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  • Venerdì 1 settembre 2023

Il modello cinese è arrivato alla fine?

Le grosse difficoltà dell'economia dell'ultimo anno sono molto più profonde di quello che sembra, e per la Cina potrebbe arrivare un momento complicato

di Eugenio Cau

(AP Photo/Ng Han Guan)
(AP Photo/Ng Han Guan)
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Da alcuni mesi si è sviluppato un ampio dibattito tra economisti ed esperti attorno alle grosse difficoltà che l’economia cinese sta affrontando dall’inizio dell’anno. Il dibattito coinvolge decine di esperti, ma semplificando molto può essere riassunto in una domanda: la recente crisi dell’economia cinese è una delle tante turbolenze passeggere oppure è il sintomo di una crisi più grande e strutturale, capace perfino di mettere in discussione il modello di crescita economica che ha consentito alla Cina di diventare la seconda economia del mondo?

Dall’inizio dell’anno in Cina la crescita del PIL è stata molto inferiore alle attese: nel secondo trimestre è cresciuto del 3,2 per cento su base annuale (gli Stati Uniti, secondo alcune stime, potrebbero crescere del 6 per cento); i prezzi delle abitazioni sono in calo, cosa che non è mai un buon segno per l’economia, così come gli investimenti delle imprese. La disoccupazione giovanile sta salendo, al punto tale che il governo ha smesso di pubblicare le statistiche al riguardo. Il paese è perfino entrato in deflazione, cioè quella condizione in cui i prezzi scendono perché l’attività economica è poco dinamica.

La crisi ha ovvie ripercussioni economiche. La Cina è la seconda economia mondiale e quello che succede nel paese ha enormi conseguenze anche nel resto del mondo. In parallelo al dibattito economico, inoltre, si è sviluppato un dibattito più ampio e politico che riguarda la natura di questa crisi. Alcuni economisti occidentali hanno cominciato a chiedersi se a essere davvero in crisi sia in realtà il modello di sviluppo che la Cina ha adottato negli ultimi trent’anni, basato sullo sviluppo immobiliare e sulle infrastrutture: in questo caso, per continuare a crescere come il paese ha fatto finora non saranno più sufficienti aggiustamenti transitori, ma potrebbero diventare necessarie riforme strutturali potenzialmente molto dolorose, dal punto di vista economico, sociale e forse perfino politico.

(AP Photo/Andy Wong)

Com’è cresciuta la Cina finora
Semplificando, possiamo dire che il “miracolo cinese” degli ultimi trent’anni si è basato principalmente su due settori: lo sviluppo immobiliare e le infrastrutture. Il grosso dell’aumento del PIL, il grosso della ricchezza generata per le famiglie, il grosso dei posti di lavoro sono dipesi dalla costruzione di centinaia di milioni di nuove abitazioni ed edifici (immobiliare) e di linee ferroviarie ad alta velocità, ponti, autostrade, aeroporti, dighe e così via (infrastrutture).

Questa strategia di sviluppo si legge piuttosto bene dai dati: tra il 2008 e il 2021, in media, il 44 per cento del PIL cinese è stato generato da investimenti interni in infrastrutture, immobiliare e nella creazione di nuove industrie: negli anni di maggiore crescita economica, questa cifra era arrivata a sfiorare il 60 per cento. Al contrario, gli investimenti negli Stati Uniti hanno interessato nello stesso periodo circa il 20 per cento del PIL, meno della metà.

Basare la propria economia sugli investimenti significa che lo stato, le amministrazioni locali e le imprese private usano enormi quantità di denaro per finanziare progetti infrastrutturali, immobiliari o industriali. Questa strategia ha vantaggi ovvi: consente di creare moltissimi posti di lavoro, che a loro volta generano ricchezza per le famiglie.

Un’economia basata in gran parte sugli investimenti è un’economia che ha bisogno di mobilitare enormi quantità di credito, cioè di denaro da investire. Per farlo, la Cina ha adottato una strategia di “repressione finanziaria”, cioè un sistema in cui, grazie a tassi molto bassi, è eccezionalmente vantaggioso per lo stato e per le imprese prendere in prestito denaro dalle banche. In Cina, peraltro, gran parte delle banche è di proprietà pubblica o ha legami con lo stato, e negli ultimi decenni è sempre stato lo stato che, in maniere più o meno informali, indicava i settori verso cui le banche dovevano indirizzare il credito, e dunque i settori in cui bisognava investire.

Questo modello di sviluppo basato sugli investimenti diretti dallo stato è piuttosto comune in molti paesi in via di sviluppo, ma pochi sono riusciti ad attuarlo con l’efficacia della Cina: negli ultimi trent’anni il paese ha goduto di uno dei periodi di crescita sostenuta più eccezionali della storia mondiale, ha tirato fuori dalla povertà centinaia di milioni di persone (la condizione di povertà più grave è stata completamente eradicata) ed è diventato una delle principali potenze mondiali, sia in ambito economico sia politico.

È piuttosto complicato fare paragoni con altri paesi e con altri momenti storici, ma la maggior parte degli economisti concorda sul fatto che, alla lunga, un modello di sviluppo economico basato sugli investimenti rischia di diventare insostenibile. Nelle economie mature e nei paesi più sviluppati, come già detto, gli investimenti sono meno della metà di quelli della Cina (44 per cento in Cina contro 20 per cento negli Stati Uniti), e il grosso del PIL è generato invece dai consumi interni: negli Stati Uniti il 68 per cento del PIL è generato dai consumi (cioè dai cittadini che comprano beni e servizi) mentre in Cina è appena il 38 per cento.

Quello che sta succedendo ormai da qualche anno in Cina, sostengono molti economisti, è che il modello basato sugli investimenti si sta facendo via via più insostenibile perché in Cina stanno finendo le cose da costruire. O meglio: stanno finendo le cose da costruire che siano un investimento produttivo. Dopo tre decenni passati a stimolare l’economia costruendo complessi residenziali, linee ferroviarie e aeroporti, ormai sono finiti gli edifici e le infrastrutture che è conveniente costruire, cioè che dopo essere stati costruiti ripagano dell’investimento perché gli appartamenti vengono venduti e gli aeroporti generano benefici per l’economia.

(AP Photo/Andy Wong)

Al contrario, ormai la Cina ha costruito così tanto che gli investimenti producono “rendimenti decrescenti”: costruire costa sempre di più e il valore economico che si ottiene dalle costruzioni realizzate è sempre di meno.

Come ha mostrato l’analista Michael Pettis, il momento in cui gli investimenti in Cina hanno cominciato gradualmente a passare da produttivi a sempre più improduttivi è stato tra il 2006 e il 2008, quando anche il rapporto tra debito e PIL cinese ha cominciato a salire.

È in questo modo che le grandi compagnie di sviluppo immobiliare come Evergrande e Country Garden hanno accumulato miliardi e miliardi di debiti: hanno preso in prestito dalle banche soldi per costruire complessi residenziali ma poi, poiché in Cina i complessi residenziali già costruiti erano troppi, non li hanno venduti. Le compagnie non sono riuscite a rientrare delle spese, e il prestito ottenuto inizialmente si è trasformato in un debito.

L’aumento del debito ha riguardato tutta l’economia cinese, che negli ultimi anni ha continuato a cercare di alimentare la crescita con investimenti sempre più improduttivi. Oggi il debito complessivo della Cina (il debito pubblico, delle imprese, dei privati) ammonta a circa il 270 per cento del PIL. È una cifra paragonabile al debito delle economie mature come gli Stati Uniti, ma con differenze cruciali: il debito della Cina sta crescendo più rapidamente ed è meno sostenibile per un paese in via di sviluppo in cui il PIL pro capite è ancora di 12 mila dollari (contro i 76 mila degli Stati Uniti).

(AP Photo/Andy Wong)

La transizione
Praticamente tutti gli economisti sono concordi nel dire che se la Cina vuole mantenere alti tassi di crescita deve fare rapidamente una transizione da un’economia basata sugli investimenti a un’economia basata sui consumi interni, come quelle dei paesi sviluppati.

Questo lo sanno molto bene anche i dirigenti del Partito Comunista cinese, e lo sanno da anni: già nel 2007 l’allora premier cinese Wen Jiabao sosteneva che aumentare i consumi interni era una delle massime priorità dello stato. Da allora gli economisti che si occupano di Cina parlano periodicamente della necessità di “ribilanciare l’economia” verso una maggiore importanza dei consumi interni. Lo stato cinese ha avviato innumerevoli iniziative in questo senso, che però non hanno dato i risultati sperati.

Il problema è che una transizione del genere rischia di essere estremamente dolorosa: i paesi che nella storia avevano adottato modelli di sviluppo basati sugli investimenti e che sono riusciti a trasformarsi in economie mature sono pochissimi, e nessuno aveva le dimensioni e le complessità della Cina.

(AP Photo/Andy Wong)

Perché proprio adesso
Questi problemi strutturali dell’economia cinese sono ben noti da anni, ma sembrano essersi enormemente aggravati soltanto negli scorsi mesi. Ci sono alcune ragioni. Anzitutto la strategia zero Covid messa in atto dal governo fino all’anno scorso, unita a una situazione complicata sul mercato del lavoro soprattutto giovanile, ha provocato una grave crisi di fiducia tra la popolazione. Intere generazioni che per 30-40 anni erano state abituate ad avere fiducia nel futuro e si erano convinte che la traiettoria della Cina e delle loro vite fosse in costante ascesa si sono trovate in una situazione di precarietà improvvisa, che ha portato i consumatori a spendere meno e a risparmiare di più, aggravando il problema dei consumi interni.

A questo si è aggiunto lo scoppio della bolla immobiliare, con grosse aziende come Evergrande e Country Garden che sono fallite o sono andate molto vicine al fallimento. Lo scoppio della bolla è stato parzialmente facilitato dal governo, che negli ultimi tempi, sapendo che la situazione era critica, ha reso più difficile per le aziende di sviluppo immobiliare accedere al credito per continuare a finanziarsi.

Probabilmente lo stato cinese pensava di far scoppiare la bolla in un contesto di crescita sostenuta e sospinta dalla ripresa delle riaperture post pandemia. Al contrario, è successo in un momento di depressione per l’economia, e questo ha contribuito a far precipitare le cose.

Una questione politica
A rendere più complicato e grave il problema c’è il fatto che per il Partito Comunista cinese la crescita economica e la sostenibilità dell’economia non sono l’unica priorità. Una priorità altrettanto importante, se non di più, è quella di mantenere la “pace sociale” e rimanere saldo al potere.

Queste due preoccupazioni sono legate. Negli oltre trent’anni trascorsi dal massacro di piazza Tiananmen, in cui il regime cinese uccise centinaia di persone che protestavano per la democrazia, in Cina si è sviluppato un patto sociale tra lo stato e i cittadini che può essere riassunto così: noi vi renderemo ricchi ma voi non occupatevi di politica. Se la crescita rallenta, lo stato viene meno alla sua parte dell’accordo, e questo sta già portando a un’insoddisfazione crescente.

Per questo nel corso dei decenni, anche quando era ormai piuttosto chiaro che l’andamento dello sviluppo cinese era poco sostenibile, tutte le volte che l’economia rallentava lo stato cinese ha sempre finito per usare la stessa vecchia ricetta: stimolare l’economia indirizzando enormi quantità di denaro nei settori che garantiscono una crescita rapida e immediata, come le infrastrutture e l’immobiliare.

Il fatto è che per la Cina la crescita economica è sempre stata un’esigenza anche politica. Da decenni, ogni anno lo stato cinese fissa gli obiettivi di crescita per l’anno successivo (quest’anno è tra il 5 e il 6 per cento), e una volta fissato l’obiettivo raggiungerlo diventa un imperativo per tutto il sistema politico.

Alla lunga questo ha creato situazioni insostenibili come mostra il settore immobiliare, quello che si trova maggiormente in crisi. Vale il 20 per cento del PIL cinese, ma in Cina ci sono almeno 130 milioni di appartamenti costruiti e mai abitati (gli ultimi dati risalgono al 2018, poi il governo ha smesso di diffonderli), appunto perché le aziende edili, grazie agli stimoli economici del governo, hanno continuato a costruire a debito anche quando non era più conveniente e quando la domanda di nuovi edifici era ormai crollata.

(AP Photo/Mark Schiefelbein)

La fine del “miracolo”?
Buona parte del dibattito che si è sviluppato in questi mesi tra gli analisti e gli esperti riguarda dunque quanto sia profonda la crisi cinese, e in che modo (e a quale prezzo) la Cina potrà uscirne.

Alcuni economisti occidentali si sono concentrati soprattutto sull’aspetto politico: sostengono che l’attuale crisi della Cina fosse inevitabile e che sia inesorabilmente destinata a peggiorare, perché per il regime autoritario cinese la preoccupazione di mantenere la stabilità sociale e di rimanere saldo al potere, oltre che la volontà di rendere la Cina un paese sempre più rispettato e aggressivo all’estero, ormai sopravanza la preoccupazione di riformare l’economia. Sulla rivista statunitense Foreign Affairs Adam Posen, che è il presidente del centro studi Peterson Institute, ha scritto un lungo articolo intitolato “La fine del miracolo economico cinese”, in cui spiega che la Cina starebbe seguendo la strada già percorsa da molti regimi autocratici.

«Dopo aver sfidato le aspettative per decenni, la politica economica della Cina sotto Xi [Jinping] è infine rientrata in un percorso tipico dei regimi autocratici» in cui «gli autocrati cominciano via via a ignorare le preoccupazioni commerciali e perseguono politiche sempre più interventiste che soddisfino i loro obiettivi immediati». In questo modo la fiducia della popolazione diminuisce: sembra esattamente quello che sta succedendo in Cina, dove la fiducia nell’economia è ai minimi storici da decenni. «Una volta che un regime autocratico ha perso la fiducia delle famiglie e delle imprese, è difficile recuperarla», ha scritto Posen.

Altri esperti sono meno fatalisti e hanno una visione più legata ai fattori economici, ma sostengono comunque che la Cina, per superare i suoi problemi economici strutturali, dovrà sostenere un periodo prolungato di forte rallentamento della sua economia. Secondo Michael Pettis, che è anche professore statunitense della Peking University di Pechino e membro del centro studi Carnegie Endowment for International Peace, durante il complicato periodo di ribilanciamento dell’economia verso un modello di crescita più sostenibile la Cina dovrà accontentarsi di tassi di crescita inferiori al 2–3 per cento all’anno. Il problema è che una Cina che non cresce più secondo le aspettative potrebbe provocare una rottura del patto sociale che ha mantenuto il paese stabile finora.

Inoltre, sostiene Pettis, se anche la dirigenza del Partito Comunista sarà disposta a rischiare la stabilità per fare le riforme, potrebbe trovare ostacoli enormi: dopo decenni ormai tutto il sistema – politico, finanziario, industriale – è ormai assuefatto al regime degli alti investimenti infruttuosi, e lo stato cinese dovrà affrontare enormi interessi decisi a mantenere le cose così come sono, anche al suo interno.

Altri economisti – questa volta non occidentali, ma soprattutto all’interno della Cina –sostengono che se lo stato facesse di più per stimolare la domanda interna il grosso della crisi potrebbe essere evitato. Lo stato, sostengono, dovrebbe smettere di indirizzare il credito verso il settore immobiliare e le infrastrutture e mettere più soldi nelle mani dei cittadini, che in questo modo potrebbero consumare di più e sostenere l’economia. Lo stato dovrebbe inoltre adottare misure di welfare simili a quelle dei paesi occidentali per creare un sistema sociale in cui la popolazione è sicura e, ancora una volta, ha le garanzie e la tranquillità necessarie per spendere i propri soldi. Benché sia formalmente uno stato comunista, in Cina il welfare protegge i cittadini molto meno di quanto non avvenga per esempio in Europa occidentale.

Il problema però è che il regime cinese, soprattutto il presidente Xi Jinping, è fortemente contrario ad adottare nuove politiche di welfare. In più di un’occasione Xi ha detto che la Cina non intende creare un “welfare state” in stile occidentale. Alcuni funzionari cinesi vicini a Xi Jinping hanno detto al Wall Street Journal che «i sostegni sociali in stile occidentale incoraggerebbero soltanto le persone a essere più pigre».

Soprattutto quando si parla di giovani disoccupati, Xi pensa invece che «l’austerità porti prosperità», scrive sempre il Wall Street Journal, e che i giovani dovrebbero sopportare con più vigore le difficoltà economiche, esattamente come fece lui alla loro età (Xi crebbe durante la Rivoluzione culturale e per un periodo fu costretto a vivere in un villaggio di campagna tra grossi disagi). I media cinesi, seguendo le indicazioni del Partito Comunista, hanno perfino cominciato a diffondere un termine denigratorio per descrivere le politiche dei paesi europei che sarebbero troppo generose nei confronti dei loro cittadini: «welfarismo occidentale».

Per questo alcuni analisti, tra cui l’esperto di Cina Bill Bishop, temono che Xi sia convinto che i cittadini cinesi debbano abituarsi a «masticare le ossa dure», cioè che debbano imparare ad accontentarsi anche in periodi di scarsità.

Secondo la maggior parte degli economisti, però, se la Cina non interverrà rapidamente sull’economia aumenta il rischio che la deflazione e il rallentamento della crescita diventino più gravi.

L’oceano e lo stagno
Benché questa crisi sia ritenuta strutturale da molti economisti, e dunque piuttosto grave, nessuno al momento pensa davvero che l’economia cinese possa crollare. Benché sia in difficoltà, l’economia cinese è enorme, continua a crescere a ritmi sostenuti (almeno per ora) e ha un ruolo insostituibile in molti settori industriali importantissimi per tutto il mondo.

In un celebre discorso del 2018 Xi Jinping ricordò che «l’economia cinese non è uno stagno, ma un oceano. L’oceano può avere giornate di calma, ma i venti forti e le tempeste sono normali… I venti e le tempeste possono sconquassare uno stagno, ma non l’oceano». Crisi o non crisi, diceva Xi nel 2018, la Cina continuerà a essere uno dei paesi più importanti e influenti del mondo ancora per lungo tempo.

Anche per questo i rischi di questa crisi potrebbero essere soprattutto politici: se le difficoltà dell’economia diventassero gravi al punto da far peggiorare in maniera consistente lo stile di vita di un gran numero di persone, allora la stabilità sociale potrebbe essere compromessa.

Tag: cina