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  • Mercoledì 27 luglio 2022

È tornato l’autoritarismo in Tunisia

Quella tunisina sembrava essere l'unica vera democrazia uscita dalle "primavere arabe": negli ultimi tre anni è stata però smantellata pezzo a pezzo dal presidente Kais Saied

(AP Photo/Mosa'ab Elshamy)
(AP Photo/Mosa'ab Elshamy)
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In Tunisia, con un referendum proposto dal presidente Kais Saied, è stata approvata una nuova Costituzione che spingerà il paese verso un sistema istituzionale e politico ancora più autoritario. La nuova Costituzione, proposta proprio da Saied, sostituirà quella scritta dopo la Primavera araba del 2011, la rivolta che portò alla destituzione di un regime autoritario durato oltre vent’anni e avviò la transizione della Tunisia verso un sistema democratico.

Il ritorno della Tunisia verso l’autoritarismo è stato il risultato di un processo lento e durato anni: i governi che si sono succeduti dal 2011 in poi non hanno saputo affrontare e risolvere alcuni problemi strutturali del paese, soprattutto economici, causando una progressiva sfiducia nei confronti del sistema democratico. Il punto d’arrivo è stata l’elezione nel 2019 di Kais Saied, populista e autoritario, che nell’ultimo anno ha attuato una graduale e costante eliminazione delle libertà ottenute dopo la Primavera araba.

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Le Primavere arabe sono la vasta ondata di proteste e sommovimenti che avvennero nel 2011 vari paesi del Nord Africa e del Medio Oriente: tra i paesi interessati dalle rivolte, la Tunisia fu quello che ne uscì con il sistema democratico apparentemente più stabile e duraturo, oltre ad essere quello dove la rivoluzione ebbe inizio.

L’evento che la avviò fu infatti il suicidio di Mohamed Bouazizi, un giovane venditore di frutta tunisino che il 17 dicembre del 2010 si diede fuoco in seguito alla confisca del suo banchetto da parte della polizia locale, in uno di altri abusi subiti negli anni da parte delle autorità. Il gesto disperato di Bouazizi catalizzò e alimentò la rabbia e la frustrazione dei tunisini e poi degli abitanti di altri paesi arabi, che si mobilitarono per rovesciare i regimi autoritari al potere. Quello tunisino era guidato dal presidente Ben Ali, al potere dal 1987.

Un’immagine stilizzata di Mohamed Bouazizi sulla facciata di un ufficio postale tunisino, nel 2021 (AP Photo/Riadh Dridi)

Negli anni successivi la Tunisia iniziò un complicato e tortuoso percorso verso la democrazia, con riforme e conquiste di nuove libertà politiche. Alle elezioni parlamentari del 2011, le prime elezioni libere in Tunisia dal 1956, anno in cui ottenne l’indipendenza dalla Francia, vinse il partito islamista moderato Ennahda, che durante gli anni di Ben Ali era stato reso illegale. Ennahda si impose come la più importante formazione politica del paese.

Il presidente autoritario della Tunisia Zine El Abidine Ben Ali, destituito con le rivolte del 2011 (AP Photo/Hassene Dridi, File)

Nel 2014, dopo due anni di discussioni, le forze politiche si misero d’accordo per approvare una nuova Costituzione (quella che ora Saied sostituirà), che tra le altre cose riduceva i poteri del presidente e aumentava quelli di parlamento e magistratura, oltre a garantire il diritto di espressione, di manifestazione e nuove libertà civili.

Per questo la Tunisia fu celebrata internazionalmente e presa come modello, ottenendo riconoscimenti: tra le altre cose, fu assegnato il Premio Nobel per la Pace al “Quartetto per il dialogo nazionale tunisino”, cioè quattro organizzazioni che contribuirono alla transizione democratica della Tunisia dopo la rivoluzione del 2011.

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C’erano grandi speranze, insomma, sulla democrazia tunisina: sulla sua tenuta, sul suo rafforzamento e sulla sua capacità di far fronte ai problemi rimasti irrisolti dopo le rivolte del 2011. Tra questi, un parlamento ancora molto frammentato, in cui il consenso tra le forze inizialmente unite contro Ben Ali sembrava scemare, un’economia molto malmessa, oltre a problemi di corruzione e disuguaglianze sociali. In parte questi problemi erano gli stessi che avevano spinto molti tunisini a partecipare alle rivolte del 2011: a rivoluzione avvenuta, quegli stessi tunisini si aspettavano che il nuovo governo sapesse risolvere quei problemi.

In realtà le cose non andarono in questa direzione. L’economia continuò a peggiorare: aumentò l’inflazione, crebbe il deficit (la differenza tra le entrate e le uscite di uno stato), salì il debito pubblico, rimase alto il livello di disoccupazione, calò il PIL. Secondo un’indagine fatta nel 2014 dal Pew Research Center, la grave situazione economica, e la percezione che il governo non sapesse migliorarla, furono tra le cause per cui i tunisini cominciarono a perdere la fiducia nei confronti del governo democratico.

Nel frattempo la situazione politica rimase piuttosto caotica: nel 2016 il primo ministro tunisino Habib Essid, indipendente e a capo di una coalizione che includeva diversi partiti, fu sfiduciato dal parlamento perché accusato di non essere in grado di risolvere la difficile situazione economica del paese, e fu costretto a dimettersi. Ci furono poi grosse proteste, anche molto violente, contro gli aumenti delle tasse introdotti dal governo successivo, guidato da Youssef Chahed, del partito laico Nidaa Tounes.

Habib Essid, ex primo ministro della Tunisia, che fu costretto a dimettersi nel 2016 (AP Photo/Richard Drew)

In tutto questo, secondo l’analista tunisino Youssef Cherif, i partiti rimasero piuttosto deboli e la loro attività politica non si dimostrò abbastanza efficace da riuscire a consolidare, rafforzare ed estendere il proprio rapporto con l’elettorato, che cominciò a sentirsi meno rappresentato. Anche Ennahda, che nell’immediato periodo post-rivoluzionario aveva dominato la scena politica nazionale, non riuscì a imporsi con governi solidi e in grado di attuare le riforme di cui il paese aveva bisogno.

Alle elezioni amministrative del 2018, le prime dopo le rivolte del 2011, la partecipazione fu molto bassa, anche a causa della sfiducia di una parte della popolazione tunisina nei confronti della politica.

La sede del partito politico tunisino Ennahda, a Tunisi (AP Photo/Hassene Dridi)

Come detto da Cherif, per molti tunisini la democrazia diventò «sinonimo del collasso dello stato». Sondaggi fatti nel corso degli anni – in Tunisia come in altri paesi –hanno mostrato un aumento del numero di persone convinte che in democrazia l’economia fosse più debole, e che i problemi del paese dovessero essere risolti da un leader forte.

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L’elezione come presidente di Kais Saied, nel 2019, va vista in questo contesto. Saied, un professore di diritto costituzionale, si presentò alle elezioni come indipendente e senza nessuna precedente esperienza politica. Sfruttò questa sua provenienza per presentarsi come un leader nuovo, onesto, non compromesso, in grado di combattere la corruzione e di risolvere i problemi del paese.

Furono queste, più delle sue posizioni conservatrici su molte questioni legate a diritti civili e libertà politiche, le cose che attirarono di più l’attenzione nel corso della sua campagna elettorale. Anne Wolf, esperta di autoritarismo all’università di Oxford, ha detto che Saied si presentò fin da subito come un leader non disposto a scendere a compromessi su nulla, e venne anche per questo percepito più come un idealista che come un populista.

Saied ha progressivamente smantellato molte istituzioni democratiche tunisine. Lo ha fatto soprattutto a partire dal 25 luglio del 2021, esattamente un anno fa, quando rimosse il primo ministro e bloccò i lavori del parlamento, assumendosi gli incarichi di governo e cominciando di fatto a governare da solo, per decreto, con azioni che i suoi oppositori definirono un «colpo di stato».

Successivamente ha limitato l’autonomia del potere giudiziario, sciolto il Consiglio superiore della magistratura, firmato un provvedimento di emergenza che gli permetteva di governare per decreto, ignorando i limiti imposti dalla Costituzione in vigore. Saied ha anche represso con violenza le proteste di chi lo accusava di voler riportare il paese verso l’autoritarismo, fatto imprigionare vari oppositori politici e rimosso decine di giudici critici nei suoi confronti.

Il presidente della Tunisia Kais Saied (AP Photo/Slim Abid, file)

La nuova Costituzione è stata redatta da un gruppo di esperti che lui stesso ha personalmente nominato. Prevede un aumento dei poteri del presidente, che può nominare il governo, proporre le leggi, firmare trattati internazionali, scrivere la legge di bilancio e nominare o far dimettere i ministri e le principali cariche del sistema giudiziario. Il presidente può anche sciogliere il parlamento, senza che siano previsti meccanismi di impeachment per rimuoverlo. Benché preveda un limite di due mandati da cinque anni per l’incarico presidenziale, prevede anche che possano essere di più nel caso in cui il paese si trovi in imminente pericolo.

Secondo alcuni commentatori, la nuova Costituzione rischia di riportare la Tunisia a un equilibrio dei poteri simile a quello che c’era con Ben Ali prima del 2011.