Come i social hanno istupidito le istituzioni

Il funzionamento delle piattaforme ha favorito la frammentazione delle comunità, la paura del dissenso e l’«ottusità» della società americana, scrive l’Atlantic

congresso americano 6 gennaio 2021
Una bandiera sventolata da un sostenitore dell’ex presidente Trump il giorno dell’attacco al Congresso statunitense, il 6 gennaio 2021 (AP Photo/Manuel Balce Ceneta)
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Nella prima metà degli anni Duemila i primi social media svilupparono le proprie piattaforme prendendo a modello alcuni strumenti già disponibili su Internet fin dagli anni Novanta, come le chat, i forum e le “bacheche” virtuali. I servizi forniti da piattaforme come Myspace, Friendster e Facebook permettevano alle persone di condividere interessi e avere relazioni sociali a distanza più frequenti, su una scala fino a quel momento inimmaginabile ma in modo non troppo diverso da quanto fosse possibile attraverso i servizi postali, il telefono, le email o gli sms.

A cambiare radicalmente questo contesto alcuni anni dopo, secondo Jonathan Haidt, docente americano di psicologia sociale alla Stern School of Business della New York University (NYU), fu l’intensificazione delle dinamiche virali resa tecnicamente possibile dall’introduzione nelle piattaforme di funzionalità standard che permettevano di ricondividere i contenuti.

In un lungo e dettagliato articolo sull’Atlantic, Haidt ha descritto la possibilità di ricondividere contenuti sui social media e i successivi adattamenti alle dinamiche conseguenti – adattamenti sia degli algoritmi delle piattaforme, sia delle persone – come un punto di svolta nella storia americana recente e uno dei più potenti fattori di indebolimento delle istituzioni e frammentazione delle comunità, tra quelli riconducibili all’azione dei social network sulle società.

Gli effetti di questa frammentazione sarebbero oggi riscontrabili non soltanto nella politica ma anche nelle università, nelle aziende, negli ordini professionali e nelle famiglie. E sarebbero alla base di una generale perdita di fiducia e di una «stupidità» collettiva derivante dalla predisposizione all’autocensura in un contesto straordinariamente incline a biasimare idee e comportamenti invocando – e spesso ottenendo – punizioni sproporzionate e decontestualizzate.

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È un discorso che Haidt, uno degli studiosi più noti e citati a proposito delle questioni relative ai social media, sviluppa facendo frequenti riferimenti alla realtà politica e sociale degli Stati Uniti, ma che in linea generale riguarda gran parte dei paesi interessati e condizionati dall’eccezionale diffusione dei social e delle dinamiche virali negli ultimi dieci anni. Diffusione che, secondo Haidt, ha indebolito tutte e tre le forze principali che tengono unite le democrazie secolari: la fiducia all’interno delle reti sociali, le istituzioni forti e le storie condivise.

Rispetto alle dinamiche tipiche dei primi anni dei social, verso la fine degli anni Duemila gli utenti diventarono progressivamente più inclini a condividere dettagli più intimi delle loro vite con un pubblico sempre più vasto e con le aziende che fornivano quei servizi. Come scrisse Haidt nel 2019, le persone diventarono più abili a mettere in scena una particolare versione di se stesse, a sviluppare una sorta di brand personale attraverso attività volte a impressionare gli altri più che approfondire relazioni di amicizia come avverrebbe, per esempio, attraverso una conversazione telefonica privata.

Facebook era nel frattempo diventata nel 2008 la piattaforma dominante, con oltre 100 milioni di utenti mensili (oggi sono quasi tre miliardi). Fino a quel momento aveva principalmente fornito agli utenti un servizio che permetteva loro di scorrere in ordine cronologico una serie di contenuti condivisi dai propri contatti. Ma l’introduzione del “like” nel 2009, un pulsante per esprimere pubblicamente un giudizio verso determinati contenuti, avviò uno stravolgimento di quel contesto iniziale. E ancora più determinante fu l’introduzione su Twitter, in quello stesso anno, del pulsante “retweet”, una funzione di ricondivisione dei contenuti poi subito ripresa anche da Facebook e da molte altre piattaforme.

Queste funzionalità permisero alle piattaforme di accumulare una grande quantità di dati sui contenuti più «coinvolgenti» sulla base di questi criteri. A partire da quei dati riuscirono quindi a sviluppare algoritmi in grado di aumentare la visibilità di contenuti che con maggiore probabilità avrebbero potuto ottenere altri “like” e condivisioni. Come avrebbero mostrato successive ricerche, i contenuti che suscitavano reazioni emotive – soprattutto quelle di rabbia verso gruppi diversi dal proprio – erano sostanzialmente i più diffusi e condivisi.

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Nel 2013, scrive Haidt, i social media erano diventati di fatto un’altra cosa, un gioco con regole completamente diverse da quelle precedenti al 2008. I post di ciascun utente potevano ottenere grande popolarità e approvazione oppure suscitare disprezzo e odio «in base ai clic di migliaia di estranei», e ciascun individuo contribuiva attraverso i suoi clic a rafforzare dinamiche di massa. Questo favorì la diffusione di falsità, in grado di raggiungere molte più persone perché era più probabile che gli utenti le condividessero rispetto alle verità.

A guidare gli utenti nella scelta del linguaggio e dei contenuti dei loro post non erano soltanto i loro gusti e le loro preferenze, ma le loro passate esperienze di «gratificazione e punizione» rispetto ai contenuti pubblicati in precedenza e la previsione di quali reazioni avrebbero suscitato i nuovi post. «Potremmo avere appena consegnato un’arma a un bambino di 4 anni», raccontò poi di aver pensato all’epoca Chris Wetherell, uno degli sviluppatori del pulsante retweet di Twitter.

Gli interventi tecnici di ottimizzazione e adattamento alle nuove dinamiche, scrive Haidt, resero le piattaforme un posto perfetto «per fare emergere il nostro io più moralista e meno riflessivo», producendo nel complesso una «sconcertante quantità di indignazione». E queste reazioni istintive e irriflesse prevalenti sui social hanno molto in comune con il tipo di sentimenti che gli autori della Costituzione americana – «eccellenti psicologi sociali», secondo Haidt – definivano «passioni sregolate» (unruly passions) e descrivevano come un rischio di debolezza delle comunità democratiche.

All’epoca, per fondare una repubblica stabile ed efficiente fu essenziale porre dei limiti alla diffusione di questi sentimenti: servivano meccanismi utili a «rallentare le cose, raffreddare le passioni, richiedere compromessi», scrive Haidt, e dare ai leader la possibilità di isolarsi un po’ e non essere soggetti all’«ossessione dell’istante», pur rimanendo periodicamente tenuti a rispondere delle responsabilità assunte nei confronti del popolo, il giorno delle elezioni.

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Il quarto presidente degli Stati Uniti e tra i principali “padri della Costituzione” James Madison, in un documento del 1787 spesso citato a proposito dell’innata tendenza degli esseri umani alla faziosità, scrisse che in mancanza di occasioni sostanziali anche «le distinzioni più futili e fantasiose» sono sufficienti a generare ostilità e alimentare i conflitti. In questo senso, scrive Haidt, è come se i social avessero amplificato le occasioni di futilità e ne avessero incrementato la capacità di creare divisioni.

Contrariamente a una diffusa concezione che ai tempi delle Primavere arabe e di Occupy Wall Street, nel 2011, associava l’utilizzo dei social a un’evoluzione positiva dei sistemi democratici, diversi studi attuali sostengono che i social media abbiano un effetto corrosivo sulla fiducia delle persone nei governi, nei media, nelle istituzioni e nelle altre persone in generale. Se si escludono alcuni vantaggi, attestati in particolare nelle democrazie meno sviluppate, i social sono prevalentemente associati a un aumento della polarizzazione politica, della disinformazione e del populismo, soprattutto di destra, come suggerisce una delle più recenti e complete revisioni delle ricerche esistenti in materia.

La perdita di fiducia nelle istituzioni, prosegue Haidt, si estende inoltre a quelle incaricate della formazione e dell’istruzione delle nuove generazioni, come ricordano i casi sempre più frequenti di programmi scolastici o altre questioni pedagogiche oggetto di controversie politiche e contestazioni di genitori indignati sui social. Con il risultato di frammentare la comunità in parti reciprocamente ostili e indebolire le narrazioni condivise al suo interno, essenziali per permettere alle generazioni più giovani nel paese di farsi un’idea della storia del popolo di quel paese e condividere quell’idea anche con chi in quello stesso paese ha frequentato le scuole in un’epoca o in un posto diverso.

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Come molti analisti statunitensi, Haidt riconduce alla perdita di fiducia nelle istituzioni anche l’elezione a presidente di Donald Trump, da lui considerato il primo politico ad aver saputo «padroneggiare le nuove dinamiche» in un contesto in cui «l’indignazione è la chiave della viralità» e la «performance sul palcoscenico» prevale sulla competenza. È stato anche il primo a esercitare la sua influenza contando sul presupposto che sui social non esiste una verità – nel senso di una singola storia abbastanza condivisa dalla collettività – bensì varie storie condivise da «frammenti adiacenti» della collettività. Una questione che ha evidentemente a che fare anche con il tema ampiamente dibattuto delle “bolle” e delle “echo chamber” sui social, espressioni utilizzate per descrivere contesti in cui circolano e sono amplificate soltanto opinioni simili.

Un altro effetto della diffusione dei social media su scala sempre maggiore negli ultimi dieci anni, secondo Haidt, è stato il conferimento di potere a persone che in precedenza non avevano voce o ne avevano in misura molto limitata. Che per molti versi è stato un bene: ha posto molti individui che si trovavano in posizioni di potere, dalla politica all’arte all’università, nella condizione di dover rendere pubblicamente conto di malefatte compiute sfruttando ruoli e relazioni esistenti prima dell’evoluzione delle dinamiche della viralità. Ma ha anche generato un’idea distorta di responsabilità che, scrive Haidt, è oggi alla base di gravi ingiustizie e di varie inefficienze della politica.

Come dimostrano alcuni studi recenti, l’esercizio del potere attraverso le dinamiche della viralità è distribuito prevalentemente tra provocatori ed estremisti. Michael Bang Petersen e Alexander Bor, ricercatori danesi di scienze politiche all’università di Aarhus, hanno studiato i comportamenti delle persone sui social media scoprendo che soltanto un piccolo sottoinsieme è disposto ad aggredire verbalmente altri utenti, insultarli e anche essere bloccato o segnalato, pur di raggiungere un determinato scopo. Essere online non rende di per sé le persone più aggressive né più ostili, secondo Bor e Bang Petersen, ma permette a gruppi minoritari di poter attaccare un insieme molto più vasto di persone.

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A conclusioni simili è arrivata anche una ricerca sulla polarizzazione politica condotta nel 2017 e nel 2018 su 8 mila persone americane dal gruppo More in Common, un’associazione non profit contro la xenofobia. Secondo la ricerca, i social media riducono il potere della maggioranza moderata e incrementano la visibilità dei comportamenti e delle convinzioni dei due gruppi più estremi, sia quello dei conservatori che quello dei progressisti, risultato il più prolifico in termini di condivisione di contenuti politici.

La ricerca mostrò quanto i due gruppi fossero simili sotto molteplici aspetti: erano in gran parte formati da bianchi e da ricchi. E questo suggerisce l’ipotesi che a occupare la centralità del dibattito politico sui social sia uno scontro tra due sottoinsiemi di élite non rappresentative della società americana in senso più ampio. Inoltre i due gruppi più estremi erano quelli che mostravano la maggiore uniformità interna riguardo alle opinioni politiche e agli atteggiamenti: una caratteristica che, secondo gli autori della ricerca, sarebbe il risultato di una forma di controllo che non lascia spazio al compromesso ed è esercitata sui social contro i dissidenti o anche chi la pensa in modo solo leggermente più sfumato all’interno del gruppo.

Una delle principali conseguenze di questa situazione, secondo Haidt, è l’amministrazione di una giustizia sui social media da parte delle masse, senza alcun processo per gli imputati e «senza responsabilità per i giustizieri». Potenziando tecnicamente le dinamiche della viralità, le piattaforme hanno favorito una tendenza a infliggere sproporzionate punizioni collettive per reati minori o spesso del tutto immaginari ma che finiscono per avere pesanti conseguenze sul mondo reale, come dimostrano numerosi casi di persone licenziate o spinte al suicidio per la vergogna pubblica.

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Questo ha portato nel tempo a una sorta di «stupidità strutturale» collettiva, scrive Haidt: il modo in cui i social media sono stati sviluppati ha favorito la diffusione di pregiudizi di conferma e reso più improbabile l’interazione con persone che non condividono le nostre convinzioni. La «stupidità» a cui Haidt fa riferimento sarebbe il risultato storico della conseguente fine del disaccordo all’interno delle istituzioni, dovuta al fatto che le persone la pensano in modo troppo uniforme all’interno dei propri rispettivi gruppi o, pur pensandola in modo diverso, hanno una «paura cronica» delle conseguenze del dissenso sulle loro vite, e finiscono quindi per autocensurarsi.

È un problema «strutturale» perché deriva non dall’intelligenza delle persone – «non è che gli americani siano diventati meno intelligenti», scrive Haidt – ma dalle dinamiche della viralità potenziate dai social media. Attraverso quelle dinamiche, il dissenso viene punito all’interno delle istituzioni portando a una situazione in cui le cattive idee finiscono per prevalere. Ed è un problema che riguarda anche le istituzioni culturali controllate dalla sinistra del paese: università, giornali, scuole e gran parte della Silicon Valley, luoghi in cui «il dissenso è stato soffocato».

Haidt descrive quelle istituzioni come ambienti in cui gli attivisti e i progressisti più giovani hanno utilizzato le dinamiche della viralità per attaccare i leader più anziani, rafforzando una narrazione secondo cui all’interno di ciascuna istituzione «le persone in cima sono arrivate vessando quelle in fondo». Una narrazione «rigidamente egualitaria, incentrata sull’uguaglianza dei risultati, non sui diritti o sulle opportunità» e «indifferente ai diritti individuali», sostenuta dai progressisti più attivi sui social e a cui i leader più anziani non avrebbero il coraggio di opporsi per paura di essere accusati di razzismo, transfobia o qualsiasi altra «lettera scarlatta che contrassegni il responsabile come uno che odia o danneggia un gruppo emarginato».

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Chiaramente, conclude Haidt, non è possibile tornare a come stavano le cose prima dell’era digitale: ma in diverse parti della vita politica, sociale e culturale esiste un margine sufficiente per intraprendere azioni e cambiamenti necessari per rafforzare le democrazie.

Il primo punto è riformare le istituzioni in modo da renderle più resistenti alla rabbia cronica, alla disinformazione e alla sfiducia. Servirebbe ridurre l’influenza sui legislatori da parte dei gruppi posti agli estremi e aumentare quella dell’elettore medio. E un modo efficace – suggerito da Haidt e da altri pensatori – potrebbe essere smettere di svolgere elezioni primarie di partito e promuovere forme di elezioni generali che richiedano all’elettorato di esprimere un ordine di preferenze tra più candidati anziché un unico nominativo.

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La seconda proposta è riformare i social media in modo da ridurre la loro capacità tecnica di propagare la stupidità strutturale e la sfiducia. Uno dei principali timori espressi dalle persone contrarie alla regolamentazione dei social è che questo tipo di restrizioni possa equivalere a una sostanziale censura. Ma il problema dei social, fa notare Haidt, non è la pubblicazione in sé di falsità e contenuti che suscitano indignazione: è che questi contenuti «possono oggi avere una portata e raggiungere un livello di influenza che erano impossibili prima del 2009».

Come suggerito dalla ex dipendente di Facebook e whistleblower Frances Haugen, responsabile della pubblicazione nel 2021 di una serie di controversi documenti interni dell’azienda, anche semplici modifiche dell’architettura delle piattaforme potrebbero sortire effetti molto rilevanti. Prima di tutto occorrerebbe integrare o migliorare le procedure che permettono di accertare che ciascun account appartenga a una singola persona reale e non sia il prodotto di un bot o un account falso. Cosa che probabilmente ridurrebbe anche la frequenza delle minacce di morte e di stupro, le offese razziste e le provocazioni.

Inoltre potrebbe essere molto utile rallentare la diffusione di contenuti virali, ossia quelli che mediamente hanno meno probabilità di essere veri, modificando la funzione “Condividi” in modo da non renderla disponibile dopo la seconda ricondivisione. Questo costringerebbe una terza persona eventualmente interessata a condividere quel contenuto a prendersi il tempo necessario per copiarlo e incollarlo in un nuovo post.

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L’ultimo importante intervento necessario segnalato da Haidt riguarda le generazioni più giovani, che «non hanno alcuna colpa per il casino in cui ci troviamo ma lo erediteranno». Citando un saggio dell’economista americano Steven Horwitz in cui il gioco infantile di gruppo è descritto come una pratica fondamentale per la cooperazione sociale tra gli esseri umani, Haidt sostiene che le ridotte opportunità di gioco all’aperto e senza sorveglianza da parte degli adulti – riduzione associata al maggior tempo trascorso in casa online – potrebbero ostacolare lo sviluppo di capacità necessarie alle nuove generazioni per la loro partecipazione politica futura.

Sono capacità che hanno a che fare con la cooperazione, il rispetto delle regole e la necessità di attuare compromessi, valutare le situazioni e accettare le sconfitte. E non permetterne lo sviluppo, conclude Haidt, potrebbe rendere più difficile per le persone costruire in futuro «ordini liberali pacifici e produttivi».

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