Sui social funzioniamo come stormi

I comportamenti umani sulle piattaforme riproducono diversi aspetti di quello collettivo di alcuni animali, ma attraverso reti condizionate da altri fattori e incentivi

stormi
(Mike Hewitt/Getty Images)
Caricamento player

L’impatto dell’utilizzo delle tecnologie informatiche e delle grandi piattaforme di social media sul comportamento collettivo delle persone è da tempo oggetto di un esteso dibattito, in gran parte incentrato sugli effetti negativi di quell’utilizzo e sui possibili modi per limitarli. I fenomeni sociali, in alcuni casi anche violenti, associati alla diffusione su larga scala della disinformazione o delle teorie del complotto hanno reso più urgente la discussione politica. Ma hanno in parte distolto attenzioni e interesse da riflessioni meno concitate e polarizzate, e più incentrate sul funzionamento delle piattaforme e sulle dinamiche di gruppo che si sviluppano al loro interno, a prescindere da eventuali ripercussioni dannose per la società.

Un paragone potenzialmente utile alla discussione, suggerito da alcune riflessioni e ricerche degli ultimi anni, è tra il comportamento umano sui social media e quello più noto e studiato degli animali di piccole dimensioni che si muovono in grandi gruppi. L’esempio più familiare e citato è quello degli stormi di storni o altri passeriformi, il cui comportamento gregario è sorretto da meccanismi imitativi e di propagazione del movimento tra gli individui all’interno del gruppo, ma subordinato a un complesso insieme di limiti fisiologici e meccanici.

Il volo degli storni e le interazioni tra gli individui che compongono ciascuno stormo sono già da tempo oggetto di studi utilizzati per comprendere le dinamiche dei comportamenti collettivi umani sia in ambito sociale che economico. L’applicazione di queste teorie anche per la descrizione dei comportamenti sui social media definisce un campo di ricerca al momento ancora limitato, ma in espansione.

L’ipotesi di studio è che sui social media gli individui possano allo stesso tempo subire ed esercitare determinate influenze nei confronti degli altri individui a loro vicini, allo stesso modo in cui gli uccelli di piccole dimensioni che volano in gruppo regolano direzione e velocità sulla base di ciò che fanno gli altri uccelli in risposta agli stimoli provenienti dall’ambiente esterno.

Il paragone è considerato utile non soltanto per i punti in comune tra i due fenomeni, ma anche per le differenze rilevanti tra gli incentivi che contribuiscono alla formazione, al movimento e alla dispersione degli stormi di uccelli, e gli incentivi che condizionano invece il funzionamento delle reti formate dagli individui sui social media.

– Leggi anche: Dovremmo studiare meglio gli effetti dei social network sul comportamento collettivo

I movimenti ondeggianti prodotti nel complesso dagli storni che volano in gruppo, di solito molto fotografati e affascinanti, sono oggetto di molti studi di biologia. Secondo alcune simulazioni realizzate per cercare di estrarre delle regolarità dal volo degli storni, all’interno di uno stormo ogni uccello adatta il proprio comportamento in base, mediamente, a quello dei sette uccelli che ha più vicini a sé: se non lo facesse, lo stormo si disgregherebbe in un gruppo caotico.

In linea di massima, se gli uccelli vicini volano verso sinistra, l’uccello vola verso sinistra; se volano verso destra, l’uccello vola verso destra. Il singolo uccello non conosce la destinazione finale dello stormo, ma ogni singola alterazione che apporta al movimento del gruppo – senza poterlo cambiare radicalmente – determina uno schema diverso del movimento dello stormo nel complesso. In alcuni studi sui sistemi complessi e il comportamento animale ciascun animale all’interno di questa rete è descritto come un nodo in un sistema di influenze reciproche con i suoi vicini. E il comportamento collettivo è il processo attraverso cui gruppi di organismi distinti si muovono come un’unità coesa.

A volte il movimento degli storni è condizionato dalla ricerca del luogo in cui riposare la notte, altre volte dalla necessità di sfuggire ai predatori inclini a puntare gli individui isolati (che è la ragione per cui all’estremità dello stormo gli uccelli tendono a volare ancora più ravvicinati tra loro rispetto a quanto avviene al centro dello stormo).

Questo modo di comportarsi degli animali in gruppo presenta alcune somiglianze con il modo in cui le persone sui social media regolano le proprie risposte a determinati stimoli e le trasmettono ai “nodi” più vicini a loro nella rete. E le risposte sono determinate dalla struttura della rete, che anche nel caso degli esseri umani è data dalle caratteristiche biologiche proprie della specie: come siamo fatti, quali sono i nostri sensi e le nostre credenze. Ma è data anche dalla particolare sovrastruttura artificiale progettata dagli esseri umani per veicolare quelle risposte, e cioè com’è fatta e che tipo di algoritmi implementa la piattaforma: quali “sette uccelli” più vicini mostra a ciascun individuo.

Delle analogie e delle differenze tra il comportamento collettivo degli animali e quello delle persone sui social media ha scritto, tra gli altri, la ricercatrice statunitense Renée DiResta sulla rivista di cultura e tecnologia Noema, pubblicata dal think tank californiano Berggruen Institute. DiResta lavora allo Stanford Internet Observatory, un dipartimento di studi interdisciplinari delle tecnologie dell’informazione istituito dalla Stanford University nel 2019. E in passato ha lavorato come consulente del Congresso americano nei tentativi di elaborare misure di prevenzione della disinformazione online e sui social media.

DiResta ha citato alcuni dei passaggi evolutivi che hanno modellato le reti dei social media fin dalla loro prima e più estesa diffusione, da metà degli anni Duemila in poi. Inizialmente quelle reti replicavano in buona sostanza le reti socialmente e geograficamente limitate delle persone nella loro vita offline. Ma in breve tempo avere migliaia di amici all’interno della rete diventò un indice di popolarità e influenza. E il fatto che quell’indice fosse pubblico, mostrato sul profilo di ogni utente, incentivò l’estensione della rete oltre i vincoli fisici, cognitivi e di altro tipo che erano invece presenti nelle vite degli utenti offline.

– Leggi anche: Si possono avere più di 150 amici?

Le reti subirono successivamente il condizionamento di un altro importante incentivo: quello economico. Per favorire un’ulteriore estensione delle reti di amici le piattaforme aiutarono gli utenti a trovare “stormi” completamente nuovi. Questo avrebbe incrementato il tempo di permanenza online e le possibilità di ottenere profitti attraverso la visualizzazione di un maggior numero di annunci pubblicitari: annunci tarati su preferenze degli utenti dedotte a partire da una contestuale e sempre più estesa raccolta di dati.

Particolari sistemi di raccomandazione, come quello utilizzato per suggerire all’utente le persone che potrebbe conoscere, favorirono il collegamento tra persone con un amico in comune: quello che il docente di scienze dei dati del Massachusetts Institute of Technology (MIT) Sinan Aral definisce «chiusura dei triangoli» nel libro Hype machine. I dati raccolti dalle aziende furono utilizzati anche per stabilire ulteriori collegamenti soltanto sulla base di interessi comuni, non necessariamente dichiarati dagli utenti ma dedotti a partire dal loro comportamento sulla piattaforma (le abitudini di acquisto, per esempio).

La somiglianza statistica tra gli utenti diventò un fattore essenziale per decidere la posizione di ciascuno di loro all’interno di reti che, agendo anche come filtro dei contenuti, determinavano cosa quegli utenti vedevano e con chi interagivano: in quale “stormo” sarebbero finiti. La diffusione su larga scala di disinformazione e teorie del complotto è considerata una delle conseguenze indesiderate di questi condizionamenti delle reti attivi sulle piattaforme e sostenuti da potenti incentivi economici: condizionamenti che costituiscono un meccanismo di base, a prescindere dall’eventuale impatto negativo sul piano sociale.

Oltre alle spinte a riunirsi in “stormi”, fa notare DiResta, sulle piattaforme ne esistono poi altre che agiscono come «esca» e inducono gli utenti a partecipare più attivamente. La funzione degli argomenti di tendenza su Twitter è un esempio di dinamica tipica dei social media: non lascia soltanto emergere le tendenze ma le modella. Determinati argomenti, a volte sostenuti da meno di 2 mila tweet, entrano nel campo visivo degli utenti e diventano tendenze non appena si rivolgono a un sottoinsieme di persone inclini a partecipare alla discussione.

L’aggiornamento pubblicato su quel determinato argomento da uno degli utenti viene a quel punto mostrato nel feed dei suoi follower e diventa un potenziale stimolo. L’utente, per riprendere l’analogia con il comportamento collettivo negli animali, diventa uno dei sette uccelli visti dai suoi follower o amici più vicini. E l’argomento si propaga man mano attraverso tutto lo stormo, su reti che si sono formate e consolidate anche in funzione di incentivi economici a massimizzare il tempo di permanenza degli utenti sulle piattaforme.

L’analogia tra i comportamenti umani e quelli collettivi negli stormi di uccelli non implica che il singolo utente non abbia comunque la possibilità di non assecondare una tendenza. Come scrive DiResta:

Possiamo decidere di non abboccare. Spesso utilizziamo la frase «è diventato virale» per descrivere i nostri stormi online. È una frase ingannevole, che elimina il come e perciò assolve i partecipanti da qualsiasi responsabilità. Non è che una voce si diffonde e basta, semplicemente: si diffonde perché noi la diffondiamo, anche se il sistema è progettato per facilitare l’acquisizione di attenzione e favorire quella diffusione.

Uno dei principali limiti del dibattito sull’influenza dei social media sulla società, secondo DiResta, è che è generalmente declinato da una prospettiva che tende a definire gli effetti negativi di quell’influenza come un problema di contenuti e di «sostanza», piuttosto che come un problema di scala. È la stessa prospettiva che in tempi recenti ha portato le principali piattaforme tecnologiche a intervenire per limitare le interazioni tra gruppi più inclini alle molestie e alle violenze: un tentativo di “disperdere” gli stormi quando però gli stormi sono ormai già formati, e sono eventualmente in grado di riunirsi e ricompattarsi altrove.

Questo approccio comporta inoltre il rischio di inquadrare fenomeni come la disinformazione, le teorie del complotto o i movimenti no vax come qualcosa di nuovo, quando invece non lo sono. Sono invece nuove le conseguenze che quei fenomeni producono, in gran parte a causa della velocità di diffusione e delle dimensioni delle reti: che sono caratteristiche dell’infrastruttura, non del contenuto, ma finiscono per ripercuotersi sul contenuto stesso.

Riflessioni di questo tipo furono peraltro notoriamente proposte già negli anni Sessanta, quando la diffusione della televisione portò studiosi come il sociologo canadese Marshall McLuhan, uno dei più influenti pensatori del Novecento, ad assumere che ogni sistema tecnologico – il contenitore – generi specifiche norme e strumenti in grado di plasmare i comportamenti e la società, indipendentemente dal contenuto.

Quelle riflessioni continuarono ad alimentare anche negli anni seguenti un dibattito molto vivace e attuale ancora oggi. A proposito dell’eccesso di informazioni creato dai nuovi media, l’economista e psicologo statunitense Herbert Simon affermò durante una conferenza nel 1971 che a quell’eccesso di informazioni corrisponde inevitabilmente una scarsità di ciò che l’informazione consuma: «l’attenzione dei suoi destinatari». E segnalò una necessità emergente di riallocare quell’attenzione in modo più efficiente: attraverso sistemi in grado di «assorbire più informazioni di quante ne producano», che «ascoltino e pensino più di quanto parlano».

– Leggi anche: Il Congresso statunitense contro l’“amplificazione” dei social

Applicando il discorso di Simon al caso dei social media, secondo DiResta, un sistema più efficiente dovrebbe quindi prevedere una maggiore inclinazione a trattenere «esche inutili» in modo che l’attenzione dei destinatari non venga sprecata. L’attuale ecosistema dell’informazione è strutturato invece in modo che contenuti che determinano conseguenze negative possano emergere da qualsiasi parte e «diventare virali» in qualsiasi momento, mentre «ogni singolo utente partecipante si assume solo un debole frammento di responsabilità». Un singolo retweet o una condivisione apparentemente insignificante possono avere ripercussioni molto più ampie sul comportamento collettivo.

Un approccio più concentrato sul funzionamento delle piattaforme non porterebbe necessariamente a una migliore selezione dei contenuti, secondo DiResta, né ridurrebbe il rischio di far emergere sulle piattaforme informazioni che portano comunque a un comportamento collettivo non ottimale. Ma potrebbe quantomeno servire a orientare il dibattito verso la cura dei contenuti – quali informazioni raggiungono gli utenti e come – piuttosto che verso la moderazione dei contenuti. E favorire le condizioni di una rielaborazione strutturale delle piattaforme: «quanti uccelli dovremmo vedere», quali e quando.

Alcuni studi sul comportamento collettivo degli animali, per esempio, mostrano come alcune strutture di rete siano semplicemente non ottimali nella loro costruzione, poiché portano i banchi, gli alveari o i greggi al collasso, alla fame o alla morte.

Un esempio tipico è la cosiddetta spirale della morte, un fenomeno osservato in alcune specie di formica legionaria e considerato un effetto collaterale della struttura auto-organizzativa delle colonie. Si verifica quando un gruppo di formiche alla ricerca di cibo perde la traccia dei feromoni, le sostanze utilizzate da molti organismi viventi per comunicare chimicamente con altri esemplari della specie. Rimaste isolate dal gruppo principale, le formiche cominciano a seguirsi l’un l’altra e a procedere in cerchio, con regolarità, talvolta anche fino alla morte per sfinimento.

Il dibattito sulle riforme che riguardano le aziende tecnologiche, conclude DiResta, è oggi a un punto morto perché è perlopiù trattato in modo semplicistico e ridotto in termini di «libertà di parola contro censura». Contrastare la formazione di singoli “stormi” o verificare di volta in volta una nuova teoria del complotto lascia sostanzialmente inalterate le strutture di rete e gli incentivi che favoriscono la diffusione di quei contenuti. E diventa peraltro una specie di «gioco della talpa» con ulteriori conseguenze politiche negative, perché ogni singolo contenuto vagliato diventa a sua volta oggetto di polarizzazione.

Cercare di ottenere dalle aziende maggiore trasparenza e più informazioni sul funzionamento tecnico delle piattaforme – informazioni che per vari motivi, inclusa la concorrenza, le aziende non hanno interesse a rendere pubbliche – permetterebbe di sviluppare dibattiti molto più solidi, prosegue DiResta. E favorirebbe discussioni pubbliche incentrate su quali misure tecniche introdurre – eliminare la funzione degli argomenti di tendenza, per esempio, o limitare il numero massimo di follower – per promuovere o prevenire determinati comportamenti online.