Come passare meno tempo allo smartphone

Tecniche fisiche e psicologiche di chi ci ha ragionato e ci ha provato, raccontando spesso di averne tratto giovamento

passeggeri seduti e in piedi in un vagone della metropolitana a Hong Kong tengono lo sguardo fisso sui loro smartphone
(AP Photo/Andy Wong)
Caricamento player

Gli effetti dell’utilizzo eccessivo dello smartphone sulla memoria e in generale sulla salute delle persone, in particolare degli adolescenti, sono da anni oggetto di ricerche scientifiche e discussioni con più dubbi che certezze. L’impulso a utilizzarlo di continuo e in momenti diversi della giornata, sia sul lavoro che nel tempo libero, è descritto in alcune ricerche sulle dipendenze da Internet come un possibile segno di nomofobia (da no mobile phone phobia), una sensazione di paura e ansia che alcune persone provano all’idea di rimanere senza il proprio smartphone.

Al netto dei casi patologici e del dibattito sulla concreta diffusione della nomofobia, trascorrere meno tempo sullo smartphone è in generale un frequente proposito di inizio anno. Spesso a coltivarlo sono persone che desiderano dedicare del tempo, più di quanto ne dedichino abitualmente, ad attività che semplicemente non prevedono l’utilizzo di uno smartphone: leggere un libro, guardare un film, fare conversazioni di persona o fare attività fisica, per esempio. Negli ultimi anni il racconto di iniziative di persone che, assecondando propositi di questo tipo, disinstallano ogni social network dallo smartphone o smettono completamente di usarlo è diventato una specie di genere giornalistico.

– Leggi anche: Come far durare i propositi di inizio anno

All’inizio del 2023 la fumettista statunitense Kate Wheeler scrisse in alcune tavole pubblicate sul Washington Post di aver deciso di eliminare tutti i social dal suo smartphone (TikTok, Instagram, Twitter) perché percepiva come una perdita di tempo e «un furto di noia e creatività» le ore trascorse su quelle app. Non prese quella decisione per ragioni di produttività, scrisse, ma per ritrovare «quello spazio indistinto a metà tra la noia e la riflessione».

 

Visualizza questo post su Instagram

 

Un post condiviso da The Washington Post (@washingtonpost)

 

Un modo pratico per limitare il tempo di utilizzo dello smartphone è servirsi delle specifiche funzioni introdotte già da alcuni anni dai produttori nei loro sistemi operativi. Quella disponibile su sistemi iOS, raggiungibile attraverso le impostazioni, si chiama “Tempo di utilizzo” e fornisce resoconti giornalieri e settimanali sul tempo trascorso davanti allo schermo del telefono e sulle app più utilizzate. Permette anche di impostare un limite di tempo giornaliero per tutte le app o solo per quelle di una determinata categoria: superato il limite, un messaggio di avviso impedirà di utilizzarle. È sempre possibile fare un’eccezione e continuare a usare la app, selezionando il messaggio “Ignora limitazione” per avere una proroga di 15 minuti o più: passaggio che potrebbe comunque bastare a scoraggiare qualche utente dal proseguire nell’utilizzo della app.

La funzione simile a questa e disponibile sui sistemi Android si chiama “Benessere digitale” e si attiva dalle impostazioni. Anche sui telefoni Android, una volta superato il limite di tempo di utilizzo, la app “limitata” smette di poter essere utilizzata. La funzione su Android non ammette singole proroghe: per continuare a usare l’app limitata serve disattivare tutto il sistema di limitazioni.

Nel 2019 il giornalista del New York Times Kevin Roose, che peraltro si occupa proprio di tecnologia, scrisse di aver tentato varie volte senza successo di ridurre il tempo trascorso ogni giorno sullo smartphone. Alla fine si rivolse a un’esperta: la giornalista scientifica Catherine Price, che scrive spesso di questo argomento ed è autrice del libro How to Break Up With Your Phone, una guida su come ottenere una relazione più equilibrata con il proprio smartphone eliminando le cattive abitudini.

– Leggi anche: La dipendenza da Internet esiste?

Roose segnalò l’esistenza di un emergente settore commerciale di «disintossicazione digitale», formato perlopiù da corsi di auto-aiuto con consigli sui metodi da seguire per fare a meno dello smartphone o su particolari modelli con funzioni limitate da acquistare. Ma nessuno di quei consigli si adattava al suo caso, scrisse, dal momento che il suo lavoro di redattore di tecnologia gli impediva scelte radicali. Il programma di Price si concentrava invece sui «fattori emotivi scatenanti che ti inducono prima di tutto a prendere il telefono», con l’obiettivo non di disattivare Internet o imporre rigidi limiti temporali, ma di «sganciare» il cervello dalle routine dannose costruite attorno a questo particolare dispositivo per «agganciarlo a cose migliori».

Price chiese a Roose di inviarle le statistiche sull’utilizzo dello smartphone il giorno in cui l’aveva contattata (è un’informazione recuperabile in una sezione specifica di molti dispositivi, sia Apple che Android). Roose aveva preso lo smartphone 101 volte utilizzandolo in totale per 5 ore e 37 minuti: circa il doppio del tempo trascorso in media dalle persone negli Stati Uniti all’epoca. I risultati di un sondaggio più recente indicano che il tempo trascorso dalle persone ogni giorno sullo smartphone negli Stati Uniti è aumentato del 30 per cento dal 2022 al 2023, arrivando a 4 ore e 25 minuti. Sono invece diminuite le volte in cui prendono lo smartphone durante il giorno, presumibilmente perché rispetto a prima lo mettono giù meno spesso. In Italia, secondo un rapporto pubblicato da DataReportal nel 2023, le persone tra 16 e 64 anni che utilizzano Internet tramite uno smartphone ogni giorno lo fanno mediamente per 2 ore e 56 minuti.

Uno dei suggerimenti condivisi da Price è di rendere meno immediata e automatica la consultazione dello smartphone, inserendo dei passaggi che ricordino alla persona che lo utilizza di riflettere sul motivo per cui ha deciso di utilizzarlo. Roose lo avvolse in un elastico, e sostituì la schermata di stand-by con una che mostrava tre domande: «Per cosa? Perché ora? Cos’altro?». Questi accorgimenti gli permisero nella prima settimana di acquisire consapevolezza su alcune sue bizzarre abitudini. Notò che prendeva il telefono ogni volta che si lavava i denti o usciva di casa, per esempio, e che per qualche motivo controllava sempre la posta elettronica negli istanti in cui attendeva che la sua carta di pagamento venisse accettata ogni volta che faceva un acquisto in un negozio.

«Soprattutto mi sono reso conto di quanto io mi senta profondamente a disagio nell’immobilità», scrisse Roose, notando che usava il telefono in ogni momento libero in ascensore o in una riunione noiosa, ascoltava podcast o scriveva email in metropolitana, guardava video su YouTube mentre piegava il bucato e usava app anche per meditare. «Se volevo ripararmi il cervello, dovevo esercitarmi a non fare niente», aggiunse. Nei momenti in cui non prendeva più il telefono in mano, lungo percorsi di routine in cui di solito lo usava, cominciò a notare particolari a cui non aveva mai prestato attenzione.

Alzando lo sguardo mentre usciva di casa, fece caso a dettagli architettonici dei palazzi che non aveva mai notato prima. In metropolitana cominciò a osservare le persone e i loro comportamenti, lasciando il telefono sempre in tasca. E se una persona lo faceva attendere a un appuntamento, si guardava intorno anziché mettersi a scrollare sui social. Roose eliminò anche gran parte delle app che considerava superflue, tra cui giochi e social media, mantenendo soltanto i suoi principali servizi di messaggistica, il browser e app di cucina o di altro tipo per lui utili a mantenere abitudini sane.

Ridusse all’essenziale – calendario, email e gestore di password – la quantità di app raggiungibili dalla schermata principale, e disabilitò le notifiche per qualsiasi servizio fuorché le telefonate. Quanto ai messaggi lasciò le notifiche attive soltanto per quelli provenienti da un ristretto elenco di persone da lui impostato, che includeva sua moglie, il suo direttore e pochi amici intimi. Su consiglio del suo collega Farhad Manjoo, famoso giornalista esperto di tecnologia, Roose si iscrisse anche a un corso di ceramica: funziona perché è un’attività manualmente impegnativa e richiede concentrazione per ore. Inoltre sporca le mani, che può essere un buon deterrente per l’uso contestuale di costosi dispositivi elettronici.

Roose scrisse anche di aver condiviso con sua moglie la frequente sensazione per lui spiacevole di perdersi qualcosa di importante, o che a lui comunque interessava. E che lei gli rispose che da quando lui aveva cominciato quel periodo di «disintossicazione» era molto più presente quando era a casa, passava più tempo ad ascoltare e meno tempo a borbottare e distrarsi. «Mi dispiace che questa cosa ti crei problemi, perché per me è stato fantastico», gli disse.

– Leggi anche: Gli smartphone hanno reso gli adolescenti più tristi?

Il fatto che le persone che riducono l’utilizzo dello smartphone prestino poi maggiore attenzione a ciò che hanno fisicamente intorno è comprensibile, e in alcuni casi ha probabilmente a che fare con una diminuzione del fenomeno noto come phubbing – da phone + snubbing (“snobbare”) – che indica l’alienazione provocata da un utilizzo eccessivo degli smartphone a scapito dei rapporti umani fisici. I risultati di uno studio sperimentale citato da Roose indicano che un eccessivo phubbing peggiori la qualità della comunicazione, diminuisca la soddisfazione nelle relazioni sociali e contribuisca a generare sentimenti di alienazione.

Altri esperti oltre a Price suggeriscono di tenere lo smartphone fisicamente distante quando non serve utilizzarlo, per evitare che possa prendere il sopravvento sulle relazioni di persona. «Sembra banale, come una soluzione analogica vecchio stile, ma decenni di psicologia ci insegnano che le cose più vicine a noi nello spazio fisico hanno il maggiore effetto su di noi a livello psicologico», disse al New York Times nel 2022 lo psicologo Adam Alter, professore alla Stern School of Business della New York University. «Se permetti al tuo telefono di accompagnarti in ogni esperienza, ne sarai attratto e lo utilizzerai, mentre se non puoi raggiungerlo fisicamente lo userai di meno».

Roose scrisse che è molto facile scambiare il phubbing con le necessità professionali, e cioè raccontarsi che il tempo trascorso sulla smartphone sia in fondo tempo di lavoro. Del resto, si chiese, «non è mio compito sapere quando ci sono notizie? Non trascurerò i miei doveri se impiegherò un’ora in più per sapere che Jeff Bezos sta per divorziare, o che un altro youtuber ha fatto qualcosa di razzista?». Interpellata su questo aspetto, Price invitò Roose a considerare il quadro più ampio dei benefici da lui ottenuti «non rimanendo su Twitter tutto il tempo».

Secondo Anna Lembke, esperta di dipendenza e professoressa di psichiatria e scienze comportamentali alla Stanford University, una tecnica utile per valutare il proprio rapporto con lo smartphone ed eventualmente decidere se e come ridefinire quel rapporto è evitare completamente qualsiasi schermo per un periodo di prova. Il periodo può essere più o meno lungo, a seconda delle esigenze professionali o di altro tipo, ma anche una pausa di 24 ore può essere utile. È un consiglio condiviso anche da Price: il periodo per Roose, che approfittò di un fine settimana trascorso fuori città, durò due giorni interi.

Roose scrisse di essere riuscito proprio in quei giorni di «allontanamento emotivo» dallo smartphone a riflettere, tra le altre cose, sulle ragioni pratiche dell’utilità di avere un dispositivo del genere in tasca: avere indicazioni stradali a portata di mano, per esempio, o ottenere più comodamente cibo e altri beni di consumo. Per non parlare della possibilità di parlare con qualsiasi persona mai incontrata, avere una documentazione fotografica della propria vita e attingere a tutta la conoscenza umana in pochi passaggi.

Alla fine del programma di «disintossicazione» il tempo trascorso mediamente da Roose sullo smartphone era passato da circa 5 ore a poco più di un’ora al giorno. Al di là delle misurazioni, il suo rapporto con il telefono era diventato più equilibrato e soddisfacente: lo usava ancora per email e messaggi, ma poco per i social media, e spesso passavano anche ore senza che lui desse nemmeno una sbirciatina allo schermo. Riguardo alla possibilità di «ricadute», Price gli disse che era possibile, considerati i fenomeni di dipendenza indotti da app che per ragioni di profitto sono spesso deliberatamente progettate e sviluppate per mantenere gli utenti «agganciati».

Come ha scritto recentemente Price sul Guardian, «è essenziale ricordare che la nostra attenzione, come il tempo, è un’equazione a somma zero: ogni minuto che trascorriamo scorrendo senza pensare è un minuto che non abbiamo dedicato a qualcos’altro, qualcosa di cui potrebbe veramente importarci». Per lei l’aspetto più importante in qualsiasi proposito di ridurre il tempo trascorso sullo smartphone non è il tempo in sé ma mantenere una consapevolezza del proprio rapporto con il telefono. Non è un problema usare lo smartphone, ed è anzi un’opportunità preziosa, finché si continua però a fare attenzione a quando e come lo si usa: «La tua vita è ciò a cui presti attenzione. Se vuoi usarla per i videogiochi o Twitter, sono affari tuoi. Ma dev’essere una scelta consapevole».