Gli abitanti della Polveriera

Un ex deposito di armamenti a Reggio Emilia è diventato la casa di molte persone: era un problema urbanistico, oggi è la soluzione a molti problemi della città

di Riccardo Congiu e Claudio Caprara

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Tra gli anni Settanta e Ottanta in alcuni paesi avanzati dell’Occidente, tra cui l’Italia, iniziò un fenomeno di svuotamento delle aree e degli edifici delle città che erano stati occupati da attività produttive e industriali: l’avanzamento tecnologico e l’evoluzione del commercio imposero a questi luoghi di rinnovarsi, ampliarsi e ridurre i costi, e questo comportò che venissero spostati in zone periferiche, dove l’occupazione di suolo era più economica e dove si era meno legati ai vincoli delle sovrintendenze ai beni storici dei centri cittadini.

Tutto questo provocò la diffusione in molte città di spazi abbandonati, quasi inutilizzati e destinati al degrado. Negli anni questi spazi hanno finito per diventare luoghi estranei al tessuto urbano, tanto da essere percepiti dai cittadini come inaccessibili e respingenti.

La dismissione di questi spazi riguardò molte aree militari: alcune vennero riposizionate, altre furono semplicemente smantellate perché non servivano più. Accadde anche a una ex polveriera di Reggio Emilia, la struttura militare in cui si conservano esplosivi, munizioni e armi: qui ha fatto tappa il viaggio di Strade blu.

Gli ex edifici militari che oggi ospitano le attività della Polveriera (Valentina Lovato/Il Post)

La Polveriera

Nel 2010 il Comune di Reggio Emilia mise a bando la concessione degli spazi della ex polveriera, che si trovano in un quartiere vicino al centro storico.

Due dei cinque capannoni che componevano la polveriera se li aggiudicò per 50 anni il Consorzio Oscar Romero, uno dei due consorzi di cooperative sociali della città, che cominciò alcuni lavori di ristrutturazione terminati nel 2016.

Oggi i due capannoni, uno di fronte all’altro, completamente ristrutturati, sono diventati “La Polveriera”, un spazio di circa 2mila metri quadrati difficile da definire con precisione, per la grande quantità di attività diverse che si svolgono al suo interno: ci sono spazi di lavoro e laboratori artistico-culturali per persone con disabilità, uffici, un negozio di prodotti realizzati alla Polveriera stessa o nel carcere di Reggio Emilia, una comunità residenziale per persone con disabilità, un bar-ristorante e altro ancora.

I capannoni della Polveriera (Valentina Lovato/Il Post)

È un esempio di riutilizzo e valorizzazione di un luogo sostanzialmente abbandonato, passato dall’essere un problema urbanistico a una risposta a molte necessità del quartiere e della città in generale, oltre che un’occasione di incontro tra gruppi di persone che difficilmente si potrebbero incontrare altrove. È un posto anche bello da vedere da fuori, con molti servizi utili all’interno.

Marta Andrei, 29enne community manager della Polveriera, la definisce «un grande laboratorio di innovazione sociale», cioè un posto in cui si sviluppano nuove idee per rispondere a bisogni sociali e creare nuove relazioni tra soggetti diversi.

Andrei ha una formazione da architetta ed è arrivata alla Polveriera qualche anno fa per il tirocinio di un master – l’argomento di studio era appunto “rigenerazione urbana e innovazione sociale” –, poi non se n’è più andata. Oggi ha un ruolo di gestione del luogo e di alcune attività che vi si svolgono: «Si passa dal progettare bandi al sistemare le sedie per allestire uno spazio. L’aspetto interessante è che questo posto ti permette di sperimentarti a 360 gradi», racconta.

Le cose da fare sono molte: «Dobbiamo gestire i servizi che offriamo, avendo sempre attenzione a rafforzare il nostro radicamento in città e lavorare per rendere gli spazi più accessibili alla cittadinanza». Quando nacque la Polveriera fu necessario analizzare i bisogni della zona: Andrei ricorda come abbiano sentito le opinioni di molti abitanti del quartiere, dove ci abitano molti anziani, poi abbiano scelto gli interventi da compiere.

«Abbiamo attivato servizi che prima non esistevano: uno spazio di socializzazione aperto ai cittadini del quartiere in cui si potevano fare attività di vario genere: letture, corsi teatrali, giochi di società». Non era un’idea rivoluzionaria, ma rispondeva a un bisogno concreto: «Adesso si è creato un gruppo di persone tra i 70 e gli 80 anni, che si frequentano e che prima non si conoscevano».

Abitanti mobili, abitanti fissi

All’inizio non fu semplice convincere le persone del quartiere della bontà del progetto della Polveriera, e servì un grande lavoro di sensibilizzazione, di spiegazione accurata di quello che si voleva realizzare e di attenzione alle opinioni dei cittadini. È un’attività «che non finisce mai ed è ancora parte della nostra identità, perché le esigenze cambiano e noi cerchiamo di adeguare l’offerta in base alle sollecitazioni che ci arrivano», spiega Andrei.

«Questo era uno spazio militare che la città percepiva come chiuso, non come uno spazio da vivere», perciò il rinnovamento dell’area doveva passare anche da una diversa disposizione mentale dei cittadini nei suoi confronti.

Prima nel piazzale che divide i due capannoni della Polveriera c’era un grande parcheggio: oggi, nonostante le critiche iniziali per la diminuzione dei posti auto, ci sono degli alberi e delle opere d’arte, ed è un grande punto di incontro tra i frequentatori della Polveriera.

Il “giardino di sculture” di Olimpia Zagnoli in esposizione permanente nello spazio esterno della Polveriera, dopo la mostra presso i Chiostri di San Pietro (Valentina Lovato/Il Post)

La diffidenza di molti cominciò a diminuire solo quando la Polveriera entrò in attività, nel 2017. Da allora, secondo le stime di Andrei e di chi come lei ci lavora, alla Polveriera sono passate – cioè hanno partecipato ad attività, usato servizi o l’hanno visitata – circa 20mila persone. Li chiamano “abitanti mobili”: cioè quelli che arrivano da fuori. Le persone che vi risiedono o che ci lavorano stabilmente, gli “abitanti fissi”, sono invece circa 200.

In uno dei due capannoni ci sono un centro residenziale e un centro diurno in cui abitano persone con disabilità: nel primo c’è una comunità alloggio, dove gli ospiti sono seguiti da operatori e personale sanitario. Il secondo viene frequentato per attività che si svolgono nell’arco della giornata. Si tratta di una divisione fittizia: praticamente si vive tutti insieme, perché alla Polveriera gli spazi sono pensati per essere condivisi.

Questa parte della Polveriera è a tutti gli effetti una casa: il capannone che la ospita è stato progettato appositamente per questo scopo – perciò è molto diverso dall’edificio che ha di fronte, per quanto dall’esterno non se ne abbia l’impressione – ed è stato costruito su due piani, con lo spazio abitativo al piano di sopra.

Per trasformare un ex edificio militare in una casa si è dovuto fare un gran lavoro: «La normativa impone degli standard qualitativi molto alti, per permettere a persone con grandi fragilità di vivere in una situazione protetta», spiega Edoardo Raia, vicepresidente della cooperativa Coress, che gestisce quegli spazi e che ha i suoi uffici proprio lì accanto.

Gli spazi interni del centro residenziale sono stati progettati in modo da sostituire i soffitti alti con delle stanze a forma di casa, con tanto di tetto spiovente (Valentina Lovato/Il Post)

La residenza è accogliente: tutta l’architettura interna richiama l’ambiente domestico, evitando volutamente stanze eccessivamente colorate o elementi infantili, simili a quelli che si trovano nei reparti di pediatria degli ospedali e che spesso vengono usati anche nei luoghi pensati per le persone con fragilità.

Gli spazi furono progettati in funzione di queste esigenze perché la cooperativa Coress aveva deciso, già prima dell’apertura della Polveriera, di stabilire qui la propria sede e una residenza per persone con disabilità.

«È stata una sfida – spiega Raia –, spesso i servizi sociosanitari sono strutture un po’ distaccate dai centri urbani, vengono posti in aree ben delimitate e periferiche», anche perché in quel genere di posti è più facile rispettare le richieste normative sulla costruzione delle strutture. Ma solitamente sono posti poco accessibili.

«Qui siamo su una piazza dove chiunque può capitare, chiunque può accedere al centro diurno. Il nostro obiettivo è far entrare persone che non appartengono al mondo della cura, dell’assistenza o della salute», spiega Raia, che descrive gli spazi del capannone come «ibridi», aperti, dove si possono fare varie attività: sia quelle di chi ci trascorre l’intera giornata, sia quelle di chi ci capita per qualche ora.

Nel centro diurno infatti vengono organizzati, per le persone che vengono da fuori, corsi di cucina, laboratori ricreativi, attività sportive e diverse altre cose, a seconda delle opportunità che nascono.

Durante Fotografia Europea, uno dei più grandi festival fotografici in Italia, che si tiene ogni anno a Reggio Emilia, negli ultimi anni molti artisti e fotografi hanno installato le loro mostre all’interno degli spazi di Coress nella Polveriera: un modo per favorire l’incontro tra chi ci abita e chi non conosce il posto, attraverso «uno scambio informale», come dice Raia.

«Il tema è far avvicinare persone che in un centro diurno non entrerebbero mai. Pensiamo che questa contaminazione degli spazi legati al mondo della fragilità possa aiutare un processo di inclusione: è quanto è successo negli ultimi 4 anni».

Insomma, l’idea è che la Polveriera sia una casa per tutti in un senso molto pratico, per quanto l’espressione possa suonare retorica: poi quella casa ha sia “abitanti fissi” che “abitanti mobili”.

L’altro capannone

La Polveriera nasceva con l’intenzione di servire i quartieri intorno, ma col tempo molti suoi servizi sono diventati un riferimento anche al resto della città e della provincia, e in alcuni casi sono arrivati anche oltre.

Per esempio: nello stesso capannone con il centro diurno, la residenza e la cooperativa Coress, ci sono anche una libreria e degli uffici del ministero della Giustizia. Altre attività nascono per dare risposta a esigenze precise e temporanee, come uno sportello di assistenza tecnologica aperto da poco, gestito da volontari.

Con la pandemia la presenza di persone alla Polveriera è diminuita in modo drastico, e ora si sta faticosamente tentando di recuperare.

Le restrizioni hanno comportato la chiusura del bar-ristorante, che da molti era considerato il “pezzo forte” della Polveriera: perché è molto bello da vedere e in grado di attirare molte persone. Era diventato il punto in cui si fermava chiunque passasse alla Polveriera.

Il bar-ristorante, momentaneamente chiuso (Valentina Lovato/Il Post)

«C’era chi veniva per prendere un caffè e poi si incuriosiva a ciò che succedeva intorno, chiedeva, conosceva chi vive qua», racconta Marta Andrei. Attualmente si sta ancora cercando qualcuno che lo prenda in gestione: la riapertura darebbe una spinta a far crescere le presenze alla Polveriera.

Il bar si trova nell’altro capannone, che è stato pensato in modo molto diverso dal primo perché ha esigenze molto diverse. Qui c’è un grande open space, originariamente senza alcuna separazione tra un ambiente e l’altro (dopo la pandemia è stato necessario inserire alcuni divisori). Ci sono gli uffici del consorzio Romero, una cooperativa che offre supporto e mediazione linguistica e culturale a richiedenti asilo, due agenzie per il lavoro non profit che si occupano in particolare di favorire l’inserimento lavorativo di persone fragili. Poi c’è K-Lab, il negozio con bottega della Polveriera, e gli spazi di Nessuno Escluso, un servizio socio-occupazionale rivolto a persone con disabilità, che è anche il posto più divertente della Polveriera.

Nessuno Escluso

A Nessuno Escluso si fanno un sacco di cose: scenografie per spettacoli teatrali, laboratori artistici e culturali, corsi per l’utilizzo di strumenti informatici e varie altre attività. Praticamente si cambia ogni mezza giornata, e chi passa a salutare sa che deve sempre chiedere cosa si sta facendo in quel momento, perché non è quasi mai lo stesso del giorno prima.

Quando siamo entrati abbiamo chiesto anche noi, e diverse persone ci hanno spiegato pazientemente: «Oggi si sta finendo di riprodurre un’opera di un artista famoso, che servirà per la scenografia di uno spettacolo. Si va un po’ di corsa perché la consegna è vicina».

Tre persone stavano ritagliando un grande pezzo di polistirolo con un archetto da traforo, quando hanno finito si sono rilassate un po’ e si sono presentate.

C’è Vitalii Caniscev, un uomo moldavo di una quarantina d’anni, uno di quelli di cui si fa fatica a capire quando sono seri e quando scherzano. Qualcuno lo ha indicato dicendo che si tratta di «un grande autore di bassorilievi»: Caniscev si è sporto dalla sedia a rotelle per controllare che stessero indicando qualcun altro alle sue spalle: come a dire «io? Sicuri?». Poi si è messo a ridere.

Ha qualche difficoltà ad articolare le parole e le mascherine non lo aiutano, ma dopo poco siamo riusciti a chiacchierare un po’ e ci ha fatto vedere alcuni dei suoi lavori, diversi dei quali sono raccolti sulla sua pagina Facebook. Ce n’è uno a cui tiene particolarmente: è un bassorilievo che lo raffigura di spalle, in sedia a rotelle, con davanti a sé una scalinata ripida.

Dopo pranzo è arrivato anche Giovanni, 21 anni, per il laboratorio informatico: era in programma una lezione per imparare alcune funzionalità di Canva, il programma di progettazione grafica simile a Photoshop. Prima di iniziare ha trovato il tempo per farci vedere alcuni suoi lavori e raccontarci un po’ le sue idee.

Disegna molti schemi che sintetizzano e spiegano concetti complessi, e progetta nei dettagli musei o grandi esposizioni (nel senso proprio di Expo) che rappresentino alcune parti del lungo percorso evolutivo degli esseri viventi. Nel tempo libero disegna e realizza anche progetti più leggeri, per aprire paninoteche e pizzerie.

Il disegno di una ragazza di Art Factory scelto dal sindaco di Reggio Emilia Luca Vecchi durante la prima fase della pandemia (Valentina Lovato/Il Post)

Più tardi, nel tardo pomeriggio, sono arrivanti i ragazzi di Art Factory. Dopo i primi momenti di timide presentazioni, ci hanno raccontato con slancio della loro collaborazione con la mostra Herbarium di Alessandra Calò, all’interno di Fotografia Europea. Con l’aiuto di alcuni grafici e animatori hanno disegnato gli elementi di un video che accompagna la mostra. Erano fieri dei loro taccuini di carta e dei loro profili Instagram, in cui raccolgono schizzi e disegni.

Hanno anche un profilo collettivo che Marco Zanichelli, uno dei responsabili, ci ha raccontato quanto sia stato fondamentale durante il periodo della pandemia: per continuare a seguire i ragazzi, per condividere i lavori e i progetti di ognuno e per mantenere lo spirito di gruppo e collaborazione che avevano costruito.

K-Lab

Le persone occupate nelle attività di Nessuno Escluso contribuiscono anche al progetto di K-Lab, un negozio di oggetti di design che ha due sedi, una in centro città e una alla Polveriera (più lo store online).

«Abbiamo principalmente tre laboratori dove si producono i nostri oggetti», spiega Martina Covi, che lavora a K-Lab. «Uno è Eco Creativo, che lavora alla ceramica e alla stampa grafica, poi c’è un laboratorio nel carcere di Reggio Emilia, che si chiama Semiliberi e fa produzioni alimentari e di falegnameria. Infine il nostro laboratorio di sartoria, qui dietro, dove lavorano ragazze e donne con un passato difficile».

Uno degli spazi dedicati alla sartoria (Valentina Lovato/Il Post)

La Polveriera si occupa in modo specifico del recupero e reinserimento sociale di donne vittime di tratta, che nella sartoria della bottega hanno la possibilità di lavorare e imparare un mestiere.

Il pezzo forte di K-Lab sono le frasi e i disegni stampati sui suoi oggetti, creati da chi lavora a Nessuno Escluso, sotto la direzione creativa di designer, grafici e architetti.

Alcune frasi sono diventate un marchio, ognuna viene inserita in una sua grafica, appositamente creata intorno a quel pensiero e ispirandosi a esso. Si trovano su quaderni, agende, penne, tote bag, tazze per la colazione, magliette.

Alcune delle grafiche composte con gli utenti dei laboratori (Valentina Lovato/Il Post)

Sulle tazze si legge: «Non dimentichiamo le carezze» e «Ho finito le parole gentili». Altre sono meno dirette e più filosofiche: «Solo se fatti di luce possiamo spegnere il buio»; «Unico è il bello di essere diversi»; «Aspiro alla felicità come ogni uomo sano di mente».

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