribuendo invece ai libri e ai formati lunghi – approfondimenti, saggi, documentari – una migliore capacità di restituire il contesto dell’informazione, «anche se arrivano con qualche mese o un anno di ritardo».

Come uscirne
Uno dei suggerimenti condivisi dal sito The Conversation per cercare di ridurre il rischio di essere emotivamente condizionati dalle notizie negative o di basare le proprie riflessioni su interpretazioni distorte della realtà è quello di considerare sempre che «come esseri umani, siamo soggetti a pregiudizi», come evidentemente è molto chiaro anche a chi «produce» le notizie. Questi pregiudizi indicano che saremo più probabilmente influenzati da notizie negative e più portati a pensare che quello che vediamo sia più diffuso di quanto non sia in realtà.

Questo non significa che nessuna notizia sia una buona notizia, ovviamente. Le notizie hanno un grande potere e ci aiutano a restare in contatto e informati. Ma in un mondo in cui siamo circondati da notizie, ventiquattro ore al giorno e sette giorni su sette, è importante essere consapevoli dei nostri pregiudizi cognitivi e delle distorsioni che producono. Prendiamo il controllo del nostro consumo di notizie anziché permettere che quel consumo controlli noi.

Quanto al lavoro di chi si occupa di informazione, Stuart Soroka, il docente di linguaggi dei media e scienze politiche dell’Università del Michigan sentito dal Pacific Standard, crede che la stampa dovrebbe continuare a essere «negativa» nella misura in cui contribuisce a rendere pubblico tutto quello che non funziona o funziona male, responsabilizzando di conseguenza le persone al potere. Ma secondo Soroka i mass media dovrebbero valutare le cattive notizie rispetto ad altre informazioni nello stesso modo in cui il cervello analizza costantemente l’ambiente alla ricerca di possibili minacce.

Il pericolo di concentrarsi troppo sulla negatività delle notizie, spiegava Paul Hiebert, autore dell’articolo sul Pacific Standard, è anche un altro: dimenticarsi che «le cattive notizie sono in realtà buone notizie perché mostrano che la società si preoccupa ancora quando le persone cattive fanno cose cattive». «Se è vero che una raffica di cattive notizie giorno dopo giorno può provocare cinismo, non è anche vero che un diluvio di buone notizie può generare compiacenza? La situazione ideale richiede un sano equilibrio», concludeva Hiebert.

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Secondo James Breiner, docente di comunicazione all’Università di Navarra, a Pamplona, ed esperto di giornalismo digitale e nuovi modelli di business, nell’avvisarci di un potenziale pericolo i giornalisti stanno soltanto facendo il loro lavoro, ma nel dibattito estremamente polarizzato degli ultimi anni «tutti hanno imparato che il conflitto è una notizia». Un giornalismo «efficace», spiega Breiner, dovrebbe invece leggere le notizie come fa un investitore a lungo termine.

Gli investitori saggi prendono atto sia di quelle che prevedono crolli finanziari improvvisi sia di quelle che preannunciano grandi rialzi del mercato azionario. Conoscono i sedicenti guru che promettono rendite milionarie, e sanno soppesare i consigli di chi dice che Tesla è una scommessa sicura. Ma cercano «significato» in mezzo a tutto questo, consapevoli che «di solito, quello che sentono è soltanto rumore». Attualmente l’attenzione maggiore da parte dei media è invece destinata alle voci più rumorose. «Come giornalisti, stiamo fornendo un’immagine distorta – un’immagine eccessivamente negativa – dei nostri concittadini e della società nel suo insieme», sostiene Breiner.

Quello che stiamo vedendo non è un servizio pubblico, ma una battaglia su chi può esercitare più potere politico sugli altri e chi può fare più soldi. Nel frattempo, abbiamo milioni di persone che sentono di non essere ascoltate da nessuna delle potenze esistenti. Di conseguenza, il giornalismo non aiuta a risolvere i problemi.

L’importanza di “staccare” e dedicarsi ad altro
Tra le pratiche suggerite invece ai lettori da diversi specialisti durante la pandemia, molti hanno condiviso quella di ridurre l’esposizione al flusso di notizie riguardo al coronavirus. John-Paul Davies, lo psicoterapeuta sentito da BBC, consigliava di limitarsi alla consultazione di un solo bollettino settimanale e scegliere siti di notizie attendibili e «concentrati più sui fatti che sulle ipotesi». Ulrik Haagerup, fondatore del The Constructive Institute, suggeriva di rivolgersi a «testate giornalistiche che forniscono informazioni di servizio pubblico» e di «essere molto critici nei confronti di coloro ai quali chiedi di filtrare il mondo per te».

Un altro consiglio per risolvere la dipendenza dalle notizie sul coronavirus è quello di farsi aiutare da un’altra persona, purché sia fidata e ben informata. Ne parlava Liz Martin, un’altra terapista sentita da BBC e che ha lavorato anche con persone in carcere che non potevano ricevere visite durante il lockdown. Alle persone non in grado di gestire l’ansia durante la pandemia, Martin suggeriva di tenersi aggiornate tramite qualcun altro, su quanto sia rilevante sapere: «non è una critica né una colpa, soffrire di ansia».

Ridurre il tempo trascorso a scorrere il feed sui social, a leggere articoli condivisi su WhatsApp o a seguire tutti i notiziari e i programmi di informazione, permette di dedicarne di più ad altre attività, che sia leggere un libro, ascoltare musica o fare attività fisica. È anche probabile, sostengono in molti, che questa ripartizione più equilibrata possa rimettere in una prospettiva più appropriata eventi difficili da isolare e contestualizzare nel flusso ininterrotto di notizie quotidiano.

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Linda Holmes, podcaster e autrice per la stazione radiofonica americana NPR, utilizzò nel 2017 una metafora letteraria per spiegare quanto sia a volte utile occuparsi di cultura popolare tralasciando questioni apparentemente più importanti. In un incontro pubblico a Washington D.C., una decina di giorni dopo l’insediamento del presidente Donald Trump, Holmes citò la parte del film The Martian, tratto dal romanzo omonimo di Andy Weir, in cui il protagonista deve trovare il modo di coltivare patate su Marte.

«Non sta risolvendo il problema, coltivando le patate, ma se non le coltiva non vivrà abbastanza a lungo per risolvere il problema», disse Holmes. «Le canzoni che ami, i libri che ami, la TV che ami, le conversazioni che hai con persone che in qualche modo ti nutrono, ti aiutano – la mia speranza è che quelle siano le tue patate… e devi avere quella roba, per durare abbastanza da tornare sulla Terra».