Cosa può insegnare un incidente aereo sulle nostre reazioni alla pandemia

Secondo una psichiatra sopravvissuta a un atterraggio disastroso dovremmo cambiare approccio con il disturbo da stress post-traumatico

(Spencer Platt/Getty Images)
(Spencer Platt/Getty Images)

Poco prima dell’alba del 24 agosto 2001, Margaret McKinnon era in luna di miele con suo marito, in volo sopra l’oceano Atlantico a bordo di un aereo della compagnia canadese Air Transat diretto a Lisbona. All’epoca era una giovane dottoranda all’Università di Toronto, interessata agli studi sul funzionamento della memoria; suo marito era un diplomato in design. Un grave guasto all’aereo del volo Air Transat 236, circa cinque ore dopo il decollo da Toronto, avviò una serie di eventi che portarono McKinnon, suo marito e altri 304 passeggeri e membri dell’equipaggio a vivere un’esperienza traumatica che nessuno di loro avrebbe mai più dimenticato.

McKinnon è oggi una professoressa associata del dipartimento di Psichiatria e Neuroscienze Comportamentali alla McMaster University, in Ontario. Il suo ambito di ricerca principale è ancora la memoria, in particolare il suo funzionamento in presenza di disturbo da stress post-traumatico (PTSD). Di recente, insieme a una stimata e conosciuta collega della University of Western Ontario, la psichiatra Ruth Lanius, si è occupata nello specifico della memoria di alcuni gruppi di persone particolarmente esposte a eventi traumatici determinati dalla pandemia. La rivista statunitense Wired ha raccontato in lungo articolo la storia eccezionale di McKinnon, la sua partecipazione a un importante studio sui sopravvissuti del volo 236 e i risultati delle sue ricerche sul PTSD e sulle differenti reazioni umane al trauma condiviso della pandemia.

L’incidente aereo
Alle 05:45 del 24 agosto 2001 McKinnon si trovava nella toilette di bordo di un aereo in volo sull’oceano Atlantico a una quota di 11 mila metri. Stava cercando di usare il lavabo ma il rubinetto non funzionava. Suo marito, John Baljkas, sonnecchiava al suo posto tra i 293 passeggeri del volo intercontinentale Air Transat 236, partito da Toronto poco prima dell’una di notte e diretto a Lisbona, in Portogallo. Si erano sposati da pochi giorni ed erano in viaggio di nozze. McKinnon ignorava all’epoca che un difetto nell’impianto idraulico del bagno può in alcuni casi essere l’indizio di un guasto più serio sull’aereo.

Tornò al suo posto, percorrendo al buio il corridoio. Sui televisori dell’Airbus A330 di Air Transat era appena finito il film Chocolat e stavano dando un episodio della serie Seinfeld, quando di colpo le tv si spensero e le luci cominciarono a tremolare. McKinnon ricorda di aver sentito un annuncio provenire dall’altoparlante della cabina, prima in portoghese («Atenção, passageiros…»), e di aver visto alcuni passeggeri agitarsi. Seguì un annuncio in inglese, che informò anche McKinnon e Baljkas dei problemi a bordo. Entrambi ricordano di aver sentito la parola “ditch” – che in inglese può significare anche “ammarare” – ma di non averci prestato troppa attenzione, all’inizio.

Le assistenti di volo ordinarono ai passeggeri di estrarre il giubbotto di salvataggio da sotto il sedile e diedero loro indicazioni – in tre lingue – su come indossarlo. Dissero a tutti anche di togliere le scarpe. Una di loro cominciò a piangere. Soltanto a quel punto, dopo averne sentita un’altra dire di prepararsi a un ammaraggio, McKinnon tornò sul significato di ditch e comprese pienamente la gravità della situazione. Poi sentì un suono improvviso, come di uno scatto, arrivare dal centro dell’aereo. Il rumore dei motori cessò di colpo e l’unico suono che avvolse la cabina passeggeri da quel momento in poi fu quello del sibilo dell’aria contro la fusoliera. L’Airbus A330, rimasto senza carburante, stava lentamente perdendo quota planando «come un aeroplano di carta portato dal vento».

Tra i passeggeri c’era chi piangeva, chi stringeva il giubbotto intorno al proprio figlio piccolo, chi pregava in portoghese la Madonna di Fatima, chi si diceva addio. McKinnon, che aveva a lungo sofferto di asma, faticava a respirare. Le maschere per l’ossigeno erano già scese dal loro alloggio ma alcune non funzionavano. Pensò a un video che aveva visto una volta, di un aereo della Ethiopian Airlines dirottato nel 1996 e finito nelle acque dell’oceano Indiano dopo un tentativo di ammaraggio. Il video, girato da un turista su una spiaggia delle Isole Comore, mostrava l’aereo spezzarsi poco dopo l’impatto con l’acqua: su 175 persone a bordo ne morirono 125.

McKinnon era quasi rassegnata, consapevole delle ridotte probabilità di sopravvivenza in caso di ammaraggio. Suo marito Baljkas pensava invece che sarebbero sopravvissuti, le prese la mano e disse: «Andrà tutto bene». E cominciò a razionalizzare la situazione, pianificando cosa fare una volta in mare. Sia lui che McKinnon erano abili nuotatori, pensò, e non sarebbero morti di ipotermia considerato che le acque dell’Atlantico in quel periodo dell’anno erano piuttosto calde.

Chi sopravvive a un terremoto, un evento che dura in genere pochi secondi, ricorda poi quanto lentamente trascorra il tempo in quegli istanti. Per McKinnon e tutti gli altri passeggeri non furono istanti: l’evento terrificante durò in tutto trenta minuti circa, da prima che entrambi i motori smettessero di funzionare. A motori spenti ne trascorsero circa venti e l’aereo percorse circa 120 chilometri: ancora oggi il volo Air Transat 236 è descritto e analizzato come il caso di planata senza propulsione più lunga nella storia dell’aviazione civile.

A un certo punto il copilota informò i passeggeri e i membri dell’equipaggio che nel giro di 5-7 minuti avrebbero tentato un atterraggio di emergenza sull’isola di Terceira, nell’arcipelago delle Azzorre. Il comandante Robert Piché, un pilota con trent’anni di esperienza di volo, compì una serie di brusche manovre – virate a 360 gradi e a S – per permettere all’aereo di perdere quota, prima di riportarlo in volo rettilineo e riprendere velocità. In pochi istanti l’immaginazione di McKinnon passò dalla scena di un disastro in mare a quella di uno schianto in un quartiere in cui altre persone a terra sarebbero morte insieme a loro. Intanto, nella debole luce prima dell’alba, dal finestrino mare e terra si alternavano alla sua vista.

Alle 06:45 l’aereo toccò pesantemente terra sulla pista del piccolo aeroporto e base militare Lajes di Terceira, a una velocità di circa 370 chilometri orari. Rimbalzò e riatterrò qualche centinaio di metri più avanti. Il comandante e il copilota azionarono tutti i freni per cercare di fermare la corsa dell’aereo. Gli pneumatici di sinistra di uno dei carrelli esplosero per l’attrito. Infine l’Airbus A330 si fermò, integro, circa 800 metri prima della fine della pista. I passeggeri a bordo cominciarono ad applaudire e gioire, mentre il comandante ordinava di abbandonare in fretta l’aereo attraverso gli scivoli di emergenza per timore che potessero innescarsi incendi. Baljkas si assicurò prima di aver preso il portafoglio dalla giacca, per evitare di rimanere poi senza contanti e senza documenti. Tutte le 306 persone a bordo dell’Air Transat 236 sopravvissero. Soltanto 18 tra loro riportarono lievi ferite.

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Un’indagine congiunta tra le autorità portoghesi e franco-canadesi sull’incidente all’Air Transat 236 stabilì che a causarlo fu una manutenzione impropria svolta dal personale tecnico addetto alla revisione dell’aereo una settimana prima del decollo. Durante la sostituzione del motore sull’ala destra installarono in modo non corretto una componente del sistema idraulico, la cui rottura avvenuta in volo causò la perdita di carburante. Secondo i risultati dell’indagine il comandante Piché non seguì correttamente una procedura standard che avrebbe potuto contenere la perdita e preservare il funzionamento di uno dei due motori. Per le scelte prese nelle fasi finali del volo e per aver evitato una catastrofe grazie alla sua abilità nella manovra di atterraggio, ricevette nel 2002 il Superior Airmanship Award, il premio annuale assegnato dal sindacato dei piloti Air Line Pilots Association.

Le reazioni dei passeggeri
Del piccolo terminal di Terceira, dove i passeggeri dell’Air Transat 236 si erano radunati prima di riprendere il viaggio verso Lisbona, McKinnon ricorda persone stese a terra con ancora indosso i giubbotti di salvataggio, e la puzza del vomito dappertutto. Si chiese come avrebbero ricordato quell’evento e pensò da subito che sarebbe stato molto utile studiarlo. Già durante il volo aveva avuto una dimostrazione di quanto potessero variare gli atteggiamenti delle persone in quelle circostanze.

Lei, figlia di un vice-comandante dei vigili del fuoco e di un’infermiera, aveva maturato fin da piccola una certa familiarità indiretta con le emergenze. Il racconto di incidenti automobilistici o di persone rimaste intrappolate in case in fiamme erano parte delle conversazioni ordinarie. Pensava che sarebbe diventata una scrittrice ma finì per scegliere psicologia all’università, poi un dottorato di ricerca in scienze cognitive concentrandosi sullo studio dei malati di Alzheimer e sulle relazioni tra la musica e la cognizione. Si descriveva come una persona molto «empatica», a differenza di suo marito Baljkas, che rimase estremamente lucido anche nei momenti più drammatici del volo.

Meno di tre settimane più tardi, il giorno dopo aver partecipato a uno speciale per il notiziario della NBC sul “miracoloso atterraggio del volo 236”, McKinnon apprese insieme al resto del mondo che due aerei di linea avevano colpito il World Trade Center, un altro il Pentagono e un quarto era precipitato in un campo in Pennsylvania. Si identificò moltissimo con i passeggeri di quei voli, disse, ripensando alla sensazione di sapere di volare su un aereo destinato a schiantarsi. Riferì di avere un incubo frequente: sognava che l’Air Transat 236 finiva contro le Torri Gemelle. Al contrario, suo marito Baljkas non collegò in alcun modo quella loro esperienza con gli attentati di quei giorni.

McKinnon decise di cambiare l’indirizzo delle sue ricerche accademiche e si concentrò sul disturbo post-traumatico da stress (PTSD), un disturbo psichico di cui lei stessa cominciava a sperimentare e riferire i sintomi. Continuava ad avere flashback e incubi che la riportavano sull’aereo, sensazioni che suo marito non ebbe neppure quando guardarono insieme in televisione lo speciale della NBC. «Era soltanto felice di essere vivo», scrive Wired.


Il trailer di un episodio della serie di documentari “Indagini ad alta quota” di National Geographic dedicato al volo Air Transat 236

McKinnon spiegò allora a un suo collega della University of Western Ontario, Brian Levine, specializzato in neuropsicologia al Rotman Institute of Philosophy, l’idea di condurre uno studio sui passeggeri del volo Air Transat 236. Sarebbero state condizioni sperimentali senza precedenti e difficilmente ripetibili: un gruppo di persone esposte a un’esperienza di morte imminente per trenta minuti. I due accettarono di lavorare insieme, e McKinnon partecipò in prima persona come soggetto di prova in uno studio pilota per mettere a punto la metodologia da seguire.

Occorsero anni per rintracciare un gruppo sufficiente di passeggeri. Almeno nove persone tra le diciannove che accettarono di partecipare allo studio avevano avuto sintomi di PTSD. Le altre, come Baljkas, no. Lo studio prevedeva essenzialmente una serie di interviste ai passeggeri e di scansioni del cervello tramite tecniche di neuroimaging, una disciplina abbastanza recente nell’ambito della medicina, delle neuroscienze e della psicologia. Tramite le interviste gli scienziati volevano capire quanti ricordi del volo avesse conservato ciascun sopravvissuto, e verificarne l’accuratezza. E tramite le scansioni cerebrali volevano mappare le risposte neurologiche dei sopravvissuti mentre osservavano una riproduzione dell’incidente creata con immagini di archivio fornite dal notiziario della NBC.

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All’interno della cosiddetta memoria autobiografica – l’insieme delle conoscenze relative alle proprie esperienze – gli scienziati distinguono due diverse categorie. Ci sono ricordi episodici legati all’esperienza in prima persona, come quello di McKinnon sull’aver faticato a respirare durante la discesa del volo. E ci sono ricordi non episodici, più fattuali e separati dall’esperienza soggettiva, come quello di McKinnon sul numero del suo volo. La risonanza magnetica su McKinnon fu effettuata mentre guardava il video preparato per lo studio: una clip di un aereo che decolla, un’altra del film Chocolat, l’immagine di sé più giovane nell’intervista per NBC e altre clip ancora.

McKinnon riferì l’impressione di essersi trovata di nuovo sull’aereo, aggiungendo che «non era soltanto un ricordo ma una sensazione fisica totalizzante». Non immaginava che la partecipazione a quello studio pilota, a distanza di molti anni, potesse essere così estenuante e impegnativa. Lo fu anche in seguito nello studio vero e proprio, a causa dei ricordi che riemergevano in lei leggendo le interviste di altri sopravvissuti. Alcuni passeggeri avevano conservato dettagli che a lei mancavano: l’odore di bruciato, il buio, il pilota che grida all’altoparlante: «quando dirò “Prepararsi! Prepararsi!” piegatevi in avanti e mettete le mani dietro la testa». Altri ricordavano che all’improvviso urlò: «Abbiamo una pista! Abbiamo una pista!».

Pubblicata nel 2016 in due diversi studi sulla rivista Clinical Psychological Science, la ricerca mostrò che sia quando erano sottoposti a immagini dell’incidente nell’Atlantico, sia quando vedevano i video dell’11 settembre, i sopravvissuti avevano un’attività più intensa nei centri della memoria emotiva del cervello rispetto ai soggetti di controllo, cioè le persone che non erano sull’aereo e che erano state incluse nello studio per un confronto. L’esperienza dell’incidente, perciò, condizionava anche la percezione di altri ricordi.

Ma soprattutto, lo studio rilevò che tutti i sopravvissuti che parteciparono alla ricerca, sia quelli che avevano sviluppato un PTSD sia gli altri, avevano mostrato un «robusto potenziamento mnemonico». All’epoca era generalmente condivisa tra i ricercatori l’idea che il PTSD fosse collegato a una particolare capacità di mantenere vividi i ricordi: ma lo studio suggeriva che la ricchezza delle memorie non era necessariamente collegata a un effetto traumatico sulla mente dei sopravvissuti. Doveva quindi essere qualcos’altro a rendere i ricordi travolgenti per alcuni soggetti e non per altri.

Il PTSD e la pandemia
Ruth Lanius è un’illustre psichiatra canadese, direttrice dell’unità di ricerca sul PTSD alla University of Western Ontario. Insieme a McKinnon fa parte di un gruppo emergente di medici e ricercatori che lavorano da tempo a una revisione delle terapie dei disturbi psichici legati alle esperienze traumatiche. Credono che le variazioni nelle reazioni dei pazienti siano in parte legate a differenze biologiche non trascurabili e a condizioni ambientali differenti, e che le cure non possano limitarsi a una terapia della parola sostanzialmente uguale per tutti. Lanius è co-autrice di oltre 150 studi specifici sul PTSD, alcuni dei quali hanno contribuito a ridefinire sezioni del DSM, il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali noto e utilizzato in tutto il mondo.

Gli studi di Lanius in particolare hanno rafforzato nella psicopatologia l’attuale consapevolezza che non tutte le vittime di traumi, pur sviluppando poi lo stesso disturbo, sperimentano le stesse condizioni. Quando sono esposti a un ricordo traumatico alcuni soggetti mostrano un’accelerazione del battito cardiaco e uno stato di «iper-eccitazione» simile a quello vissuto durante il trauma, come se ricevessero una scossa elettrica. Altri – il 30 per cento circa, nei casi di PTSD – reagiscono sì come al momento del trauma, ma nel loro caso significa perdere provvisoriamente alcune facoltà e sperimentare un «effetto paralizzante».

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McKinnon ha raccontato che ancora oggi è guidata nel suo lavoro da una sensazione di familiarità profonda con le persone che sopravvivono a un trauma. Dopo aver visto e aiutato per anni centinaia di soldati, paramedici, poliziotti, vittime di abusi e sopravvissuti a incidenti, ultimamente ha prestato attenzione e soccorso a persone coinvolte in eventi traumatici collegati agli effetti della pandemia. Ad aprile 2020 lei e Lanius hanno ricevuto dal Canadian Institutes of Health Research, un’agenzia federale canadese, un finanziamento per studiare gli operatori sanitari impegnati nei reparti COVID-19.

Tra i casi di studio raccolti, McKinnon ha raccontato un ricordo a lei riferito da Will Harper, un medico dell’ospedale della McMaster University. Durante uno dei suoi turni una sua paziente affetta dal coronavirus e da demenza si era strappata via le flebo e la maschera dell’ossigeno, rifiutandosi di bere, di mangiare e di prendere le medicine. «Sapevamo tutti che stava morendo di COVID-19 e che non c’era niente che potessimo fare», raccontò il medico a McKinnon. Un’operatrice sanitaria di turno con Harper, piuttosto esperta, rimase profondamente turbata da quella scena.

L’operatrice si sedette sul letto della paziente e iniziò a respirare a fatica. Si tolse un guanto e rimase con la mano scoperta, poi si alzò barcollando verso la porta e uscì dalla stanza. Non pensò a disinfettarsi e rimuovere maschera, occhiali e altri indumenti seguendo il protocollo. «Era come un sub che cerca di riemergere in superficie troppo velocemente», spiegò Harper, che la prese in disparte e cercò di tranquillizzarla invitandola a respirare lentamente, dopo un’esperienza che per lui era stata sgradevole, per lei evidentemente traumatica.

La reazione della popolazione al trauma condiviso della pandemia, scrive Wired, ha mostrato margini di variabilità paragonabili a quelli delle reazioni dei sopravvissuti a gravi incidenti. E le reazioni sono spesso diverse anche all’interno degli stessi nuclei familiari, come del resto nella storia di McKinnon e Baljkas. Alcuni, pur condividendo i generali sentimenti di rabbia, tristezza e frustrazione, hanno accettato la situazione e provato a gestirla. Altri hanno sperimentato sensazioni di ansia e agitazione costanti, e sviluppato in alcuni casi forme di depressione. Altri ancora vivono nella negazione della pandemia.

Il ricordo di questo lungo periodo funesto, secondo McKinnon, resterà con noi per lungo tempo alla fine della pandemia. Quello che non sappiamo ancora è chi ne resterà sconvolto per anni e chi no, chi reagirà come lei e chi come Baljkas. Oggi è possibile rintracciare una serie di fattori di rischio per il PTSD ma non è possibile prevedere chi ne svilupperà uno e chi no. La depressione, di cui McKinnon raccontò di aver sofferto prima di imbarcarsi sul volo 236, è descritto dagli scienziati come un fattore di rischio. Altri fattori sono legati a vulnerabilità sviluppate negli anni a seguito di episodi di emarginazione, bullismo e discriminazione.

Lanius e McKinnon concordano nel ritenere che uno degli aspetti fondamentali per cercare di curare un trauma sia quello di indurre i pazienti non a esaminare e cancellare il ricordo traumatico, bensì a trattarlo come se fosse il ricordo di qualcun altro. In sostanza, tenendo a mente le distinzioni all’interno della memoria autobiografica tra ricordi episodici e non episodici, le sedute di terapia dovrebbero concentrarsi sull’obiettivo di allontanare il paziente dal rivivere il ricordo in prima persona. E dovrebbero sempre tener conto della differenza tra un paziente e l’altro anche rispetto alle diverse risposte biologiche e ai diversi fattori ambientali.

A quasi vent’anni di distanza dall’incidente McKinnon ha detto di riuscire oggi a raccontare la sua storia senza esserne travolta, dopo anni di ricerche accademiche che portava avanti sottoponendosi intanto alla terapia. Prende in esame tutti i dettagli – l’odore del carburante, il suo vestito che si solleva mentre scivola fuori dall’aereo – senza più sentire le fitte al corpo o avere le palpitazioni come prima. «Elenco soltanto una serie di fatti», ha spiegato.