L’America è a corto di nuove idee?

Dal cinema alla scienza all'impresa ci sono buoni argomenti per sostenerlo, e per attribuirne le responsabilità a come si sono strutturati i mercati e la ricerca

chaplin tempi moderni
Un fotogramma del film del 1936 “Tempi moderni”
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Uno studio pubblicato nel febbraio del 2020 dal National Bureau of Economic Research (NBER), organizzazione privata statunitense che si occupa di studi economici, sostiene che un generale rallentamento mondiale della crescita della produttività e del PIL negli ultimi decenni – esteso anche a molti paesi più poveri che erano in rapido sviluppo – sia da collegare in parte a una riduzione del tasso di scoperta di nuove idee scientifiche e del tasso di sviluppo di nuove tecnologie sostenute da quelle scoperte.

«Le nuove idee non alimentano più la crescita economica come una volta», scrivono gli autori dello studio, l’americano Jay Bhattacharya, docente di medicina alla Stanford University, e il finlandese Mikko Packalen, docente di economia all’Università di Waterloo, in Ontario, Canada.

A partire dallo studio di Bhattacharya e Packalen, una recente riflessione espressa dal giornalista americano Derek Thompson nella newsletter dell’Atlantic “Work in Progress” ha interpretato secondo questa stessa chiave di lettura una serie di fenomeni e condizioni culturali e sociali attuali per sostenere l’ipotesi che gli Stati Uniti abbiano perso gran parte della loro capacità di introdurre nuove idee nel mondo, di sostenere progetti ambiziosi e di esplorare ambiti di ricerca a maggior rischio di fallimento. Interpretazione evidentemente estesa al contesto americano, ma per certi aspetti significativa anche per altre realtà occidentali non anglosassoni che di quel contesto hanno recepito, e in alcuni casi accresciuto, influenze e tendenze nel corso degli ultimi decenni.

Thompson comincia da un esempio abbastanza laterale rispetto alla questione di fondo: la produzione di storie originali nel cinema. I migliori film americani usciti nel 1998, tra i quali Titanic, Salvate il soldato Ryan e Tutti pazzi per Mary, erano quasi tutti basati su sceneggiature originali. Da allora in poi, una parte sempre più cospicua di produzioni cinematografiche ha invece riguardato sequel e supereroi. Nella lista dei 10 film del 2019 con i maggiori incassi negli Stati Uniti, 9 erano sequel o remake in live action di film d’animazione Disney, con l’unica eccezione di Joker, prequel di un’altra saga di supereroi.

«Gli americani andavano al cinema per vedere nuovi personaggi in nuove storie. Ora vanno al cinema per immergersi di nuovo dentro a storie già sentite», ha scritto Thompson. E colloca questa tendenza all’interno di una più ampia inclinazione nella cultura in genere, non soltanto quella popolare, all’«incrementalismo» – un tipo di lavoro che procede attraverso piccoli cambiamenti incrementali invece che per grandi salti – a scapito dell’esplorazione. Inclinazione presente anche nella ricerca scientifica.

Nell’articolo pubblicato dal NBER e intitolato “Stagnazione e incentivi alla ricerca scientifica”, Bhattacharya e Packalen scrivono di come negli ultimi 50 anni le citazioni siano diventate una delle misure essenziali di valutazione dei contributi scientifici. E spiegano come questa attenzione alle citazioni nella misurazione della produttività scientifica abbia progressivamente indirizzato gli incentivi e orientato il lavoro di ricercatrici e ricercatori – anche quelli precedentemente ai margini della ricerca più conosciuta – verso una «scienza incrementale» e «lontana da progetti esplorativi con maggiori probabilità di fallire, ma che sono il carburante per le scoperte future».

In altre parole, secondo Bhattacharya e Packalen, il fatto che le citazioni siano diventate una metrica fondamentale ha indotto gli scienziati a scrivere articoli che pensano possano essere apprezzati da altri scienziati. E questo fa sì che l’attenzione accademica di molti di loro si concentri intorno a un insieme più ristretto di argomenti molto popolari, anziché essere distribuita lungo un campo di interessi più ampio, che potrebbe aprire nuovi ambiti di studio e portare a progetti più innovativi e più rischiosi.

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Qualcosa di simile, secondo Thompson, è in un certo senso presente anche nel cinema, dove l’attitudine degli addetti ai lavori a prendersi dei rischi nella produzione di storie originali e più rischiose in termini di ritorno economico è molto diminuita nel tempo in favore di approcci più sicuri, basati su prodotti di comprovato successo.

L’idea argomentata dall’Atlantic secondo cui il progresso scientifico e tecnologico stia diventando un obiettivo sempre più difficile da raggiungere è al centro di molte analisi e studi degli ultimi anni. Secondo un citato articolo del 2020 scritto da un gruppo di ricercatori dell’Università di Stanford e del Massachusetts Institute of Technology (MIT), intitolato Are Ideas Getting Harder to Find?, la produttività della ricerca nell’ultimo secolo è diminuita drasticamente in diversi settori, tra cui la medicina e l’industria dell’agricoltura, nonostante un aumento notevole del numero effettivo di ricercatori e ricercatrici.

Alcuni studi sostengono che, a eccezione di un picco recente durante la pandemia, una significativa contrazione interessi anche la capacità imprenditoriale americana fin dagli anni Settanta, ricondotta da molti a una profonda riduzione dei flussi migratori, considerati storicamente una delle principali fonti dell’attività di impresa negli Stati Uniti.

L’apparente incapacità di formulare nuove idee e stimolare la crescita è poi un fenomeno esteso anche alle istituzioni, secondo Thompson, se si considera per esempio la fondazione di college e università di prim’ordine, cosa frequente fino a un secolo fa ma da decenni sempre più rara. Sul piano governativo, sembra inoltre essere venuta meno quella storica capacità di offrire risposte ai problemi collettivi attraverso l’istituzione di enti e agenzie specifiche, come i National Institutes of Health (NIH, l’agenzia governativa che si occupa di salute pubblica, istituita nel 1887) e i Centers for Disease Control and Prevention (il più importante organo di controllo sulla sanità pubblica negli Stati Uniti, sorto nel secondo dopoguerra).

Il punto di vista di Thompson però è che a mancare non siano di per sé le nuove idee, come dimostrano, per esempio, la scoperta dei vaccini basati sull’RNA messaggero (mRNA), l’editing genetico tramite la tecnica CRISPR/Cas9, i progressi nel campo dell’Intelligenza Artificiale, le auto elettriche o le criptovalute. È che quelle idee «semplicemente non alimentano la crescita come una volta», né quella della produttività né quella del reddito medio, significativamente diminuite rispetto ai livelli della metà del XX secolo.

«Immaginate di andare a dormire nel 1875 a New York e di svegliarvi 25 anni dopo», pone Thompson come esempio. Chiuderemmo gli occhi in un tempo in cui non c’era illuminazione elettrica né auto per strada, e con pochissimi telefoni in circolazione. Niente Coca-Cola, niente scarpe sneakers, niente basket né aspirina. E l’edificio più alto a Manhattan sarebbe una chiesa. Al risveglio, troveremmo grattacieli, automobili alimentate da motori a combustione, persone che vanno in bicicletta, scarpe con suola in gomma e molti altri prodotti e invenzioni. E «mentre dormivate, Thomas Edison ha svelato la sua famosa lampadina e ha già elettrificato alcune parti di New York».

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Troveremmo anche la prima versione degli strumenti di registrazione e riproduzione di suoni e di immagini: la macchina fotografica, il fonografo e il cinematografo. E la Johns Hopkins University, Stanford, la Carnegie Mellon University e la University of Chicago. Risalgono a quel periodo negli Stati Uniti anche le invenzioni sia del basket che della pallavolo. E tutto questo in appena 25 anni.

A voler riproporre un esperimento mentale del genere oggi, scrive Thompson, se ci fossimo addormentati nel 1996 e ci risvegliassimo nel 2021, troveremmo smartphone e Internet, sì, ma il mondo fisico ci apparirebbe più o meno lo stesso. E tra i due quarti di secolo posti a confronto si noterebbe facilmente una differenza: «Paragona “le auto hanno sostituito i cavalli come miglior modo per attraversare la città” con “le app hanno sostituito i telefoni come miglior modo per ordinare da asporto”».

Per cercare di spiegare l’origine di questa stagnazione Thompson propone tre ipotesi, premettendo che non esiste un’unica ragione generale a monte di un fenomeno così complesso. Una riguarda l’industria culturale e dell’intrattenimento, e il fatto che nel mercato globale quell’industria abbia appreso sempre di più le preferenze del pubblico e la particolare attenzione verso i prodotti che trattano «sorprese familiari» piuttosto che «bizzarre originalità».

Un discorso simile vale anche per la scienza: gli scienziati sanno cosa pubblicano le riviste scientifiche e quali progetti hanno più speranza di ricevere finanziamenti dal governo, e cercano di ottenere citazioni scrivendo articoli che probabilmente attireranno maggiormente l’attenzione di altri scienziati. Secondo un’analisi pubblicata nel 2016 sulle applicazioni della ricerca scientifica americana, nella valutazione delle richieste di sovvenzioni il NIH e la National Science Foundation – le due principali agenzie governative che sostengono la ricerca – mostrano una predilezione per i «bassi livelli di novità» e una tendenza a valutare negativamente sia i progetti molto vicini alle aree di competenza dei valutatori sia quelli «altamente originali».

Di conseguenza, scrive Thompson, gli scienziati sono incoraggiati a concentrarsi su argomenti che già sanno essere relativamente popolari, e cercano una giusta via di mezzo tra ciò che è troppo conosciuto e ciò che è troppo sorprendente, che sono i due casi estremi con maggiori probabilità di ricevere una valutazione negativa.

Quello della mancanza di originalità, nel discorso fatto da Thompson, è un problema di scala che riguarda evidentemente anche le conseguenze dello sviluppo di Internet.

Il mondo è un grande panopticon [una struttura carceraria in cui è possibile osservare tutte le ali dallo stesso punto, ndt] e non comprendiamo appieno le implicazioni della costruzione di un mercato planetario dell’attenzione in cui tutto ciò che facciamo ha un pubblico. Il nostro lavoro, le nostre opinioni, i nostri traguardi e le nostre sottili preferenze vengono regolarmente sottoposte all’approvazione pubblica online. Forse questo rende la cultura più imitativa. Se vuoi produrre cose popolari e puoi facilmente capire da Internet cosa è già popolare, è semplicemente più probabile che tu produca più di quella cosa. Questa pressione mimetica fa parte della natura umana. Ma forse Internet potenzia questa caratteristica e, nel processo, rende le persone più riluttanti a condividere idee che non siano già state pre-approvate in modo dimostrabile, il che riduce le novità in molti ambiti.

L’altra ipotesi formulata da Thompson per spiegare la mancanza di idee nuove associate a una maggiore produttività suggerisce che la capacità di produrne di nuove nella cultura e nella scienza negli Stati Uniti, capacità tradizionalmente associata alle persone più giovani, sarebbe limitata dalla gerontocrazia. Joe Biden è il presidente più anziano nella storia degli Stati Uniti. L’età media al Congresso americano è vicina al suo massimo storico degli ultimi dieci anni. L’età media dei vincitori del premio Nobel è aumentata costantemente in quasi tutte le discipline, così come quella dei beneficiari delle sovvenzioni alla ricerca del NIH.

Qualcosa di simile è avvenuto anche nel campo dell’impresa, se si considera che negli ultimi 20 anni l’età media degli amministratori delegati delle 500 società più grandi e ricche degli Stati Uniti è cresciuta di oltre 10 anni. «Gli americani di 55 anni o più rappresentano meno di un terzo della popolazione, ma possiedono i due terzi della ricchezza del paese, il più alto livello di concentrazione di ricchezza mai registrato», scrive Thompson.

Questo non significa ovviamente che il contributo delle persone più anziane debba essere messo da parte, dal momento che proprio quelle persone hanno spesso competenze più approfondite. Le persone più anziane sono però anche quelle che avrebbero più da perdere dal rovesciamento di eredità culturali, paradigmi e sistemi di pensiero, sostiene Thompson, aggiungendo che l’innovazione richiede qualcosa di trasversale rispetto alle competenze, «una sorta di utile ingenuità», più comune tra i giovani.

Un’altra ipotesi è che la creatività americana sia stata ostacolata e contrastata anziché incentivata dalle istituzioni moderne, e che oggi le nuove idee abbiano la stessa probabilità di nascere di una volta ma molte meno probabilità di essere sviluppate. Come scritto dal popolare giornalista Ezra Klein – in risposta a un articolo scritto dall’investitore americano Marc Andreessen, intitolato It’s time to build e circolato molto nel 2020 – «le istituzioni attraverso cui gli americani costruiscono sono diventate prevenute contro l’azione, invece che bendisposte nei suoi confronti».

Riprendendo un concetto dello storico e politologo Francis Fukuyama, Klein sostiene che le istituzioni siano diventate «vetocrazie», ambienti in cui troppe persone – sia nel governo federale, sia nei governi locali, sia nel settore privato – hanno diritto di veto su ciò che viene costruito. È un fenomeno che può interessare e di fatto interessa molte realtà e governi dei paesi occidentali, ma è un rischio tanto più concreto, come dimostra Thompson attraverso una serie di esempi, in un paese in cui il potere dell’esecutivo è costituzionalmente limitato da un complesso sistema di vari contrappesi. «Il Senato una volta era conosciuto come il “disco di raffreddamento della democrazia”, dove le nozioni populiste andavano a raffreddarsi un po’. Ora è la ghiacciaia della democrazia, dove la legislazione muore di ipotermia».

L’unica eccezione rispetto al discorso sulla fine delle nuove idee negli Stati Uniti sembrerebbe l’informatica e Internet e, in particolare, l’industria del software. Ossia un’area in cui: i giovani tendono ad avere il controllo, sono presenti meno ostacoli normativi e le nuove idee sono apprezzate e, in un certo senso, persino oggetto di feticizzazione. Ed è innegabile, prosegue Thompson, che le comunicazioni siano state negli ultimi 50 anni la fonte più significativa di nuove idee negli Stati Uniti.

Ma, anziché contraddire il problema di fondo, la vitalità del settore tecnologico dimostrerebbe quanto l’innovazione negli Stati Uniti sia passata dalla varietà e dalla sperimentazione alla specializzazione. Rispetto a un tempo, per esempio, i brevetti sono oggi più concentrati in un singolo settore, l’industria del software, più di quanto lo siano mai stati in precedenza.

In un successivo articolo che tiene conto di alcune delle obiezioni ricevute dopo la pubblicazione del primo pezzo, Thompson è in parte tornato sulle sue posizioni insistendo sulla definizione del problema di fondo non tanto come una questione di idee, bensì di innovazione e di mercati. «Suggerisci che il problema sia l’invenzione. Ma non vedo prove che le persone siano meno ingegnose. Mi pare che il problema stia nella fase in cui quell’ingegno viene trasferito nel mondo», ha scritto a Thompson il biologo americano David Krakauer, presidente del Santa Fe Institute, nel New Mexico.

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Anche nell’esempio del cinema, il fatto che la percentuale di film americani di successo che sono sequel, adattamenti o reboot sia aumentata costantemente in questo secolo non dimostra che gli sceneggiatori abbiano esaurito le idee o che oggi siano meno capaci di concepire storie non-sequel. A cambiare è stato piuttosto il mercato internazionale dell’industria cinematografica, specifica Thompson.

Con la diffusione della TV via cavo e successivamente lo sviluppo della tecnologia dello streaming, gli studi di produzione si sono concentrati su storie che potessero suscitare un maggiore interesse su larga scala. E da questo punto di vista i film con molti effetti visivi – ottenuti attraverso la Computer Generated Imagery (CGI) – hanno prevalso in termini di «esportabilità», rispetto per esempio a quelli drammatici con molti contenuti parlati. Allo stesso tempo gli studi hanno preferito investire in progetti sicuri a fronte dell’aumento dei costi di produzione e commercializzazione dei film in mercati sempre più ampi.

Naturalmente è un circolo che si autoalimenta, fa notare Thompson: gli spettatori americani ignorano i film originali ben scritti ma senza grandi effetti speciali, e gli studi rispondono investendo maggiori risorse in saghe che soddisfano le aspettative del pubblico.

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Quanto al discorso sulla scienza, Thompson chiarisce che non è un problema di mancanza di capacità di sviluppare idee ingegnose: è che i ricercatori e le ricercatrici americane hanno oggi maggiore familiarità con il mercato dei finanziamenti scientifici, cosa che potrebbe non premiare l’ingegnosità. Il processo di richiesta delle sovvenzioni al NIH e all’NSF, spiega Thompson, è talmente impegnativo in tutti i suoi passaggi da arrivare a occupare il 30 o il 40 per cento delle ore lavorative dei ricercatori e delle ricercatrici.

Inoltre, nonostante le buone intenzioni, le agenzie governative responsabili dei finanziamenti alla ricerca hanno di fatto creato un mercato molto specifico. È diventato via via più probabile ottenere sovvenzioni quando le proposte sembrano plausibili a diversi membri del processo di revisione paritaria (il sistema delle peer-review), sistema che incentiva gli scienziati a «dimostrare che le domande che stanno ponendo hanno già avuto una risposta».

Thompson propone infine un esempio storico di incapacità americana di creare un mercato adatto a sostenere le idee originali. Negli anni Ottanta e Novanta, la politica industriale giapponese spinse le aziende ad adottare pannelli solari nell’elettronica di consumo, come per esempio calcolatrici tascabili e orologi da polso. Invece, nonostante avessero inventato la cella fotovoltaica negli anni Cinquanta e investito per decenni moltissime risorse in ricerca e sviluppo nel campo dell’energia solare, gli Stati Uniti non avevano un piano in grado di tradurre la ricerca scientifica in tecnologia commerciale.

Dagli anni Cinquanta in poi avevano perso il loro vantaggio tecnologico perché il sistema americano delle innovazioni investiva nella «scienza pura», incoraggiando il settore privato a commercializzare qualsiasi idea intendesse commercializzare. Le agenzie governative avrebbero «innaffiato il campo della scienza, e il settore privato sarebbe poi passato per il raccolto», sintetizza Thompson. Ma mancava un passaggio intermedio: politiche industriali che si occupassero dell’«individuazione del materiale giusto per la raccolta».