La miniera delle mele

Per risparmiare energia e tutelare il panorama, in Val di Non hanno riempito 15 km di gallerie con 30mila tonnellate di frutta

di Riccardo Congiu e Claudio Caprara

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In Val di Non, nella zona nord-occidentale della provincia di Trento, c’è una miniera di 80 ettari da cui si estrae dolomia, la roccia sedimentaria tipica delle Dolomiti, che deve il nome al geologo francese che per primo la osservò su quelle montagne: Déodat Gratet de Dolomieu. La dolomia è assai utile in diversi ambiti, soprattutto in quello della fabbricazione del cemento, che è una delle attività più importanti per l’economia della valle.

La miniera si chiama Rio Maggiore, e la roccia di cui è costituita la rende particolarmente adatta anche a un tipo di attività completamente diverso da quello dell’estrazione dei minerali, e assai inusuale per un luogo del genere: la conservazione delle mele, che avviene dopo la raccolta e prima della distribuzione per la vendita, e che può durare anche un anno.

Un meleto sopra il lago di Santa Giustina a Cles (Claudio Caprara/Il Post)

Dal 2015 l’azienda trentina Melinda ha stabilito una parte dei suoi magazzini nelle gallerie della miniera, a 300 metri di profondità, in impianti ad atmosfera controllata che mantengono la temperatura costante in tutte le stagioni. Le chiamano “celle ipogee”, cioè sotterranee, e sono un metodo unico al mondo per la conservazione delle mele.

Le celle ipogee
Una ventina d’anni fa le coltivazioni della Val di Non furono riorganizzate per rendere più efficiente la produzione di mele, che nel giro di pochi anni aumentò. Nel 2010 Melinda ebbe quindi la necessità di ampliare i suoi magazzini per la frigoconservazione, che fino a quel momento si trovavano tutti in spazi esterni, esposti al sole e alle variazioni delle condizioni climatiche.

Una delle gallerie destinate alla conservazione delle mele (Tommaso Merighi/Il Post)

L’azienda cominciò così a pensare come limitare l’occupazione del suolo: da una parte per preservare il paesaggio della Val di Non, dall’altra anche in un modo più interessato, per mantenere più spazio dedicato alle coltivazioni. Un’azienda locale che produce materiali da costruzione, Tassullo, impegnata nelle attività estrattive dalla miniera Rio Maggiore, propose a Melinda di usare 15 chilometri di gallerie che erano rimaste inutilizzate dopo i suoi scavi.

Le attività di scavo nelle miniere avvengono solitamente pochi metri per volta e in zone ben distribuite, per evitare di creare eccessivi vuoti all’interno della montagna: perciò nelle gallerie, una volta scavate, non resta molto altro da fare. La maggior parte delle volte il riutilizzo di quegli spazi, detti “vuoti di cava” o “vuoti di miniera”, si fa riempiendoli con rifiuti, ma solo una volta che i siti sono stati completamente dismessi.

Tassullo e Melinda hanno trovato un modo per utilizzare questi spazi anche durante l’attività mineraria: così nel 2011 è iniziata una sperimentazione sulla conservazione delle mele in quel luogo, supportata da alcuni progetti di ricerca universitari, e dal 2015 è iniziato ufficialmente il loro utilizzo come magazzino sotterraneo.

Oggi Melinda conserva nelle celle ipogee 30mila tonnellate di raccolto, che corrispondono a circa 150 milioni di mele. Non sono tutte le mele dell’azienda, che ogni anno ne produce 400mila tonnellate e continua quindi ad aver bisogno anche dei vecchi magazzini esterni. Di questi però non ne costruisce più, e tutti i progetti di ampliamento degli impianti ora riguardano la miniera, che ha come prossimo obiettivo quello di raddoppiare l’attuale capacità, arrivando a 60mila tonnellate.

Le mele restano lì un anno, uscendo praticamente identiche a com’erano entrate grazie a un sistema che le mantiene a 1 °C e che controlla l’atmosfera in cui vengono conservate.

Una cella ipogea per la conservazione delle mele (Claudio Caprara/Il Post)

Nelle stanze di conservazione vengono isolate. Viene ridotta la percentuale di ossigeno (che è uno dei principali agenti sulla maturazione delle mele) e aumentate quella di azoto e anidride carbonica attraverso un «impianto ad atmosfera controllata». A spiegarlo è stato Mauro Erlicher, direttore degli stabilimenti di conservazione.

Normalmente l’aria è composta al 78 per cento da azoto, al 21 per cento da ossigeno e da altri gas in percentuali molto minori: nelle celle ipogee la percentuale di ossigeno diminuisce fino all’1,3 per cento, l’anidride carbonica viene portata da circa 0,03 a 2,5 per cento, mentre il resto è azoto.

«Praticamente, con questa modificazione dei gas, riusciamo a rallentare il processo di maturazione della mela fino al minimo vitale», spiega Erlicher. A un livello di ossigeno poco più basso, intorno allo 0,9 per cento, la mela andrebbe in anossia, cioè in debito di ossigeno, e sarebbe da buttare.

Quali vantaggi
Oltre a evitare una grande occupazione di suolo, le celle ipogee comportano una serie di ulteriori vantaggi ambientali. La temperatura naturale della miniera è intorno ai 10-11 gradi tutto l’anno: perciò serve molta meno energia per portare le celle a 1 grado – la temperatura a cui si conservano le mele – rispetto a quella che serve nei magazzini esterni, che si trovano in ambienti con temperature assai più elevate, in certi periodi anche oltre i 30 gradi.

Dopo la raccolta, le mele vengono trasportate negli impianti di conservazione. Arrivano lì ancora calde, ma la temperatura naturale della miniera ne assicura il raffreddamento graduale, che viene poi completato negli impianti di conservazione. Per creare le condizioni di atmosfera controllata nelle celle ci vogliono tre o quattro giorni: a quel punto le porte vengono sigillate e non saranno più aperte fino a quando i frutti verranno preparati per la distribuzione.

Le gallerie della miniera sono abbastanza larghe da permettere il passaggio ai grossi camion che trasportano le mele. Scendendo in auto lungo gli spazi scavati, ci si rende conto subito della differenza di temperatura con l’esterno, a causa dell’isolamento garantito dalle rocce.

Una galleria di transito (Tommaso Merighi/Il Post)

Dove si conservano le mele, le pareti di dolomia sono state lasciate quasi interamente com’erano dopo l’attività mineraria, sono tutte perfettamente asciutte e isolate dall’acqua, perché sopra di loro uno strato di marna (un’altra roccia sedimentaria) le rende impermeabili senza bisogno ulteriori di protezioni. È un’altra condizione “naturale” del luogo, ma eccezionale per la conservazione delle mele, che solitamente si fa con pannelli isolanti, costosi e in qualche caso inquinanti, sia nella produzione che nello smaltimento.

Le mele nella valle

Fino alla metà dell’Ottocento, in Val di Non le mele erano praticamente assenti: le coltivazioni prevalenti erano di gelso e vite, ma cominciarono a essere rovinate da alcune malattie che si diffusero in quel periodo, costringendo molte famiglie di agricoltori che dipendevano da quelle coltivazioni a emigrare.

Alcuni provarono a cambiare la destinazione dei campi, investendo sulle mele, e funzionò: il clima della Val di Non e dell’adiacente Val di Sole (vengono anche chiamate valli del Noce) si dimostrò particolarmente adatto a quella coltivazione, che divenne presto un’eccellenza. Dopo decenni di specializzazione sulle mele, dal secondo Dopoguerra gli agricoltori cominciarono a organizzarsi in cooperative, creando molti posti di lavoro per gli abitanti della zona e agevolando un corposo ripopolamento dei paesi.

Nel 1989 venne fondato a Cles – un comune che oggi ha circa 7mila abitanti, in provincia di Trento – il consorzio Melinda, che riunisce tutte le sedici cooperative di agricoltori di mele della zona e che ha oltre 4mila soci produttori. Da allora oltre il 98% delle mele raccolte nei campi della zona finiscono negli impianti di conservazione e distribuzione di Melinda.

Le coltivazioni di mele in Val di Non e Val di Sole si trovano dai 500 ai 1.000 metri di altitudine. Dato che le piante di melo vanno in fiore verso metà aprile, il periodo immediatamente precedente è piuttosto delicato, perché c’è ancora il rischio che in alcune zone più in alto le temperature scendano sotto zero, compromettendo la coltivazione.

Per proteggere le piante è stato studiato un impianto antibrina: i meleti vengono cosparsi da un velo d’acqua, che si congela isolando le gemme non ancora fiorite ed evitando che la loro temperatura scenda troppo. Per ora viene usato solo su pochi ettari di campi, ma è una soluzione potenzialmente interessante, oltre che molto suggestiva da vedere per un osservatore esterno.

Nelle valli si coltivano diverse tipologie di mele, ma solo a tre di queste è stato riconosciuto il marchio DOP, la denominazione di origine protetta, cioè quello che attesta che la qualità e il sapore delle mele del luogo dipendono dalle caratteristiche del territorio in cui nascono: la Golden Delicious (mela gialla), la Red Delicious (la rossa con le 5 punte nella parte inferiore) e la Renetta (giallo-verdastra, più rugosa), che vengono coltivate qui da oltre sessant’anni.

Le varietà in commercio sono il risultato di una lunga ricerca genetica e selezioni che hanno tenuto conto dell’evoluzione del gusto dei consumatori, del sapore e della forma del frutto, ma anche della sua propensione alla lunga conservazione (di questo parliamo nel podcast di Strade blu di questa settimana). I test richiedono tempi lunghi: se oggi assaggiamo una nuova varietà in commercio, si è cominciato a pensarla e a progettarla almeno nel 2012.

Mele in fase di sviluppo (Claudio Caprara/Il Post)

Le varietà delle valli del Noce che non sono più in commercio sono ancora conservate nel Frutteto Storico di Cles, che comprende 80 tipi di mele e 12 di pere, per continuare a testimoniare il patrimonio frutticolo costruito in questa zona negli ultimi due secoli.

Dopo la conservazione
Finiti i mesi di frigoconservazione, quando le mele tornano a contatto con l’aria ricomincia il processo di maturazione, perciò devono essere preparate rapidamente per la distribuzione.

Nel comune di Predaia, al centro della Val di Non e a 500 metri di altitudine, c’è uno stabilimento dove le mele vengono pulite e smistate, completamente automatizzato e supervisionato solo da due persone. Qui le mele sono immerse in acqua potabile, filtrata ogni ora, e sono pulite in modo naturale, senza l’utilizzo di sostanze chimiche.

La stessa acqua viene riutilizzata per un anno, in modo da limitare gli sprechi (ambientali ed economici), grazie a un sistema di filtraggio che permette continuo riciclo. Sono necessarie solo piccole aggiunte, dovute all’acqua che le mele assorbono nel loro passaggio e che portano via con sé.

Finito di attraversare le corsie d’acqua, le mele passano a un “impianto di calibratura”, che le riconosce e smista a seconda delle diverse destinazioni: ci sono 42 possibilità diverse, a seconda del peso, della forma o di eventuali difetti nella buccia, che servono 42 tipi di mercati diversi.

L’impianto di calibratura (Claudio Caprara/Il Post)

I frutti che non rientrano in questi criteri vengono venduti a un prezzo più basso con un diverso marchio Melinda. Oltre un certo livello di ammaccature vengono usate per fare la polpa che si usa nei succhi o in altri prodotti alimentari lavorati.

Melinda vende soprattutto in Italia, ma circa un terzo della sua produzione finisce all’estero, tra Europa, Nord Africa, India e, in misura molto minore, Brasile. Questi spostamenti internazionali devono avvenire in pochissimi giorni, in modo che le mele si mantengano in buone condizioni: le stesse che avevano quando erano state raccolte, cosa che spesso accade un anno prima.

Strade blu è anche un podcast e una newsletter; il progetto è realizzato con il contributo di