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  • Domenica 6 gennaio 2019

In Tunisia siamo punto e a capo?

Da giorni si protesta per le stesse ragioni che provocarono la rivoluzione del 2011, anche se da allora molte cose sono cambiate

Poliziotti tunisini a Kasserine (AP Photo/Walid Ben Sassi)
Poliziotti tunisini a Kasserine (AP Photo/Walid Ben Sassi)

Il 24 dicembre, la vigilia di Natale, il 32enne giornalista tunisino Abderrazak Zorgui si è dato fuoco a Kasserine, una città della Tunisia occidentale, uccidendosi.

Poco prima Zorgui aveva pubblicato un video girato con il cellulare in cui spiegava le ragioni del suo gesto: disoccupazione, mancanza di cibo e condizioni di vita disperate, gli stessi motivi che nel dicembre 2010 avevano portato il venditore ambulante tunisino Mohamed Bouazizi a darsi fuoco a Sidi Bouzid. La morte di Bouazizi era stata l’evento scatenante delle cosiddette “primavere arabe”, cioè quegli enormi movimenti di protesta che si diffusero nel mondo arabo e che provocarono la caduta di diversi leader autoritari e l’inizio di nuove guerre in Medio Oriente. Nel suo video, Zorgui diceva: «Oggi ho deciso che faccio iniziare una rivoluzione. A Kasserine ci sono persone che muoiono di fame. Perché? Non siamo anche noi umani? Siamo persone come voi. […] Questa è benzina. Mi do fuoco tra venti minuti».

Negli ultimi otto anni, dopo la fine del governo dell’ex presidente tunisino Ben Ali, la Tunisia ha iniziato un processo molto complicato e tortuoso verso la democrazia, con risultati altalenanti. Da una parte la Tunisia è stata celebrata internazionalmente e presa come modello: è stato l’unico paese tra quelli coinvolti nella “primavera araba” che è riuscito a instaurare un regime democratico, ha tenuto regolari elezioni presidenziali, legislative e municipali e i suoi successi gli sono stati riconosciuti con l’attribuzione del Premio Nobel per la Pace al “Quartetto per il dialogo nazionale tunisino”, cioè quattro organizzazioni che contribuirono alla transizione democratica della Tunisia dopo la rivoluzione del 2011. Dall’altra parte però, come dimostra il gesto di Zorgui, la rivoluzione del 2010 non è stata sufficiente a cambiare le cose. O meglio, ne ha cambiate alcune, ma tante altre no.

Secondo il giornale tunisino Le Quotidien, il gesto di Zorgui è stato «un segno di rifiuto di una situazione catastrofica, di ineguaglianze regionali, di alta disoccupazione giovanile e di miseria in cui vivono i nostri cittadini. Nessuno può negare oggi che tutti i leader del nostro paese siano responsabili, responsabili per la sofferenza dei giovani, per la loro disperazione e frustrazione». Secondo la giornalista del New Yorker Robin Wright, negli ultimi otto anni i governi tunisini che si sono succeduti non sono stati in grado di creare abbastanza posti di lavoro per le persone istruite (quattro tunisini su cinque con più di 15 anni sono alfabetizzati); non sono riusciti a rispondere alle richieste di migliori servizi, nel campo sanitario ad esempio; e in generale non hanno soddisfatto le enormi aspettative che si erano create dopo la “primavera araba” e la rivoluzione del 2011.

Prima di Zorgui, negli ultimi otto anni molti altri tunisini si erano uccisi dandosi fuoco come gesto politico di protesta: almeno trecento. Altri duemila avevano cercato di farlo, ma erano sopravvissuti. La morte di Zorgui è stata però quella che ha attirato più attenzioni. Dal giorno successivo migliaia di persone hanno cominciato a protestare in tutta la Tunisia, chiedendo un lavoro e condizioni di vita migliori. Ci sono stati scontri con la polizia, diverse persone sono state ferite e altre arrestate. William Lawrence, esperto di Nord Africa alla Elliott School della Washington University, ha detto al New Yorker che le proteste iniziate dopo il gesto di Zorgui sono solo alcune delle oltre 8mila manifestazioni che ormai da diverso tempo si tengono ogni anno in Tunisia.

La Tunisia, ha detto Lawrence, ha avuto due rivoluzioni sovrapposte: una proveniente dalla classe operaia dell’entroterra rurale, che non è riuscita a produrre i cambiamenti socioeconomici che si prefiggeva; e un’altra promossa dalla classe medio-alta delle città che invece ha ottenuto qualche importante successo, come le dimissioni di Ben Ali, un leader autoritario corrotto, e l’indebolimento di due famiglie che operavano con metodi mafiosi e che erano molto potenti in tutto il paese. Il gesto di Zorgui, ha aggiunto Lawrence, ha riunito le aspirazioni di entrambi i gruppi: da una parte quelle più legate alle condizioni miserabili dell’economia post-rivoluzionaria, dall’altra quelle che vorrebbero un aumento degli stipendi dei professionisti e una maggiore libertà di stampa. Il problema, ha concluso Lawrence, è che la Tunisia «non sta cercando di risolvere i suoi problemi strutturali più profondi né le cause principali che portarono alla rivoluzione e che si sono aggravate nel periodo successivo».

Quello che verrà sarà un anno importante per la Tunisia, non solo per verificare se le proteste degli ultimi giorni porteranno a qualcosa di diverso oppure no; ma anche perché a fine 2019 si terranno le elezioni legislative e presidenziali, che potranno rivelarsi importanti per capire quale sarà il futuro della più solida democrazia uscita dalle “primavere arabe”.

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