Le due facce della tempesta Vaia

Quello che successe tre anni fa in Val di Fiemme causò enormi danni economici, ma fu anche un'occasione per iniziare una migliore gestione dell'ambiente

di Claudio Caprara

Tutti, in Val di Fiemme, ricordano cosa hanno fatto il 29 ottobre di tre anni fa, il giorno prima della tempesta Vaia: che strada hanno percorso, che persone hanno incontrato, che cosa hanno mangiato. Hanno la memoria del giorno prima e quella, sgomenta, della mattina, quando si sono trovati di fronte le montagne piene di tronchi divelti dal vento. Insieme al bosco che tanto amavano, sembrava fosse crollato tutto il loro mondo.

Mentre ci accompagna per i boschi e per la valle, Ilario Cavada, tecnico forestale della “Magnifica Comunità di Fiemme”, ci racconta che «l‘impatto di Vaia sulla gente che abita la valle è stato un enorme trauma emotivo. Noi amiamo i nostri boschi. Fanno parte della nostra identità. Noi siamo nati qui e abbiamo visto, dalla notte al giorno, un panorama completamente diverso. Quei boschi, dove camminavamo da piccoli o andavamo per funghi con i nostri nonni o con i nostri genitori, sono spariti. È ovvio che è stata una perdita. Un dolore immenso».
Anche il lavoro dei forestali ha avuto a che fare con la psicologia dei fiammazzi, come si chiamano gli abitanti della Val di Fiemme, una delle principali valli dolomitiche (Trentino): «Abbiamo cercato di fare capire ai cittadini che Vaia non era la fine del bosco: anzi, probabilmente, era un nuovo inizio. Perché il bosco ritornerà».

La tempesta come opportunità
La tempesta Vaia è stato un disastro economico.
Le dimensioni dello “schianto da vento” degli abeti rossi è stato eccezionale e, soprattutto nei primi mesi, ha generato grandi difficoltà nella struttura forestale che doveva gestire il recupero del legname e stoccarlo, ripristinare le montagne e avviare il processo di rimboschimento.

«A livello ambientale non è un evento così dannoso e traumatico – spiega Cavada – il problema è legato a un fenomeno più generale e globale. Vaia è un simbolo dei cambiamenti climatici».

L’attività dei forestali ha molto a che fare con il futuro. Loro lavorano oggi, fanno delle scelte, ma i risultati delle attività del presente si vedranno non prima di trent’anni.

Secondo Cavada, «in tanti aspetti siamo riusciti a considerare Vaia più un’opportunità che una catastrofe. Dopo Vaia le stesse scienze forestali sono cambiate. Il concetto stesso di bosco non è più quello di prima. Per la maggioranza della popolazione era considerato “un bene produttivo” e veniva valutato esclusivamente dal numero di piante che si potevano abbattere e da quanto legno si poteva ricavare. Adesso, a causa di Vaia, le persone si sono accorte del valore del bosco. Vedo più attenzione e grazie all’opera di sensibilizzazione che stiamo portando avanti. Stiamo passando a una percezione dei “servizi” che il bosco offre alla collettività. Senza il bosco le montagne si erodono, le alluvioni diventano più probabili, è più facile che la montagna ti arrivi in casa. Il bosco protegge. Oltre a garantire l’ossigeno, i mirtilli, i funghi».

I tecnici forestali hanno un linguaggio a volte un po’ criptico per i profani: parlano di «servizi turistico ecosistemici e ricreativi» che ogni bosco genera. In pratica si tratta dei beni, non immediatamente misurabili in valore economico, che normalmente siamo abituati a dare per scontati.

Si parla di “servizi” per definire lo stoccaggio del carbonio che naturalmente fanno le piante, la biodiversità, la stabilità del suolo, la salubrità dell’acqua filtrata e, ancora, della possibilità di poter godere della bellezza del bosco.

Sono “servizi” che ci sono e ci sono sempre stati, tutti ne godono, ma che sono stati percepiti dall’uomo quando si è verificato il rischio di perderli. Storicamente il bosco era stato considerato un luogo dal quale estrarre dei prodotti: legname, funghi, frutti. Negli ultimi anni, soprattutto da queste parti, è cresciuta la consapevolezza che il bosco non può essere un ambiente da sfruttare.

Nella Val di Fiemme ci sono boschi floridi, che si espandono naturalmente e con velocità. Questa non è una buona notizia in assoluto. Cavada ha detto: «Si stima che la nostra foresta cresca ad un ritmo impressionante: un metro quadrato al minuto. In questo modo lo spazio boschivo va ad occupare i prati e i pascoli di alta quota, zone necessarie per rendere l’ambiente equilibrato: non solo per le piante, ma anche per la fauna, per il paesaggio, per la biodiversità in generale».

Per garantire questo equilibrio, e quindi a volte per bloccare l’estensione del bosco, è necessario l’intervento umano.

Un danno collaterale che ha lasciato Vaia è visibile sugli alberi che hanno subìto un trauma, ma sono rimasti in piedi. Queste piante ora sono aggredite da un insetto, il bostrico tipografo, che sta attaccando un numero consistente di abeti rossi.

La politica si è dimostrata sensibile: la provincia autonoma di Trento è un’istituzione molto attenta ai temi forestali e i fondi per il ripristino delle strade, che erano una delle emergenze dei giorni dopo la tempesta, e per il recupero del legname sono stati erogati con velocità ed efficienza.

L’idea che la tempesta Vaia sia stata un’opportunità viene fuori continuamente nelle conversazioni con i forestali.

«Grazie a Vaia siamo in grado di modellare in maniera più veloce i boschi attuali – dice ancora Cavada – che sono il frutto del lavoro dei nostri avi, dei colleghi che erano qui cento anni fa. Oggi abbiamo molti più elementi per realizzare dei boschi più sani e forti».

«Ogni specie arborea ha dei punti di forza e dei punti di debolezza: ad esempio nei confronti di esseri viventi, come i parassiti. Poi ci sono alberi che sono più resistenti al vento. I danni di Vaia forse sono stati tanto estesi anche per la presenza quasi da monocultura dell’abete rosso. Non è una pianta che resiste al vento, le radici arrivano circa a mezzo metro di profondità, non perde le foglie e quindi facilita un “effetto vela”. Con un vento tanto violento, il fatto che gli alberi fossero tutti della stessa altezza e della stessa età ha innescato un effetto domino impressionante».

«Più i nostri boschi saranno composti da varie tipologie di alberi, più la struttura è dinamica (quindi con alberi di varie altezze e di varie età nello stesso spazio), più risulterà resistente al vento e al tempo».

Avendo abbattuto un’enorme quantità di piante, in rapporto all’intera superficie forestale, Vaia ha permesso di accelerare l’opera di diversificazione nella riforestazione.

«Noi stiamo già intervenendo da settant’anni in questo processo, ma in un bosco che ha una vita di almeno 500 anni, siamo solo all’inizio del lavoro».

«La tecnologia ha già un ruolo molto importante nella gestione delle foreste. Senza le immagini satellitari e l’utilizzo dei droni, la catalogazione dei danni di Vaia sarebbe stata molto più lenta. Stesso discorso vale per l’utilizzo di trattori moderni ed efficaci senza i quali saremmo a contare effetti economici ancor più disastrosi».

«Dalle immagini satellitari – spiega Cavada – si riescono ad inventariare le piante e a capire in anticipo, con l’uso degli infrarossi, la tendenza ad ammalarsi. Gli alberi che non stanno bene attraggono i parassiti e arrivare in tempo in questi casi è molto importante».

La Magnifica Comunità di Fiemme
La Magnifica Comunità di Fiemme è una proprietà collettiva di origine medievale. Nacque nel 1111, quando il Principe Vescovo del tempo accettò di dare in dono alla popolazione fiammazza la proprietà dei terreni in cambio della garanzia di una consistente rendita

All’inizio della sua storia era una sorta di repubblica che aveva autonomia sulle attività economiche, sulle norme e sulla gestione della giustizia. Oggi il territorio che appartiene alla “Magnifica” comprende 20.400 ettari, e la proprietà dei boschi è l’unica gestione concessa dalla Provincia Autonoma di Trento e dallo Stato.

Il perché del nome “Magnifica” lo spiega di nuovo Cavada: «Perché eravamo in concorrenza con la Serenissima, dovevamo avere un nome che reggesse il confronto»; Cavada è anche un “vicino” della Magnifica, cioè un comproprietario del territorio: lo si diventa se si è figli di vicini, o se si fa domanda di diventarlo dopo 25 anni di residenza in Val di Fiemme.

Gli 11 comuni che fanno parte del territorio della Magnifica si chiamano “regole”: in ogni regola i vicini partecipano all’elezione diretta del loro rappresentante nel consiglio, che diventa “regolano”. Gli 11 eletti compongono una sorta di consiglio di amministrazione che si chiama “consiglio dei regolani”, e ha competenze di amministrazione ordinaria e straordinaria.

Il consiglio dei regolani elegge il proprio presidente, lo “scario” (un temine longobardo). Poi ci sono gli organi di garanzia: il collegio dei revisori (per la parte contabile) e il collegio di controllo che decide sulle controversie tra vicini.

Dove nascono le piante
Elisabetta Zanetti è una vivaista per caso. A un certo punto si è presentata l’occasione: l’ha colta e ora pensa che sia il più bel lavoro del mondo.
Lavora a Solaiolo, nel comune di Carano, a 1300 metri sul livello del mare, l’altitudine ideale per fare germogliare le piante di abete rosso, larice, pino cembro. Qui questi ecotipi da seme diventano una pianta.
Zanetti ha spiegato da dove vengono i semi degli alberi del bosco: «Prima della tempesta Vaia c’erano dei “boschi plus”, dove gli alberi erano più belli e più sani. In autunno, degli addetti raccoglievano a mano le pigne, i semi venivano messi in sacchi di iuta e trasportati nei frigoriferi dell’azienda che li conservava a -4°,  prima di essere piantati».

«Nei mesi seguenti a Vaia abbiamo approfittato di tutti gli schianti – racconta Zanetti – anche perché le pigne erano più raggiungibili e abbiamo fatto una scorta abbondante che ci servirà per diversi anni».

I semi vengono piantati nel semenzaio e ci restano un paio d’anni. Poi vengono trasferiti per altri due anni nel piantonaio, dopo di che le piante vengono selezionate, estratte e portate nel bosco.

«Il tempo per rimboschire – spiega Zanetti – è minimo: da metà aprile a inizio maggio. La piantumazione deve essere rapida: dobbiamo utilizzare la finestra stagionale di fresco e pioggia, le condizioni che facilitano la radicazione. Più le piantine sono piccole, più le possibilità di attecchimento della pianta sono buone».

In pratica, tra un’ottantina di anni la pianta che oggi vediamo di una ventina di centimetri potrebbe diventare un albero forte, alto anche più di 30 metri e maturo per essere tagliato e lavorato in segheria.

In un periodo di 20-30 anni non si vedono delle grandi differenze in un bosco. Zanetti ha detto: «Sono proprio trent’anni che lavoro qui e io, il mio bosco, lo vedo sempre uguale. Ho sempre amato un bosco di abete rosso: il profumo, il camminarci dentro, i funghi. In futuro vedremo. Dopo Vaia, probabilmente, le cose cambieranno più velocemente. Stanno cambiando le modalità di rimboschimento: si sta puntando di più sul larice, perché è più forte, più flessibile, con il vento è più resistente e soprattutto non dà origine a quell’effetto domino che è stato devastante tre anni fa. Questo inciderà anche sul colore del bosco».

Indicando un cirmolo (cioè un pino cembro), Zanetti ha detto: «Lui sa tutto di me, mi lamento delle cose brutte che succedono nel mondo. Però solo fino ad un certo punto credo all’abbraccio degli alberi e alla loro voce. La natura comunque ti rilassa: se entri in un bosco con un cruccio, quando ne esci, magari lo hai risolto».

La certificazione FSC
Diego Florian è un forestale, il direttore di FSC Italia.

Forest Stewardship Council è una organizzazione non governativa presente in tutti i continenti, in 80 paesi. In Italia c’è da una ventina d’anni e la certificazione che rilascia «offre uno strumento per migliorare la gestione boschiva, perché obbliga i proprietari delle aree ad adottare una forte attenzione alla sostenibilità sociale, economica e ambientale che va oltre i loro obblighi definiti dalle leggi».

L’oggetto della certificazione riguarda tutto ciò che ha a che fare con il legno. Florian dice: «Noi abbiamo l’obiettivo di mettere in collegamento proprietari forestali responsabili con cittadini consapevoli. Per questo dobbiamo monitorare e tracciare tutta la filiera del legno. Il nostro schema offre strumenti di controllo nell’arredamento, nelle cartiere, nelle fabbriche degli imballaggi (in carta e cartone), nell’edilizia in legno, fino ad arrivare alle imprese della moda basata su fibre naturali».

Per la certificazione di Gestione Forestale responsabile viene rilasciato un marchio di qualità. Garantisce ai cittadini, alle istituzioni e agli operatori economici che una foresta o una piantagione forestale è gestita nel rispetto di rigorosi standard ambientali, sociali ed economici.

In Italia i soggetti certificati sono oltre 3.200.

Incontriamo Florian in una zona colpita da Vaia, su cui c’è stato un intervento di ripristino “artificiale” frutto della collaborazione tra enti pubblici e soggetti privati.

«Normalmente la fertilità del suolo e la capacità del bosco di crescere in modo naturale non hanno bisogno di grandi interventi. In casi in cui il dislivello, la composizione del terreno e i fattori atmosferici possano provocare un’erosione del terreno e una perdita di capacità di far crescere le piante del versante, è opportuno un intervento umano».

Si tratta di una delle esperienze più avanzate in questo ambito.

Anche il direttore di FSC è d’accordo sull’idea che dopo Vaia sia cresciuta consapevolezza di che cosa rappresenta il bosco per la collettività: «Tutti vanno a camminare nel bosco, stanno meglio dopo aver passato qualche ora in mezzo al verde, ma non percepiscono il lavoro che sta dietro al benessere degli alberi. Tutti sentono che da queste parti c’è un’acqua buona, ma non tutti collegano questo “servizio” alla funzione depurativa delle foreste».

Dopo la tempesta in tanti hanno capito il valore del bosco. È uno degli aspetti per cui la catastrofe è stata quasi un vantaggio.

La certificazione sancisce che si stanno gestendo i boschi in maniera più responsabile rispetto ai requisiti di legge.
Non in tutte le aree colpite da Vaia la reazione è stata la stessa. In certe zone l’esbosco è stato gestito unicamente come un problema. Certo, si sono attivate risorse pubbliche per sistemare le foreste, ma spesso il legname schiantato è stato venduto a prezzi bassissimi per liberarsene il più presto possibile.
La Val di Fiemme è un esempio virtuoso.

In queste settimane sono usciti dei dati che dimostrano che il territorio coperto da boschi in Italia stia aumentando. Sembrerebbe una buona notizia, ma è opportuno andare a vedere perché il fenomeno si presenta e che cosa c’è dietro a questo sviluppo della vegetazione.

Florian lo spiega in questo modo: «Purtroppo è un’espansione di cui non abbiamo il controllo e di cui non abbiamo conoscenza statistica, non sappiamo di quanto e come crescano i boschi italiani se non ogni 5 o 10 anni, quando si fanno rilievi fotografici o satellitari. Non possiamo fruire di queste aree perché mancano le strade per accedervi, perché capita che l’accumulo di masse di vegetazione sui versanti crei dei problemi di sicurezza: durante le forti piogge o le slavine è materia che finisce nei torrenti e concorre alle alluvioni. Insomma, la crescita non controllata, più che una risorsa è un problema».

Sono boschi che occupano aree che prima erano presidiate da attività umane, a cominciare dall’agricoltura.
Il problema è sempre quello: mantenere un equilibrio tra uomo e natura.

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