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  • Domenica 15 gennaio 2023

L’operazione Belva e l’arresto di Totò Riina, trent’anni fa

Il capo dei corleonesi venne preso a Palermo il 15 gennaio 1993: quello che successe subito dopo è ancora oggi da spiegare

Totò Riina durante un processo nel 1996 (ANSA/MIKE PALAZZOTTO)
Totò Riina durante un processo nel 1996 (ANSA/MIKE PALAZZOTTO)
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Salvatore Riina venne arrestato il 15 gennaio 1993 a Palermo, in viale della Regione Siciliana all’altezza del Motel Agip. Un verbale annotò che erano le 8:55 del mattino, un ufficiale dei carabinieri disse che erano le 9:01. Riina, conosciuto da tutti come Totò, chiamato anche Totò u curtu per la sua bassa statura, o zù Totò, era l’uomo più ricercato d’Italia. Capo della famiglia mafiosa dei corleonesi, che a sua volta comandava su tutta la mafia palermitana, era l’uomo che aveva ordinato gli omicidi di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Fu condannato però anche per aver deciso decine di altri omicidi: tra questi quelli del generale Carlo Alberto dalla Chiesa, del capo della squadra mobile di Palermo Boris Giuliano, del commissario Ninni Cassarà, del presidente della Regione Sicilia Piersanti Mattarella, del senatore comunista Pio La Torre.

L’operazione che condusse al suo arresto era stata denominata “Operazione Belva”. Riina venne arrestato a meno di cinque chilometri dalla casa dove aveva vissuto molti anni da latitante con la moglie Ninetta Bagarella e dove erano cresciuti i suoi quattro figli, Maria Concetta, Giovanni, Giuseppe Salvatore e Lucia, tutti vissuti in clandestinità e nati nella stessa clinica di Palermo, la Noto Pasqualino.

Dell’arresto di Riina ci fu una versione ufficiale. In trent’anni, però, sono stati sollevati molti dubbi sulle modalità con cui si arrivò a quell’arresto e su cosa avvenne nelle ore successive. 

Ninetta Bagarella, moglie di Totò Riina (ANSA / MICHELE NACCARI/STUDIO CAMERA / PAL)

Riina era nato a Corleone, a 50 chilometri da Palermo, il 16 novembre 1930. A 19 anni finì in carcere per aver ucciso un suo coetaneo. Tornò libero nel 1956. Allora era già affiliato alla cosca mafiosa di Corleone – una cosca, chiamata anche famiglia, è un nucleo di mafiosi uniti da legami di sangue o anche solo di provenienza territoriale, dello stesso paese o della stessa zona della città – ed era molto legato a Luciano Leggio (noto anche come Liggio) che, a metà degli anni Sessanta, divenne il capo del gruppo mafioso. Nella mafia, Riina fece velocemente carriera. Il 10 dicembre 1969 fu tra gli esecutori della strage di viale Lazio, a Palermo, in cui vennero uccisi il boss rivale dei corleonesi, Michele Cavataio, e altre quattro persone. Da quel giorno divenne latitante.

Nel 1974, dopo l’arresto di Leggio, divenne reggente della cosca corleonese ed entrò a far parte della cosiddetta Commissione, il gruppo dirigente della mafia palermitana che riuniva rappresentanti di tutte le cosche. La sua strategia, come capo dei corleonesi, fu quella di assumere il comando diretto di tutta la mafia palermitana eliminando coloro che all’interno della Commissione si opponevano. Tra aprile e maggio del 1981, Riina fece uccidere due importanti boss palermitani, Stefano Bontade e Salvatore Inzerillo.

Iniziò così la seconda guerra di mafia (la prima era stata combattuta tra le cosche nella prima metà degli anni Sessanta). I corleonesi uccisero circa 200 avversari legati ai clan Bontade-Inzerillo-Badalamenti. La guerra si concluse nel 1983 con la vittoria di Riina che ricompose la Commissione con capiclan che gli erano fedeli.

Da capo dei corleonesi, assieme a Leoluca Bagarella e Bernardo Provenzano, guidò la mafia palermitana negli anni più sanguinosi. Riina eliminò progressivamente tutti i rivali all’interno di Cosa Nostra, come viene chiamata la mafia siciliana, e colpì con estrema violenza e ferocia gli uomini delle istituzioni che tentavano di fermarlo. Fece assassinare poliziotti, carabinieri, magistrati, politici. Nel 1992, con le condanne del cosiddetto “maxiprocesso”, considerandosi tradito dai suoi referenti politici, decise l’omicidio dell’importante politico democristiano Salvo Lima, che avvenne il 12 marzo 1992. Meno di tre mesi dopo venne ucciso, su suo ordine, il giudice Giovanni Falcone, uno dei più esposti nella lotta alla mafia.

In tutti gli anni della sua latitanza, Totò Riina non si spostò mai da Palermo: prima dell’arresto, da alcuni anni abitava in una villetta all’interno di un complesso residenziale in via Bernini 54, nel quartiere palermitano dell’Uditore.

A condurre i carabinieri fino a Totò Riina fu Baldassare Di Maggio, detto Balduccio, mafioso di San Giuseppe Jato, comune in provincia di Palermo. Era stato autista di Riina ed era in pessimi rapporti con l’uomo che aveva eseguito materialmente l’attentato al giudice Falcone, Giovanni Brusca. Balduccio Di Maggio venne arrestato in Piemonte, a Borgomanero, in provincia di Novara, l’8 gennaio 1993. I carabinieri dissero di aver ricevuto una soffiata su un traffico di stupefacenti all’interno di un garage della cittadina. In quel garage, i carabinieri non trovarono né droga né altre persone ma solo Di Maggio, con una pistola scarica. Una volta portato in caserma, Di Maggio chiese di parlare con il generale dei carabinieri Francesco Delfino, che l’aveva già arrestato anni prima. Di Maggio disse a Delfino che poteva fornire informazioni utili all’arresto di Totò Riina.

Di Maggio venne portato a Palermo, e l’operazione fu affidata al generale Mario Mori e al capitano Sergio De Caprio, meglio conosciuto come “Ultimo”. Allora De Caprio dirigeva l’unità CrimOr (Criminalità Organizzata) del Ros, Raggruppamento operativo speciale dei carabinieri. Di Maggio indicò la zona dove sapeva essere stato l’ultimo rifugio di Riina, disegnò una mappa approssimativa, fece i nomi degli uomini che erano più vicini al boss. L’attenzione degli investigatori si concentrò su un complesso di abitazioni in via Bernini, dove abitavano i Sansone, costruttori e mafiosi vicini ai corleonesi. Venne posto nella via un furgone con telecamera, quindi i video vennero mostrati a Di Maggio che riconobbe uno dei figli di Riina mentre usciva dal complesso in compagnia di una guardia del corpo.

Intanto era stato avvertito Gian Carlo Caselli, che proprio il 15 gennaio si sarebbe insediato come nuovo procuratore della Repubblica a Palermo.

Alle otto di mattina del 15 gennaio, Di Maggio venne portato a bordo del furgone davanti alla casa di via Bernini 54. Quando dal cancello uscì una Citroen ZX, Di Maggio riconobbe l’uomo che era alla guida, e cioè Salvatore Biondino, e si disse quasi certo che al suo fianco, seduto sul sedile del passeggero, ci fosse Riina. I carabinieri guidati dal capitano Ultimo fermarono l’auto e immobilizzarono Biondino: non ci fu nessuna resistenza. Riina fu portato in caserma.

Sergio De Caprio (ANSA/MASSIMO PERCOSSI)

Quello che accadde dopo fu piuttosto incredibile. Dalla procura di Palermo partì il sostituto procuratore di turno, Luigi Patronaggio, che accompagnato da ufficiali dei carabinieri non appartenenti al Ros aveva il compito di guidare la perquisizione dell’appartamento di Riina. Patronaggio fu fermato dal capitano Ultimo, che gli chiese di tornare nell’ufficio di Gian Carlo Caselli, che nel frattempo era arrivato a Palermo. Qui a Patronaggio, e allo stesso Caselli, venne spiegato che era meglio non intervenire e continuare a sorvegliare quel luogo nella speranza che arrivassero uomini legati a Riina e che potessero così essere individuati e arrestati. Non si capisce però come questo sarebbe stato possibile, visto che già alle 11:25 di quella mattina l’Ansa diede la notizia dell’arresto.

Dalle 16 del pomeriggio del 15 gennaio 1993 la casa di Totò Riina non venne più sorvegliata. Il giorno dopo, il 16 gennaio, Ninetta Bagarella e i quattro figli, dopo anni, tornarono a Corleone.

L’appartamento di Totò Riina venne perquisito solo il 3 febbraio 1993, quando nella casa entrarono i carabinieri del Reparto Territoriale. La cassaforte della casa era vuota così come era vuota una stanza a cui si accedeva da una botola. I mobili erano stati accatastati. Nell’appartamento non c’era più nulla. Il procuratore Caselli, convinto che l’abitazione fosse sempre rimasta sotto stretta sorveglianza, si infuriò e chiese spiegazioni. Il generale Mori parlò di un disguido. Giovanni Brusca, divenuto pentito, disse poi che a portare via tutto dall’appartamento furono materialmente i Sansone. Disse Brusca:

«Facemmo scomparire ogni cosa, furono anche divelti i pavimenti ed abbattute pareti, utilizzammo anche un aspirapolvere per evitare che i carabinieri potessero trovare anche qualche capello e risalire all’identità di chi frequentava quella casa». 

Su che cosa ci fosse in quella casa sono state fatte nel tempo molte ipotesi, ma non c’è mai stata nessuna certezza. I collaboratori di giustizia parlarono di un archivio di Riina, che però nessuno confermò di aver mai effettivamente visto. Brusca disse che le cose importanti vennero bruciate dalla moglie di Riina, Ninetta Bagarella, su disposizione del marito. Altri sostengono che l’archivio di Riina esista tuttora e sia nelle mani di Matteo Messina Denaro, l’attuale capo della mafia siciliana.

Nelle motivazioni della sentenza di assoluzione del processo di secondo grado per la presunta trattativa Stato-mafia, i giudici scrissero:

Per quanto concerne la mancata perquisizione del covo di Riina — evento assolutamente unico nella storia giudiziaria degli arresti di latitanti, e di latitanti mafiosi, per i quali la perquisizione immediata dei luoghi in cui vivono è fondamentale non fosse altro per rinvenire elementi utili a individuare la rete di favoreggiatori — si è già visto come lo stesso Riina, che peraltro non era un qualsiasi latitante mafioso ma il capo di Cosa Nostra, a distanza di vent’anni non riesca a capacitarsene.

Sergio De Caprio e Mario Mori furono accusati di favoreggiamento per quella mancata perquisizione, ma vennero poi assolti perché il fatto non costituisce reato. De Caprio disse al processo: 

«Io non specificai se l’attività di osservazione sul complesso di via Bernini sarebbe o meno proseguita nei giorni successivi… Io non volevo fare sorveglianza… Quella lì era la casa di Riina. Per me, forse ho sbagliato le valutazioni, rimane la casa, l’abitazione del sangue di Riina, non la base logistica della latitanza di Riina. Per me non aveva valore investigativo come non lo ha oggi l’abitazione di Provenzano a Corleone dove ha la moglie e i figli».

In trent’anni non si è mai arrivati a una spiegazione convincente su cosa avvenne in quei giorni, sul perché la sorveglianza all’abitazione venne tolta e su chi lo ordinò. La procura sosteneva che la responsabilità andava cercata all’interno del Ros dei carabinieri mentre Sergio De Caprio sostenne che a coordinare l’operazione era la procura di Palermo e quindi era sua la responsabilità delle decisioni.

Totò Riina (archivio Ansa)

Restano anche dubbi su cosa portò realmente alla cattura del capo dei corleonesi. La versione ufficiale è stata messa spesso in dubbio. Secondo una versione mai provata fu l’altro capo dei corleonesi, Bernardo Provenzano, poi arrestato l’11 aprile 2006, a consegnare Riina ai carabinieri perché non era più d’accordo sulla sua strategia di attacco allo Stato. Non è mai stata mostrata nessuna immagine dell’arresto di Riina del 15 gennaio 1993.

Riina ha trascorso tutti gli anni di carcere sottoposto al regime di 41-bis. È morto nel reparto detenuti dell’ospedale Maggiore di Parma il 17 novembre 2017, il giorno dopo il compimento del suo 87esimo compleanno. È sepolto nel cimitero di Corleone.