I “trigger warning” funzionano?

Diversi studi ritengono inefficaci e persino dannosi, per quanto benintenzionati, gli avvertimenti sulla possibilità che certe persone siano turbate da particolari contenuti

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(AP Photo/Carolyn Kaster)
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I trigger warning sono un tipo specifico di avvertimenti molto presente nella cultura anglosassone e largamente diffuso anche sui social media, a volte con l’abbreviazione “tw”, seguita da una breve descrizione o una parola chiave dell’argomento della discussione. Secondo una definizione condivisa, sono dichiarazioni inserite all’inizio di un testo o di un video per avvisare della possibilità che alcuni fruitori di quel contenuto ne rimangano turbati a causa dei particolari temi trattati o comunque presenti (stupro, disturbi alimentari o suicidio, per esempio). Sono indicazioni specifiche rivolte a quella parte di pubblico che in passato potrebbe aver vissuto esperienze traumatiche simili a quelle raccontate o mostrate. Quindi un’altra cosa rispetto, per esempio, ai generici disclaimer di contestualizzazione storica delle opere o agli avvisi di contenuti violenti.

Sui trigger warning, sulla loro utilità e sugli effetti indesiderati di queste attenzioni, per quanto benintenzionate, è in corso da anni un dibattito laterale ma piuttosto esteso relativo alla loro istituzionalizzazione nei contesti accademici statunitensi, dove la richiesta di inserimento di trigger warning nella presentazione di determinate opere letterarie o corsi universitari è stata in passato esplicitamente avanzata, in alcuni casi, da gruppi e associazioni studentesche.

Una delle posizioni principali all’interno del dibattito è sostenuta da chi ritiene l’uso di questi preavvisi una pratica responsabile e rispettosa nei confronti delle persone che, a causa di particolari fragilità legate a vicende personali, potrebbero provare disagio di fronte a determinati stimoli. Fin dalla loro prima comparsa sui forum su Internet, nei primi anni Duemila, i trigger warning furono considerati un modo utile per avvisare della presenza di temi traumatizzanti, sulla base dell’idea che fornire questo genere di indicazioni ridurrebbe il rischio di riattivare sintomi da disturbo da stress post-traumatico (PTSD) in alcuni lettori.

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Altre persone, al contrario, contestano l’utilizzo dei trigger warning ritenendoli uno strumento controproducente e definendo pericolosa, nel caso specifico della didattica, l’idea che agli studenti sia data la possibilità di non affrontare qualcosa che potrebbe causare loro turbamento. L’idea condivisa da questo gruppo è che un eccesso di attenzioni alle sensibilità dei più vulnerabili possa di fatto, offrendo l’alternativa del rifiuto, impedire agli studenti di mettere in discussione le loro convinzioni. Esiste inoltre, secondo i contrari all’uso dei trigger warning, un margine di discrezionalità troppo ampio nella valutazione di cosa sia e cosa non sia da ritenere un contenuto potenzialmente sconvolgente e rispetto al quale sia quindi opportuno o meno fornire indicazioni preliminari.

Nel 2014, l’Oberlin College, in Ohio, fu uno dei primi istituti americani a discutere un sistema di avvertimenti – all’epoca già presente sui social media – per i materiali dei corsi universitari potenzialmente in grado di evocare traumi a causa delle tematiche trattate. In una guida preparata dagli studenti dell’Oberlin, il romanzo del 1958 Le cose crollano – la più famosa opera dello scrittore nigeriano Chinua Achebe, sull’impatto violento della colonizzazione sulla cultura tradizionale africana – fu utilizzato come esempio di contenuto potenzialmente traumatico. Pur essendo descritto nella guida come un «trionfo della letteratura che tutti nel mondo dovrebbero leggere», il romanzo era giudicato un testo in grado di «turbare lettori che hanno sperimentato razzismo, colonialismo, persecuzione religiosa, violenza, suicidio e altro».

Nella guida si sosteneva che indurre il ricordo di un evento traumatico in un individuo avrebbe potuto interrompere i normali processi di apprendimento e «far sentire alcuni studenti non al sicuro nella loro classe». Una parte dei docenti dell’Oberlin College accolse i suggerimenti, definendo l’uso di trigger warning una pratica pedagogica responsabile. «Sono abbastanza contraria all’argomento “i ragazzi devono rafforzarsi”, perché ignora completamente la realtà con cui abbiamo a che fare. Ci sono studenti che vengono da noi con problemi seri, dobbiamo affrontarli con rispetto e serietà», disse Meredith Raimondo, preside della facoltà di Belle arti e Scienze sociali all’Oberlin.

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«Il punto non è consentire né tantomeno incoraggiare gli studenti a saltare queste letture o la successiva discussione in classe (sono obbligatorie nei miei corsi, a meno di un’esenzione formale). Il punto piuttosto è permettere a chi è sensibile a questi temi di predisporsi alla lettura e gestire meglio le proprie reazioni», scrisse nel 2015 la filosofa australiana Kate Manne, docente alla Cornell University, a New York. Esporre gli studenti a materiale traumatico senza alcun preavviso, disse Manne, è «come lanciare occasionalmente un ragno addosso a uno che soffre di aracnofobia», e questo ostacolerebbe l’apprendimento anziché favorirlo.

In seguito, l’Oberlin respinse la proposta avanzata dagli studenti dopo il rifiuto di altre facoltà, i cui docenti sostennero che l’individuazione nei materiali dei corsi di fattori in grado di provocare turbamento sarebbe stata un’operazione potenzialmente interminabile. Ma altri docenti in altre università americane adottarono i trigger warning nei loro corsi, indipendentemente dalle politiche dei loro istituti, portando avanti la discussione. E avvertimenti di questo tipo, via via sempre più presenti su Internet, si diffusero rapidamente anche in contesti non accademici.

Ad agosto scorso, una rappresentazione di “Romeo e Giulietta” al Globe Theatre di Londra ha generato una lunga discussione per l’uso di trigger warning all’inizio dello spettacolo, riferiti al tema del suicidio e dell’uso di droghe, e alla presenza di sangue finto sulla scena. Il personale del teatro ha inoltre fornito al pubblico i numeri telefonici di un’associazione per la prevenzione del suicidio e di un ente di beneficenza che si occupa di salute mentale.

Jeannie Suk, docente di diritto penale alla Harvard Law School e collaboratrice del New Yorker, si è recentemente occupata sul New Yorker del tema dei trigger warning ponendo l’attenzione su alcuni possibili effetti indesiderati di questa pratica. In qualità di insegnante di materie che riguardano argomenti come omicidi, stupri, discriminazioni razziali, violenze domestiche e sui minori, Suk ha detto che tutti i suoi corsi sono preceduti da una sua introduzione generica in cui chiarisce che saranno trattate questioni controverse e difficili. Non è propriamente un trigger warning, ha spiegato, anche perché un’etichetta che segnali l’argomento del corso, nel suo caso, sarebbe spesso una ridondanza rispetto al nome del corso stesso (“Omicidi” o “Aggressioni sessuali”, per esempio).

Suk ha detto di essersi chiesta se la pratica di avvisare gli studenti che certi argomenti potrebbero traumatizzarli o riattivare traumi passati sia poi concretamente utile a ridurre i loro livelli di stress o se possa piuttosto contribuire a incrementarli. Ha quindi citato una serie di studi recenti di psicologia che, in modo piuttosto unanime, negano l’efficacia dei trigger warning e, in alcuni casi, li considerano dannosi per le persone sopravvissute a un trauma o con diagnosi di PTSD.

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Secondo il primo studio della serie, pubblicato nel 2018 sulla rivista Journal of Behavior Therapy and Experimental Psychiatry e condotto da ricercatori del Dipartimento di Psicologia dell’Università di Harvard su un campione di persone senza traumi pregressi, i trigger warning hanno un effetto controproducente sui livelli di ansia provata in risposta a passaggi «potenzialmente dolorosi» di alcuni testi letterari. Tra le persone del campione che affermavano di credere che le parole possano provocare danni, quelle che avevano ricevuto trigger warning prima della lettura riferivano maggiore ansia rispetto a quelle che non li avevano ricevuti. Per il resto del campione, l’impatto dei trigger warning era invece trascurabile.

La maggior parte degli studi successivi presi in considerazione da Suk rafforza l’ipotesi sostenuta nel primo, registrando più frequenti stati di angoscia nelle persone destinatarie di trigger warning che nelle altre. Un ampio studio pubblicato nel 2020 dagli stessi ricercatori di Harvard – Benjamin Bellet, Payton Jones e Richard McNally – sulla rivista Clinical Psychological Science ha inoltre scoperto che i preavvisi riguardo alla presenza di contenuti potenzialmente traumatizzanti possono rafforzare nelle persone con traumi pregressi la convinzione che il trauma vissuto sia centrale – anziché incidentale o periferico – nella definizione della loro identità.

I risultati di quest’ultimo studio, in particolare, sono ritenuti preoccupanti nella misura in cui la convinzione della centralità di un trauma nel proprio vissuto – secondo una relazione che i ricercatori definiscono molto ben documentata nella letteratura scientifica – precede la diagnosi di un PTSD ancora più grave. L’effetto perverso dei trigger warning sarebbe in questo caso quello di procurare un danno alle persone traumatizzate, anziché proteggerle.

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Gli studi esistenti attestano inoltre la scarsa capacità generale dei trigger warning di distogliere le persone dal proseguire nella lettura o nella visione del contenuto potenzialmente traumatizzante (detto che non è quello l’obiettivo dei trigger warning, secondo la maggior parte dei sostenitori). Una capacità opposta, ossia quella di indurre le persone emotivamente più fragili a interrompere la fruizione del contenuto, sarebbe ad ogni modo considerata controproducente o quantomeno problematica sul piano clinico in caso di persone con PTSD. Esiste infatti un certo consenso scientifico riguardo al fatto che evitare gli stimoli disturbanti possa aggravare il PTSD e che l’esposizione a ricordi traumatici e l’elaborazione di quei ricordi possano invece contribuire a determinare una progressiva riduzione dei sintomi.

«Gli insegnanti non dovrebbero impegnarsi a curare i loro studenti, e nemmeno dovrebbero agire in modi che sono noti per essere contro-terapeutici se possono evitarlo», ha scritto Suk. La mancanza di prove a sostegno dell’utilità dei trigger warning, peraltro abbinata alla presenza di alcune prove della loro dannosità, dovrebbe quindi invitare a non utilizzarli, secondo i ricercatori. «Da un punto di vista clinico, non dovresti mai fare nulla che non funzioni, punto. Anche se è una cosa che non fa male. Se non aiuta attivamente, incoraggiarne l’uso significherebbe essenzialmente promuovere la pseudoscienza clinica», ha scritto Jones, uno degli autori degli studi di riferimento.

Suk si è chiesta infine quali siano allora le ragioni che inducono molte persone a sentire la necessità di utilizzare i trigger warning, e ipotizza che questi preavvisi abbiano sviluppato un significato culturale derivato che si discosta dall’obiettivo di fornire un aiuto psicologico alle persone traumatizzate. Potrebbero essere diventati una sorta di segnale indirizzato a un sottogruppo di persone, per far capire loro che l’insegnante – o l’autore o il promotore del contenuto, in altri contesti – è sensibile rispetto alle loro preoccupazioni, a prescindere dal beneficio o dal danno psicologico che questi segnali possono arrecare.

«La scelta di inviare un tale segnale rientra ovviamente nella libertà accademica di un insegnante. Ma è importante assumersene la responsabilità con la consapevolezza che segnalare compassione per gli studenti e i sopravvissuti a un trauma in questo modo particolare potrebbe essere in conflitto con il proposito di aiutare quelle persone, sia psicologicamente che pedagogicamente», conclude Suk, suggerendo in generale un approccio «più neutrale e umile» e un metodo di insegnamento «che tenti prima di tutto di non nuocere».