La dipendenza da internet esiste?

È un concetto un po' vago e anche chi se ne occupa invita a usare cautele: ma definisce comunque problemi diffusi e per i quali esistono terapie

di Viola Stefanello

(Unsplash)
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Qualche settimana fa l’Istituto superiore di sanità (Iss) ha pubblicato una mappa che raccoglie le “risorse territoriali” – ovvero consultori, cliniche e centri sia nel pubblico che nel privato sociale – che mettono a disposizione professionisti addestrati ad aiutare le persone che soffrono da “dipendenza da internet”. Secondo la mappa, in Italia esistono almeno 102 di queste risorse territoriali: alcuni sono servizi dedicati alle dipendenze in senso più ampio, altri sono neuropsichiatrie infantili che si occupano di bambini e ragazzi molto giovani. In totale l’Iss dice ci sono almeno 3.667 persone che al momento sono in cura per gestire la propria “dipendenza da internet”.

In realtà, non c’è un vero consenso nella comunità scientifica sull’esistenza di questo fenomeno. E lo stesso Iss, in un lungo rapporto del 2022, dice che «fin dalla sua comparsa nella letteratura scientifica questo fenomeno è stato accompagnato da vivaci dibattiti sulla sua definizione e concettualizzazione. Si discute molto sul fatto che le persone siano dipendenti da internet stessa o dalle attività realizzate nell’ambiente internet, e se utilizzare il termine dipendenza da internet o dipendenze da attività online specifiche come il gioco online o la dipendenza dal sesso virtuale».

Secondo gli esperti che hanno compilato la quinta e più recente edizione del Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (nota come Dsm-5), il testo preso in assoluto più in considerazione da psichiatri, psicologi e medici per identificare e riconoscere i disturbi mentali o psicopatologici sia nella pratica clinica che nell’ambito della ricerca, al momento non esistono prove sufficienti per far rientrare la “dipendenza da internet” nel manuale, tra le altre dipendenze comportamentali.

«Si dovrebbe piuttosto parlare di dipendenze da contenuti specifici, che prima si svolgevano offline e si sono poi sviluppate online con caratteristiche molto simili», dice il professor Roberto Poli, direttore del dipartimento Salute mentale e Dipendenze dell’ospedale di Cremona e autore di uno dei principali studi sulla prevalenza della cosiddetta dipendenza da internet tra gli studenti italiani. «Per esempio oggi il gioco d’azzardo avviene meno con le slot machine e molto online, e lo stesso si può dire dello shopping compulsivo. Non c’è quasi mai una dipendenza dallo smartphone o dal computer in quanto strumenti, ma piuttosto dai contenuti e dalle attività che si possono raggiungere attraverso internet».

Nella letteratura scientifica, con “dipendenza” si intende una condizione patologica caratterizzata da una ricerca compulsiva di stimoli gratificanti, persistente nonostante le conseguenze avverse, tipicamente associata al modello dei disturbi da uso di sostanze. Da diversi decenni esiste un ramo degli studi sulle dipendenze che esplora le relazioni patologiche non verso una sostanza, ma verso comportamenti o attività: le cosiddette dipendenze comportamentali. Viene per esempio fatto rientrare nella categoria il disturbo da gioco d’azzardo, che è riconosciuto anche dal Dsm-5, ma ci sono vari psichiatri che ritengono che si possa sviluppare una dipendenza a partire da qualsiasi attività inizialmente piacevole: lo shopping, il sesso, lo sport e, appunto, internet.

Le prime discussioni tra psicologi sulla possibilità che le nuove tecnologie potessero causare dipendenza risalgono ai tardi anni Novanta. Nel 1997 lo psichiatra Jerald Block sostenne che internet poteva ispirare gli stessi modelli di uso eccessivo delle sostanze tradizionali, portando le persone a esibire alcune delle conseguenze negative associate alle dipendenze, come il distacco dal lavoro o dalla scuola, l’isolamento sociale e l’incapacità di controllare il proprio comportamento.

Da allora, e soprattutto da quando la maggior parte della popolazione ha cominciato a passare molto più tempo online per via della diffusione capillare degli smartphone e dei social network, di dipendenza da internet si è parlato moltissimo. Chi lo fa tendenzialmente non usa il termine “dipendenza” in modo letterale, riferendosi alla definizione scientifica, ma per parlare più in generale del proprio rapporto ossessivo con la tecnologia, e più spesso con i social media.

Ad aumentare la confusione sul tema è il fatto che molte delle persone che hanno lavorato alla costruzione delle piattaforme social più famose nel tempo hanno parlato del fatto di averle progettate “per creare dipendenza”, ovvero per mantenere le persone più a lungo possibile sulle piattaforme, anche a costo di suscitare alcune delle nostre emozioni più primitive o di cercare di attivare il circuito cerebrale delle ricompense.

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A livello scientifico, però, la discussione sul fatto che internet possa creare un’effettiva dipendenza è molto meno definita. Negli ultimi vent’anni sono stati fatti vari studi preliminari sul tema, soprattutto per quanto riguarda il rapporto con i social network, ma al momento non esiste un consenso nella comunità medica e scientifica nemmeno sull’esistenza di una vera e propria dipendenza da social.

Vari esperti tendono poi a interpretare l’abuso di internet, come di molti altri comportamenti, come un sintomo di disturbi sottostanti: le persone che mostrano un rapporto malsano con internet, infatti, quasi sempre convivono anche con altri disturbi, come il disturbo da deficit di attenzione e iperattività (ADHD), la depressione, un disturbo d’ansia sociale o un disturbo ossessivo-compulsivo.

E c’è chi pensa che la volontà di associare comportamenti considerati eccessivi alla gravità delle dipendenze da sostanze sia legata anche a un’incomprensione generazionale nei confronti del ruolo che internet svolge nella vita sociale quotidiana dei giovani. «Se vediamo bambini che giocano ai videogiochi o guardano video di YouTube, ai nostri occhi è come se stessero perdendo tempo e non fossero produttivi», ha detto a NPR lo psicologo e ricercatore Patrick Markey. «Potremmo desiderare che siano fuori a giocare a baseball o qualcosa del genere, ma per quella generazione quello è il loro parco giochi pixelato. Non tutto è un segnale di un comportamento patologico».

Secondo Adele Minutillo, una delle autrici del rapporto dell’Iss, oggi in Italia da un punto di vista clinico si usa “dipendenza da internet” come ampio termine ombrello all’interno del quale vengono fatti ricadere atteggiamenti problematici nei confronti di specifici comportamenti online: nella categoria vengono incluse insomma molte cose diverse tra loro, dallo shopping online al consumo eccessivo di pornografia o videogiochi, dalla dipendenza da gioco d’azzardo online a un rapporto malsano con le relazioni virtuali.

«Un comportamento è considerato problematico quando va a togliere qualcosa alla vita dell’individuo, quando diventa l’attività preminente nella sua vita quotidiana, togliendo spazio a relazioni affettive, relazioni amicali, attività lavorative», spiega Minutillo. Esistono per esempio vari casi documentati di persone che perdono il sonno perché stanno sveglie fino a notte fonda per chattare online, o che cominciano ad andare molto male a scuola perché troppo concentrate a guardare video su YouTube per ore.

Secondo l’Iss, tra i sintomi di “dipendenza da internet” ci sono una «preoccupazione per internet, come pensare alle attività che si svolgeranno durante il prossimo accesso alla rete»; il bisogno di trascorrere via via più tempo online per raggiungere la stessa quantità di soddisfazione; il fatto di aver tentato e fallito ripetutamente nel ridurre l’uso di internet; una sensazione di irritabilità, depressione e malumore quando l’uso di internet è limitato; il fatto di affidarsi a internet per regolare o migliorare il proprio umore; l’essere disposti a mettere a rischio lavoro o relazioni per poter utilizzare più a lungo internet. «Poiché non c’è attualmente consenso sui criteri diagnostici per questa condizione in campo accademico e clinico, l’inclusione della diagnosi di disturbo da uso di internet rimane controversa e richiede ulteriori ricerche», sottolinea però il rapporto.

In Italia non esistono strutture, né pubbliche né private, che si concentrino specificatamente sulla dipendenza da internet, ma ci sono centinaia di psicologi e psichiatri che hanno sviluppato nel tempo un insieme di conoscenze utili a chi ritiene di avere un rapporto problematico con la tecnologia. Tendenzialmente, questi casi si trattano con un percorso di psicoterapia individuale, di gruppo o familiare. Sono comportamenti infatti prevalenti soprattutto tra gli adolescenti, e capita spesso che sia necessario spiegare ai genitori come comportarsi, nonché includerli nel percorso terapeutico. Altri si interessano invece alla prevenzione del fenomeno, educando le persone a un uso consapevole della tecnologia.

«Spesso prima di rendersi conto di star utilizzando qualcosa in una modalità dannosa per sé, che crea dei disagi e problemi di adattamento, ci vuole un po’ di tempo», dice Micol Parolin, professoressa del dipartimento di Psicologia dell’Università di Padova specializzata nelle dipendenze comportamentali.

«Non è come con una tossicodipendenza tradizionale, in cui ci si addentra nei meccanismi dell’illegalità e del divieto ed è chiaro che si sta facendo qualcosa di dannoso. A ciò si aggiunge il fatto che in tutte le situazioni di dipendenza c’è un aspetto di negazione del problema e di difficile consapevolezza: tante persone arrivano magari a chiedere aiuto non tanto perché hanno un problema con internet ma perché sentono di stare molto male, di essere in un momento depressivo, si sentono isolati o molto chiusi in sé stessi. È solo nella consultazione col professionista che emerge poi la consapevolezza di avere un problema con internet».

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Altre volte, spiega Parolin, i genitori interpretano il fatto che il figlio o la figlia passino moltissimo tempo al computer o al cellulare come il principale problema, mentre si tratta di un sintomo di un malessere più generalizzato. «Per questo è importante anche educare meglio i genitori, spiegando loro cos’è internet, quali sono le motivazioni e gli aspetti attrattivi che ha per i ragazzi, quale funzione sociale ha per loro il fatto di passarci molto tempo, per far sì che poi passano distinguere quello che è effettivamente un uso problematico da quello che è un uso eccessivo soltanto ai loro occhi. Perché spesso non hanno un’idea precisa di quali sono i bisogni dei ragazzi: internet ha una forte funzione socializzante, e questo va capito».