L’esaurimento da social delle popstar

Sempre più spesso i musicisti manifestano difficoltà a sostenere i ritmi imposti dal mercato musicale all'autopromozione digitale

Chelsea Cutler
Chelsea Cutler durante un concerto a Brooklyn, New York, il 12 maggio 2021 (Theo Wargo/Getty Images)

Lo scorso gennaio, in un commentato post sui suoi account social, la venticinquenne cantautrice pop statunitense Chelsea Cutler ha parlato apertamente delle sue recenti difficoltà di adattamento all’evoluzione dell’industria della musica e dei social media. «È estenuante pensare costantemente a come trasformare la mia vita quotidiana in “contenuti”, specialmente sapendo che mi sento meglio mentalmente quando trascorro meno tempo al telefono», ha scritto Cutler, aggiungendo che è anche estenuante sentirsi dire continuamente da chiunque che «questo è il solo modo efficace per immettere musica sul mercato in questo momento».

La dichiarazione di Cutler è un esempio di vari segni di disagio e insoddisfazione recentemente manifestati da diverse popstar sempre più spesso e più intensamente impegnate nella promozione del prodotto del loro lavoro tramite i social media, oltre che nello svolgimento del loro lavoro in senso stretto: fare musica. Disagio tanto più sentito in un periodo in cui le conseguenze della pandemia hanno ulteriormente sviluppato il marketing della musica attraverso canali, quelli online, che per lungo tempo sono rimasti gli unici a disposizione dei musicisti per avere un contatto con il loro pubblico in assenza di concerti.

Questo disagio ha indotto diversi giornali e siti specializzati a parlare di digital burnout, o esaurimento da social, un fenomeno che interessa in parte qualsiasi professione che preveda l’uso dei social media per promuovere “contenuti” ma che, in un senso più specifico, riguarda quei musicisti emergenti che tentano di rivolgersi e di mantenere un legame con un pubblico quanto più possibile esteso. Qualcosa che, come fa notare il Guardian, non riguarda – o almeno non in queste proporzioni – altri professionisti dell’industria dell’intrattenimento, come per esempio gli attori.

Nel contesto dell’attuale industria discografica – in cui dirigenti del settore e manager dei musicisti tendenzialmente suggeriscono loro di aggiornare con frequenza i loro profili su Instagram, TikTok o Twitter – a manifestare una certa difficoltà sono soprattutto giovani musicisti che non hanno ricavi sufficienti a sostenere i costi di una squadra di persone espressamente dedicata alla gestione dei profili social.

Il disagio rispetto alla richiesta costante di soddisfare la crescente domanda di contenuti sui social è stato tuttavia condiviso in tempi recenti anche da musicisti affermati, di generi diversi dal pop e con un pubblico di medie dimensioni. «Pensi a tutto nello stesso momento, ed è un cazzo di sovraccarico. C’è molto da fare, nella musica. Molto da fare anche solo per essere in grado di continuare a fare canzoni», ha detto a Billboard il rapper americano Post Malone.

Alcuni musicisti, valutando la loro presenza sui social una fonte di preoccupazioni e ansie maggiori rispetto ai possibili benefici, hanno deciso di eliminare i loro account o sospenderne gli aggiornamenti. A febbraio, facendo riferimento a suoi recenti problemi di salute mentale, la cantautrice britannica Charli XCX ha annunciato che avrebbe smesso di utilizzare personalmente il suo account Twitter – che ha 3,6 milioni di follower – dopo aver ricevuto molti commenti negativi durante la promozione del suo disco più recente, Crash.

Una scelta simile fu compiuta nel 2019 dalla popstar statunitense Billie Eilish, che la descrisse in seguito come una delle migliori decisioni della sua vita. «Ci sono così tante cose che non posso fermare, ma eliminare Twitter sì che posso», disse, sostenendo di avere molto a cuore la propria salute e di non avere bisogno di conoscere tutte le opinioni su quel social.

Diversi analisti ed esperti del settore concordano nel ritenere che alla base del problema del burnout delle popstar ne esista un altro evidentemente connesso alla «democratizzazione della musica», ha scritto il Wall Street Journal, e al problema del modello di business promosso dal mercato delle piattaforme di streaming.

– Leggi anche: I problemi dietro alla disputa tra Neil Young e Spotify

I social media e le piattaforme come Spotify hanno certamente incrementato la quantità di strumenti a disposizione dei musicisti per poter pubblicare, distribuire e promuovere musica – e anche condurre ricerche di mercato in modo efficiente – senza l’aiuto delle aziende discografiche. Ma raggiungere un livello di successo appagante conducendo una vita sostenibile è diventato più difficile, a causa di una sovrabbondanza di musicisti e di pubblicazioni – secondo Spotify, sono caricate sulla piattaforma oltre 60 mila nuove canzoni ogni giorno – che tende, secondo gli esperti, a esercitare una pressione al ribasso sui redditi medi.

Secondo dati diffusi dalla società di ricerche di mercato britannica Midia Research, nel 2020 la quantità di musicisti che pubblicano in proprio – cinque milioni – è cresciuta di un terzo rispetto all’anno precedente. Ma il reddito medio per musicista, considerando tutti i formati attraverso cui viene venduta la musica, è cresciuto soltanto del 2 per cento, portando quel valore a 234 dollari all’anno. Cifra che sarebbe peraltro sensibilmente più bassa se non fosse per la presenza di alcune migliaia di musicisti indipendenti di grande successo che guadagnano molto più della stragrande maggioranza dei colleghi.

Una conseguenza di questa situazione è che alcuni musicisti pubblicano musica più spesso, privilegiando la quantità rispetto alla qualità, per cercare di emergere o evitare che il numero di loro ascoltatori mensili diminuisca in un settore sempre più competitivo e «ossessionato dai numeri», ha scritto il Wall Street Journal. La pressione per i musicisti deriva dal dover concentrarsi non soltanto sulla musica ma anche sui loro personaggi pubblici, attraverso la pubblicazione costante di post sui social per mantenere visibilità sulle piattaforme e attirare fan che potrebbero ascoltare musica in streaming e acquistare biglietti per i concerti o per altre merce.

«I post su Myspace o Facebook erano un di più, ma ora è come se fare musica significhi creare beni per i social media», ha sintetizzato di recente Sara Quin del duo indie rock canadese Tegan and Sara, attivo dagli anni Novanta. Quin ha inoltre spiegato che nel loro caso le metriche relative alla loro presenza online sono direttamente collegate «a quanto un’azienda discografica ci pagherà per un disco o a quanto ci daranno al Coachella per suonare sabato alle 15».

Noah Kahan, venticinquenne cantautore pop statunitense, ha raccontato al Wall Street Journal che non c’è sessione di registrazione né riunione con la casa discografica – «diamine, nemmeno una telefonata» – in cui non si faccia riferimento a TikTok. Ha detto che il consiglio condiviso con lui dagli esperti del settore è di fare un TikTok al giorno, con o senza riferimenti alla musica, e che la familiarità con questa piattaforma ha condizionato in modo «estremamente inquietante» la sua scrittura: ora si concentra di più su brevi strofe e ritornelli orecchiabili che non sul resto della canzone, per esempio.

– Leggi anche: Canzoni di cui sono famosissimi pochi secondi

Anche la cantante britannica Adele, una tra le più famose e di successo degli ultimi dieci anni nel pop mondiale, ha recentemente detto in un’intervista con il conduttore radiofonico e dj neozelandese Zane Lowe di aver ricevuto più volte dal suo entourage il suggerimento, da lei non condiviso e non accolto, di creare musica per TikTok, in modo da «assicurarci che i quattordicenni sappiano chi sei».

Anche per i musicisti che decidono di rinunciare ai social o farne un utilizzo molto limitato, ha detto la trentatreenne cantante country statunitense Maggie Rose, esistono comunque delle pressioni indirette. «Spesso ci troviamo di fronte a una mentalità del tipo “immagino che non lo desideri così tanto” da parte di altre persone dello nostro settore, il che è esasperante», ha detto Rose, riferendosi alle insinuazioni secondo cui prediligere il benessere mentale rispetto alla propria promozione sui social sia indice di un generale disinteresse per la propria carriera. Secondo alcuni dirigenti e manager, parlare apertamente di burnout potrebbe servire a rendere il problema noto e più chiaro al pubblico, ma molti musicisti temono che questo possa farli sembrare persone viziate e privilegiate che si lamentano di una vita apparentemente desiderabile. O peggio: persone che fingono di avere problemi di salute mentale, accusa rivolta all’epoca anche a Billie Eilish.

La cantante armena Tamar Kaprelian, diventata nota nel 2008 dopo aver vinto un concorso di cover organizzato dal gruppo statunitense OneRepublic, è la cofondatrice e amministratrice delegata di Nvak Collective, una società discografica indipendente impegnata nella promozione del lavoro di giovani musicisti in mercati emergenti come l’Asia occidentale, il Medio Oriente e l’Africa settentrionale e orientale.

Al Wall Street Journal, Kaprelian ha raccontato che la sua società cerca di dare priorità al benessere e alla salute degli artisti. Come avvenuto per un caso di depressione della cantante libanese Talia Lahoud, in alcuni casi Nvak Collective sostiene i costi della psicoterapia o di altri servizi utili per le cure. Lahoud si prese un mese di pausa prima di riprendere a scrivere e registrare canzoni, e Nvak posticipò l’uscita programmata del disco. «Ci siamo detti: “dicci quando ti senti meglio”», ha detto Kaprelian.

– Leggi anche: Il generoso successo di Bandcamp

Darren Hemmings, marketing manager britannico che lavora con gruppi come Run the Jewels e Wolf Alice, ha detto al Guardian che incoraggia spesso i musicisti a sviluppare e far crescere comunità di fan su servizi e canali alternativi ai social e alle piattaforme di streaming. In particolare, Hemmings suggerisce canali e servizi che creano un contatto più diretto e complice, come per esempio newsletter su Substack, progetti di autofinanziamento su Patreon e anche gruppi WhatsApp (ne ha uno, per esempio, il duo britannico di musica elettronica Chase & Status).

Nel 2020, il gruppo britannico di metalcore While She Sleeps ha aperto un profilo su Patreon chiamato Sleeps Society, una comunità formata da circa 1.500 sostenitori. «Non sembra un’enorme quantità di persone ma rende abbastanza da tenere a galla la band», ha detto il chitarrista Mat Welsh.