Come convincere le persone a mangiare meno carne

Fa bene alla salute ed è più sostenibile per l'ambiente, ma imporre un cambiamento nelle abitudini alimentari funziona poco

In un supermercato di Chicago, il 10 giugno 2021 (Scott Olson/Getty Images)
In un supermercato di Chicago, il 10 giugno 2021 (Scott Olson/Getty Images)
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Nel video in cui a inizio luglio invitava gli spagnoli a mangiare meno carne, per ragioni di salute e di impatto ambientale, il ministro del Consumo Alberto Garzón aveva un tono pacato, citava dati e statistiche affidabili, e suggeriva cambiamenti di dieta moderati. In Spagna tuttavia il suo appello ha provocato reazioni molto critiche tra i politici e sulla stampa, anche con toni risentiti o derisori.

Non è sorprendente per chi non mangia la carne, o ne mangia molto poca, e si è trovato a spiegare ad altre persone le sue ragioni: il consumo di carne è un argomento su cui molti si scaldano per sostenere il proprio punto di vista. I piatti a base di carne, a partire da quelli che si mangiano in occasione di feste e ricorrenze, fanno parte del patrimonio culturale di famiglie e comunità. Inoltre per molti territori – spagnoli ma anche italiani – l’industria della carne è un settore economico rilevante. Infine i discorsi sulla carne spesso tirano in ballo questioni etiche sul modo in cui trattiamo gli animali e come li consideriamo: anche per questo possono suscitare sentimenti diversi. Per tutte queste ragioni non è facile convincere qualcuno a mangiare meno carne.

Secondo Jan Dutkiewicz, uno studioso di diritti degli animali dell’Università di Harvard, l’approccio di Garzón, per quanto ragionevole, non può funzionare. In un articolo su The New Republic Dutkiewicz ha spiegato perché e come invece si potrebbe cercare di cambiare le abitudini alimentari di chi mangia molta carne, in particolare in paesi come la Spagna e gli Stati Uniti, dove se ne mangia parecchia.

Ridurre il consumo di carne è uno dei comportamenti individuali più citati per contrastare a livello personale il cambiamento climatico. Secondo l’IPCC, il comitato sul cambiamento climatico dell’ONU, l’agricoltura, l’allevamento e la deforestazione producono il 24 per cento delle emissioni di gas serra derivanti dalle attività umane. I bovini emettono grandi quantità di metano con rutti e flatulenze e tutti gli animali d’allevamento producono protossido di azoto con i loro escrementi. Inoltre l’ampliamento delle coltivazioni di soia usata per nutrire il bestiame è una delle ragioni per cui viene disboscata la Foresta Amazzonica.

«Cambiare ciò che le persone mangiano è estremamente difficile», scrive Dutkiewicz: «Chi dovrebbe guidare il cambiamento? Gli individui, i governi o le aziende? Si può trovare un equilibrio tra la libertà dei consumatori e le regole? E come si possono portare avanti politiche razionali tenendo conto del significato culturale, nazionale e personale del cibo?».

L’approccio più usato finora da governi, ong e aziende per suscitare cambiamenti nelle abitudini alimentari delle persone è costituito soprattutto da campagne di informazione che contengono suggerimenti su come mangiare in modo più sano e sostenibile. È una strategia che non limita la libertà personale di scegliere come nutrirsi e dunque non può essere criticata come imposizione dall’alto. Un esempio di questa strategia sono le etichette che segnalano con quali tecniche di allevamento è stato ottenuto un prodotto di origine animale. Un altro esempio citato da Dutkiewicz è la scelta del sito di ricette americano Epicurious di non pubblicare più nuove ricette di piatti contenenti carne bovina.

Anche la promozione e la diffusione di studi scientifici sull’alimentazione rientra in questo tipo di strategie di convincimento poco invadenti. Nel 2019 un rapporto realizzato dalla ong EAT assieme all’autorevole rivista scientifica Lancet ha proposto una serie di cambiamenti nella dieta globale per migliorare la salute delle persone e aumentare la sostenibilità della produzione di cibo. Il rapporto consiglia un raddoppio nei consumi di alimenti come frutta, verdura, legumi e frutta a guscio, e una riduzione superiore al 50 per cento del consumo mondiale di prodotti come gli zuccheri aggiunti e la carne rossa, «soprattutto mediante la riduzione dell’eccessivo consumo nei paesi più ricchi».

Secondo il rapporto, la versione ottimale della «dieta della salute planetaria» prevede di non consumare affatto carne rossa, a patto di ricavare la giusta quantità di proteine da altre fonti. Non volendo rinunciare del tutto a questo alimento, consiglia un consumo medio di 14 grammi al giorno, cioè di 98 grammi alla settimana. Considerando la sola carne bovina e i consumi pro capite dei diversi paesi secondo i dati dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura (FAO), per lo statunitense medio seguire la dieta della salute planetaria comporterebbe una riduzione del consumo di carne bovina dell’87 per cento. Per lo spagnolo medio invece una riduzione del 60 per cento e per l’italiano medio – che mangia meno carne dello spagnolo, in generale, ma più carne bovina – del 67 per cento.

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Il problema, dice Dutkiewicz, è che le indicazioni di EAT-Lancet, così come tante altre iniziative simili, non sono davvero efficaci: «I consumatori possono anche dire di voler prendere decisioni più informate o sostenibili, ma tendono a seguire le proprie abitudini quando percorrono le corsie dei supermercati. E disporre di più informazioni non causa necessariamente un cambiamento nei comportamenti, anzi: potrebbe avere l’effetto opposto».

Dutkiewicz fa riferimento al cosiddetto “paradosso della carne” descritto da vari psicologi: moltissime persone mangiano la carne pur pensando che il trattamento degli animali negli allevamenti intensivi sia crudele e disumano. Succede perché si trovano delle giustificazioni per continuare a farlo.

Le campagne di informazione inoltre vengono spesso criticate aspramente pur non avendo un approccio prescrittivo. Per la precisione, vengono attaccate come se lo avessero: sono accusate di voler ridurre la libertà di scelta delle persone. È successo dopo la pubblicazione del rapporto di EAT-Lancet, criticato online con l’hashtag #yes2meat, (#sìallacarne), usato in più di 8 milioni di tweet, e dopo l’annuncio della scelta di Epicurious.

Secondo Dutkiewicz si potrebbero ottenere risultati migliori aumentando invece la libertà di scelta delle persone. Per farlo bisogna eliminare le circostanze che di fatto ne influenzano le decisioni in modo inconscio, come esporre vicino alle casse dei supermercati, una zona che facilita gli acquisti impulsivi, snack a base di carne – negli Stati Uniti si trovano spesso strisce di carne essiccata.

Un altro modo per favorire scelte alternative sarebbe aumentare la varietà di piatti nei menù dei ristoranti, oppure offrire sempre una variante senza proteine di origine animale. Alcuni fast food hanno cominciato a farlo, sia negli Stati Uniti che in Italia: la catena Bun Burger ad esempio, che è presente a Torino e a Milano, offre tutti i suoi panini sia nella versione classica con carne bovina o pollo, che nella versione con i burger vegetali di Beyond Meat.

Una pubblicità della catena di fast food Carl’s Jr. che offre anche panini contenenti burger vegetali, il 10 giugno 2019 (Justin Sullivan/Getty Images)

Uno studio del 2019 dell’Università di Cambridge, basato sull’analisi di più di 90mila scelte di pasti, ha riscontrato che raddoppiando in proporzione le opzioni vegetariane offerte, le vendite di piatti vegetariani aumentano tra il 41 e il 79 per cento. Per un altro studio del 2019, realizzato da un gruppo di ricercatori danesi, i partecipanti a tre convegni sono stati divisi in due gruppi per i pasti: al primo veniva offerto un buffet non vegetariano con la possibilità di chiedere un’alternativa vegetariana, al secondo un buffet senza carne e la possibilità di chiedere invece pietanze che la contenevano. In tutti e tre i convegni, più dell’86 per cento delle persone del secondo gruppo ha mangiato pietanze vegetali, contro il 2, l’8 e il 12 per cento delle persone del primo gruppo.

Per Dutkiewicz l’ampliamento della scelta potrebbe avere un «impatto ancora maggiore» se fosse portato avanti in ambienti istituzionali frequentati da grandi numeri di persone, come le scuole, che avrebbero anche un ruolo educativo: «Cambiamenti di questo tipo possono modificare sia le abitudini degli individui che avere un’influenza sull’economia del cibo».

Per quanto riguarda le scuole però è facile trovare forti opposizioni. È successo a Lione, in Francia, lo scorso febbraio: il Comune aveva deciso che le mense scolastiche avrebbero offerto, in via temporanea, solo pasti vegetariani, dato che, con il distanziamento fisico richiesto dalle regole per il coronavirus, servire due diverse opzioni di pranzo sarebbe stato troppo complicato. Molti allevatori avevano protestato e anche il ministro dell’Agricoltura Julien Denormandie aveva criticato la decisione del comune.

Le istituzioni pubbliche possono cercare di cambiare le abitudini alimentari delle persone in vari modi, con regole (come nel caso delle scuole di Lione), incentivi e tasse, ma è difficile trovare soluzioni equilibrate che non vengano duramente criticate quando si tratta di carne.

L’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) approva l’introduzione di forme di tassazione sui prodotti alimentari con un alto contenuto di zuccheri, come merendine e bibite gassate, perché ci sono studi che ne hanno dimostrato l’efficacia. Altri studi suggeriscono che anche una tassa sulla carne rossa potrebbe funzionare, ma risulterebbe probabilmente molto impopolare, ancora di più delle tasse sui dolci introdotte in alcune parti del mondo. Altre politiche impopolari per molti, come ad esempio il divieto di fumare al chiuso, sono poi state accettate nel tempo, e forse potrebbe andare così anche per la carne bovina, ma non è detto.

Inoltre sia negli Stati Uniti che nell’Unione Europea i governi hanno sempre sostenuto l’allevamento, dunque introdurre una tassa sul consumo di carne significherebbe contraddire un principio di politica economica molto radicato.

A metà luglio nel Regno Unito è stata pubblicata una ricerca commissionata dal governo che suggerisce come cambiare l’alimentazione dei cittadini britannici per renderla più salutare e sostenibile: suggerisce di ridurre il consumo di zucchero, sale e carne, ma solo per i primi due prodotti gli autori consigliano l’introduzione di una tassa, ritenendo che imporne una sulla carne sarebbe «politicamente impossibile». Per ridurre il consumo di carne raccomandano invece di promuovere i pasti a base di vegetali e di incentivare la produzione di fonti di proteine alternative.

Questo approccio prudente secondo Dutkiewicz potrebbe funzionare ma dovrebbe essere accompagnato anche da strategie per rendere accessibile economicamente la «dieta della salute planetaria» per tutti gli strati sociali.

Nel frattempo le scelte individuali potrebbero contribuire significativamente a un cambiamento nelle abitudini alimentari delle persone, dice ancora Dutkiewicz, sia perché i nostri comportamenti sono influenzati da quelli di chi vive intorno a noi, sia per il meccanismo della domanda e dell’offerta. «Le richieste di burger vegetali come quelli di Beyond dicono ai rivenditori e ai ristoratori che devono fare scorte di questi prodotti, e li spingerà poi a promuoverli, facendo sì che altre persone li provino».

Secondo un sondaggio pubblicato a maggio dalla Banca europea per gli investimenti (EIB), il 66 per cento dei cittadini dell’Unione Europea ha ridotto il proprio consumo di carne per contrastare il cambiamento climatico. In Italia questa percentuale raggiunge il 76 per cento, il valore più alto dell’Unione, mentre in Spagna si ferma al 61 per cento, che comunque è un dato superiore a quello degli Stati Uniti (59 per cento), il primo paese al mondo per consumo di carne pro capite, e del Regno Unito (56 per cento), che invece ha consumi simili a quelli italiani stando ai dati della FAO. Questi dati suggeriscono che esiste un margine perché si arrivi a un cambiamento di abitudini generale.

In conclusione, Dutkiewicz pensa che per convincere le persone a mangiare meno carne servano sia i comportamenti individuali che politiche istituzionali, probabilmente diverse da paese a paese. Ritiene anche però che per arrivare a un vero cambiamento alimentare globale ci saranno inevitabilmente degli scontri e bisognerà farci i conti.

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