C’è un ritorno di fascinazione per il cannibalismo

Diversi film, libri e serie tv recenti riprendono da nuove prospettive un tema mai andato del tutto fuori moda

fresh cannibalismo
Una scena del film del 2022 “Fresh”
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Nel 2003 l’American Film Institute, l’organizzazione indipendente che si occupa di storia del cinema e della televisione negli Stati Uniti, condusse un sondaggio tra 1.500 addetti ai lavori per compilare una lista dei più memorabili «cattivi» della storia del cinema. Il primo della lista fu Hannibal Lecter, uno dei personaggi cannibali più famosi di sempre, protagonista di vari film tratti dai libri di Thomas Harris e soprattutto del Silenzio degli innocenti del 1991, interpretato da Anthony Hopkins.

Da qualche anno, e in particolare durante e dopo la pandemia, il cannibalismo è tornato a essere un tema molto presente in libri, film e serie tv di discreto successo. Il New York Times ne ha scritto in un articolo in cui ha citato diversi esempi. Parlando con autori e autrici, ha inoltre cercato di interpretare la recente crescita di interesse per un argomento che non ha comunque mai del tutto smesso di esercitare un potente fascino letterario, e che oggi viene declinato in relazione a temi di attualità e da prospettive in parte nuove e in parte no.

Un esempio molto citato è il thriller statunitense Fresh, uscito a gennaio scorso e primo film della regista di video musicali Mimi Cave. Parla di una storia d’amore tra una ragazza e un ragazzo da lei conosciuto per caso in un supermercato, nel reparto della frutta e della verdura. Come ha scritto il giornalista inglese Benjamin Lee sul Guardian, il tema centrale del film si intreccia con quello dei social, delle app di appuntamenti al buio, del corpo delle donne e della mascolinità violenta, in modi che possono essere a volte «difficili da digerire» e altre volte «disgustosamente grotteschi».

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Nel libro Cadáver exquisito, uscito nel 2017 in lingua spagnola e vincitore di uno dei più prestigiosi concorsi letterari dell’America Latina (il Premio Clarín de Novela), la scrittrice argentina Agustina Bazterrica immagina una società futura in cui gli esseri umani sono allevati come bestiame. In modo indiretto riprende quindi uno dei temi più discussi della contemporaneità, sia in relazione alla questione dei diritti degli animali sia in relazione all’impatto ambientale delle abitudini alimentari.

La protagonista del film del 2016 Raw, della regista francese Julia Ducournau, è un’irremovibile vegetariana iscritta al primo anno di veterinaria di un’università in Belgio. Costretta a mangiare carne cruda per un rito di iniziazione delle matricole gestito dagli studenti dell’ultimo anno, la protagonista subisce una progressiva trasformazione che la porta a desiderare altra carne in modo incontrollato e aggressivo, e infine al cannibalismo. Per la violenza delle immagini, riferì Hollywood Reporter, un paio di spettatori svennero durante la proiezione del film al Toronto International Film Festival rendendo necessario l’intervento del personale sanitario.

Di cannibalismo si occupa anche il quarto e più recente romanzo della scrittrice americana di origini iraniane e croate Ottessa Moshfegh, i cui libri sono editi anche in Italia. Uscito a giugno negli Stati Uniti e intitolato Lapvona, racconta la storia di un villaggio di un feudo medievale colpito dalla peste e dalla siccità, «da una prospettiva clinicamente nichilista» e mostrando «immagini oltraggiose di cannibalismo medievale, stupro, deformità e incesto», ha scritto il Washington Post.

Moshfegh, che scrisse il libro nella primavera del 2020, in piena pandemia, ha detto al New York Times di aver lavorato «in un isolamento così completo da sentire un’incredibile libertà di andare ovunque venissi condotta». Il personaggio che a un certo punto mangia un altro essere umano, commettendo il più grave peccato possibile nel suo villaggio vegetariano, lo fa in un atto di «depravata disperazione», ha detto Moshfegh, che è a sua volta vegetariana.

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In tempi recenti si è parlato di cannibalismo anche a proposito del nuovo film del regista Luca Guadagnino Bones and All, interpretato da Timothée Chalamet e in concorso alla 79esima edizione della Mostra del cinema a Venezia. Adattamento del romanzo Fino all’osso della scrittrice statunitense Camille DeAngelis, il film racconta una storia d’amore con alcuni riferimenti al cannibalismo.

Del film di Guadagnino si era parlato anche in relazione all’ipotesi, circolata sui social, che la storia raccontata fosse un’allusione a una vicenda di accuse di presunte molestie attribuite all’attore statunitense Armie Hammer, e di false prove di un suo gusto per il cannibalismo. Guadagnino, che in passato aveva lavorato con Hammer e Chalamet per il film Chiamami col tuo nome, ha recentemente negato qualsiasi collegamento intenzionale tra la vicenda di Hammer e il nuovo film.

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Tra le altre produzioni con riferimenti al cannibalismo che hanno recentemente ottenuto molto successo c’è poi la serie tv Yellowjackets. Racconta di quattro ragazze di una squadra di calcio del liceo sopravvissute a un incidente aereo in Canada e rimaste bloccate nei boschi per mesi con le altre persone del volo. Per i successivi sviluppi della storia, in molti hanno individuato nella serie un riferimento alla storia vera dell’aereo del volo 571 che il 13 ottobre 1972 si schiantò sulla Cordigliera delle Ande mentre trasportava una squadra di rugby uruguaiana da Montevideo a Santiago del Cile. La storia dei sopravvissuti a quel disastro e di come riuscirono a far fronte alla carenza di cibo diventò in seguito oggetto di approfondimenti, documentari e libri, oltre che del film del 1993 Alive.

Secondo la scrittrice statunitense Chelsea G. Summers, pseudonimo dell’autrice del romanzo del 2019 A Certain Hunger, su una critica gastronomica serial killer e cannibale, oggi il tema del cannibalismo provoca meno repulsione che in passato. Tra il 2018 e il 2020, ha detto Summers, il suo romanzo fu respinto oltre venti volte dalle case editrici a cui lei si era rivolta, prima che Audible le facesse un’offerta per la pubblicazione come audiolibro e poi Unnamed Press un’offerta per la stampa. «Dio benedica Yellowjackets», ha detto Summers al New York Times alludendo agli effetti della serie sui gusti di un pubblico più vasto.

Ashley Lyle e Bart Nickerson, la coppia di Los Angeles che ha ideato, sceneggiato e prodotto la serie, hanno raccontato che la loro intenzione era di non legare il cannibalismo soltanto alla questione della sopravvivenza del gruppo disperso ma anche a una dimensione di ritualità. «Credo che siamo attratti dalle cose che ci respingono di più», ha detto Lyle, mentre Nickerson ritiene che esista una relazione tra la repulsione per queste cose e la paura che possano provocare una condizione di «estasi».

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Secondo lo zoologo americano Bill Schutt, autore del libro Cannibalism: A Perfectly Natural History, il fascino e l’interesse per il cannibalismo non è un dato sorprendente, considerato che «molte culture condividono la convinzione che consumare un altro essere umano sia il comportamento peggiore (o vicino al peggiore)» che si possa immaginare. È proprio questa, secondo Schutt, la ragione della curiosità che riescono a suscitare storie reali come quelle dei serial killer Jeffrey Dahmer, noto come «il cannibale di Milwaukee», o Andrei Chikatilo, «il mostro di Rostov».

La storia del cannibalismo è poi inevitabilmente condizionata dalla diffusa tendenza a romanzare le molte storie popolari relative a questa pratica, scrive Schutt, e da come questo tabù sia spesso stato utilizzato nei secoli più per spaventare le persone che per descrivere contesti reali.

La parola «cannibale» deriva dalla parola spagnola caníbal (o caríbal), dal nome spagnolo di un gruppo di abitanti delle isole delle Piccole Antille (Caribi) che dopo la scoperta dell’America acquisirono in Europa la fama di antropofagi, sebbene manchino prove concrete della diffusione di questa pratica. Cristoforo Colombo ottenne dalla regina spagnola Isabella di Castiglia, suggestionata dai racconti sui Caraibi, il permesso di catturare chiunque mangiasse carne umana. E ben presto, scrive Schutt, la parola «cannibale» cominciò a essere utilizzata per disumanizzare gli indigeni, finendo per essere attribuita a qualsiasi popolazione che opponesse resistenza alla conquista da parte dei colonizzatori.

Schutt, che al New York Times ha detto di non essere riuscito a finire Fresh («era quasi troppo ben fatto»), ha scritto che esistono prove di cannibalismo «di sopravvivenza» in varie culture ed epoche storiche, per lo più attestato in periodi di carestia, durante assedi o a causa degli effetti di disastri naturali. In questi casi, le persone mangiavano cadaveri di altre persone per non morire di fame. Ma il cannibalismo fu in alcune limitate circostanze anche una pratica «culturale» socialmente accettata e legata a circostanze ordinarie, sebbene sia molto difficile – anche a causa delle leggende risalenti all’epoca di Colombo – dire esattamente quanto fosse diffusa.

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È nota, scrive Schutt, una pratica di «cannibalismo medico» diffusa in Europa nel XV secolo e che prevedeva la macinazione di carne umana mummificata. Si riteneva che la polvere marrone ricavata in questo modo e utilizzata per ottenere bevande e unguenti potesse contrastare un’ampia varietà di patologie, tra cui la nausea, l’epilessia e le emorragie. Questa credenza, riportata nel XX secolo anche nel Merck Index, una storica enciclopedia delle sostanze farmacologiche, portò a un crescente trafugamento delle mummie dall’Egitto. E per soddisfare la domanda, racconta Schutt, furono a un certo punto utilizzati anche cadaveri trafugati dai cimiteri in Europa.

Secondo alcuni esperti di storia della Cina tra cui lo storico Key Ray Chong, citato da Schutt nel libro sul cannibalismo, esistono in Cina prove risalenti a circa 2 mila anni fa di «una pratica istituzionalizzata di consumo di alcune, non tutte, parti del corpo umano». Una forma diffusa, scrive Schutt, era il cannibalismo «filiale», a cui ricorrevano figli e figlie adulte che offrivano parti del proprio corpo ai genitori – parte di una coscia, per esempio, oppure un dito – nel tentativo estremo e disperato di curarli in caso di malattia.

Un’altra forma di cannibalismo noto è quello rituale che ebbe luogo fino agli anni Cinquanta presso i Fore, una popolazione indigena degli altopiani della Papua Nuova Guinea. In base a un rito funerario a cui prendevano parte prevalentemente le parenti donne, il corpo dei membri defunti della comunità veniva ingerito in modo da essere «incorporato nei corpi dei parenti vivi, contribuendo così a liberare lo spirito del defunto». Una malattia neurologica endemica tra i Fore, chiamata «kuru» e collegata agli effetti di questa pratica, in seguito abbandonata, ne ridusse drasticamente la popolazione tra gli anni Cinquanta e Sessanta.

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È infine molto nota e citata la storia di cannibalismo di sopravvivenza legato alla spedizione Donner, descritta da Schutt come «la peggiore spedizione di sempre». Partito dal Missouri verso la California nel 1846, in inverno un gruppo di pionieri americani rimase bloccato senza scorte di cibo sulla Sierra Nevada per una forte nevicata, dopo aver perso molti carri e capi di bestiame a causa di altre disavventure lungo il percorso. Soltanto 48 persone su 87 membri della spedizione riuscirono a sopravvivere e ad arrivare a Sacramento, dopo essersi nutriti dei corpi dei compagni morti per fame o per altre malattie.

Secondo Lyle, la co-creatrice di Yellowjackets, ad alimentare il desiderio di storie sul cannibalismo in tempi recenti hanno contribuito diversi fattori, tra cui la pandemia, il cambiamento climatico, le stragi nelle scuole americane e la politica. «Mi pare che l’impensabile sia diventato pensabile, e il cannibalismo rientra esattamente nella categoria dell’impensabile», ha detto.

Moshfegh, autrice del libro sul villaggio medievale, Lapvona, parlando con il New York Times ha descritto il cannibalismo come una forma di esorcizzazione di paure reali. E ha ipotizzato che l’interesse recente «potrebbe essere un antidoto al vero orrore di ciò che sta accadendo al pianeta».

Summers, autrice del libro sulla critica gastronomica con il gusto della carne umana maschile, A Certain Hunger, attribuisce invece al cannibalismo un valore prevalentemente simbolico. Ha detto di aver tratto lo spunto per il romanzo da una fantasia sul suo fidanzato: veniva investito accidentalmente da un’auto, e il suo fegato veniva in seguito asportato, cucinato e servito su una bruschetta. Secondo Summers, la trama del suo libro non può essere separata «dalle mie esperienze personali con i disturbi alimentari, con la repressione degli appetiti femminili, con il modo in cui i media masticano e sputano via autori e autrici».