L’arte di reinventare una città

Due professionisti hanno scelto di abitare a Favara, nel centro della Sicilia, invece che a Parigi e ne hanno fatto una piccola capitale internazionale dell'arte contemporanea

di Riccardo Congiu e Claudio Caprara

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Charles Landry è un autore britannico che negli anni Ottanta del Novecento teorizzò e rese popolare il concetto di “creative city”, città creativa: un approccio ai processi di cambiamento e rigenerazione delle città basato sull’utilizzo dell’arte e della cultura. Oggi ha quasi 74 anni, è considerato un esperto mondiale di sviluppo urbano e nel tempo ha lavorato come consigliere di governi e organizzazioni internazionali per realizzare i piani di rinnovamento di decine di città in tutto il mondo, sempre partendo da uno studio delle comunità che ci vivono, della loro psicologia collettiva e delle loro potenzialità, ma lavorando soprattutto su come trasformare in opportunità i punti deboli di quei luoghi.

Nel 2020, i quarant’anni del suo lavoro su questi temi sono stati celebrati e raccontati in una mostra dal titolo The Art of Creative City Making by Charles Landry (“L’arte di rendere la città creativa di Charles Landry”) a Favara, una città siciliana di poco più di 30mila abitanti. Non è un caso che la mostra sia stata organizzata qui: Favara fino a pochi anni fa era un posto che aveva poco da offrire ai visitatori, in una delle province più povere d’Italia, Agrigento, e nemmeno sulla costa. Il centro storico si stava svuotando e molti edifici erano in uno stato di progressivo degrado.

La chiesa madre Madonna Assunta di Favara (Claudio Caprara/Il Post)

Nel 2010 nacque un progetto per rigenerare diversi spazi e farli diventare un centro culturale, proprio secondo i dettami della “città creativa” di Landry.

Il centro oggi comprende un museo di arte contemporanea, una residenza per artisti, installazioni, spazi in cui si organizzano mostre ed eventi e altri progetti e iniziative culturali e politiche.

Si chiama Farm Cultural Park ed è la ragione per cui proprio a Favara – apparentemente non diversa da molte altre cittadine siciliane con una grande storia culturale, ma pochi progetti innovativi per valorizzarle – ogni anno si incontrano decine di artisti, architetti, fotografi e intellettuali, oltre a migliaia di amanti dell’arte.

Uno dei cortili di Favara (Tommaso Merighi/Il Post)

Portare a Favara Charles Landry era stato per lungo tempo il sogno di Andrea Bartoli, che insieme alla moglie Florinda Saieva ha fondato Farm Cultural Park. «Quando inizi un progetto di questo tipo non hai molti colleghi, non c’è un manuale di istruzioni che ti dice: “giorno 1 fai questo, giorno 2 fai quest’altro, giorno 3 fai un’altra cosa…”», dice.

Quel manuale per lui erano stati i libri di Landry sulla “città creativa”, che avevano fissato gli obiettivi a cui aspirava per Favara.

O Parigi, o Favara

Andrea Bartoli in realtà con l’arte sembrerebbe non avere molto a che fare: nella vita fa il notaio, e sua moglie Florinda Saieva l’avvocata. Prima del 2010 avevano vissuto per un periodo tra Favara e Parigi, dove avevano un’altra casa, e quando la più grande delle loro due figlie compì 3 anni si trovarono a dover scegliere dove mandarla all’asilo, una decisione che ne implicava altre più a lungo termine: «Diciamo che mi sarebbe piaciuto costruire la nostra famiglia a Parigi», dice Bartoli. Effettivamente la capitale francese sembrava più attraente di Favara.

Alla fine decisero di restare in Sicilia, facendosi però una promessa, che Bartoli racconta: «Abbiamo deciso che non ci saremmo mai lamentati e pianti addosso, non avremmo mai aspettato che qualcuno ci cambiasse la vita, ma avremmo fatto noi tutto quello che potevamo per migliorare Favara».

Cominciarono a progettare il recupero del centro storico e quello che poi sarebbe diventata Farm Cultural Park.

Il progetto Human Forest all’interno di Palazzo Miccichè (Claudio Caprara/Il Post)

Fu «un’esigenza personale: volevamo vivere in Sicilia senza sentire la necessità di scappare per respirare», dice Bartoli, «sentivamo il dovere di fare qualcosa che facesse stare bene noi e le nostre figlie, ma anche di aiutare il nostro territorio».

L’obiettivo che si erano dati per la prima apertura del nuovo centro culturale era il 2012, ma all’inizio del 2010 a Favara ci fu un incidente che li spinse ad anticipare tutte le operazioni: il 23 gennaio crollò una palazzina del centro storico, causando la morte di una ragazzina di 14 anni e della sorella più piccola, di 4 anni. Fu un momento di grande dolore collettivo per tutta la città, compresi Bartoli e Saieva, che decisero di far partire il prima possibile il loro progetto.

Cinque mesi dopo, il 25 giugno, fu inaugurata Farm Cultural Park all’interno del Cortile Bentivegna, nel centro storico di Favara, con un evento pubblico e una serie di mostre d’arte molto inusuali per le abitudini di quel posto, almeno fino a quel momento.

I “Sette cortili” che compongono il Cortile Bentivegna erano stati largamente rinnovati, e da quel giorno diventarono lo spazio principale di Farm Cultural Park, dove ancora oggi hanno sede gli eventi e le esposizioni più importanti.

Bartoli dice che la costruzione di Farm fu per la sua famiglia un modo «per trovare il nostro posto all’interno della società». Una volta avviato il progetto anche Parigi smise definitivamente di essere un’opzione.

Il notaio

«In questo progetto abbiamo capito quanto l’arte, l’architettura, il design e la creatività siano importanti – dice Bartoli – come strumenti nobili per trasformare il territorio, per migliorare la vita delle persone ed emanciparle, per creare futuro». La passione per l’arte fu trasmessa a Bartoli dalla famiglia: lui professionalmente scelse tutt’altro, suo fratello però oggi è un collezionista. Quello a Farm Cultural Park non lo considera un lavoro, ma ormai è come se lo fosse, e in alcuni periodi il tempo che gli dedica supera quello per il lavoro di notaio.

Dice di non sapere se la sua occupazione principale lo abbia aiutato, in questi dodici anni di esistenza di Farm: «C’è un certo rigore nella professione notarile che poi ti porti nella vita, o forse proprio per quel rigore senti il bisogno di fare qualcosa di diverso. Un amico architetto venezuelano un giorno ha passato tutta la giornata con me allo studio notarile, alla fine mi ha detto: “Ho capito perché hai fatto Farm”». In realtà Bartoli racconta di fare il notaio ancora con grande passione, e di apprezzare questa alternanza di approcci nelle sue giornate.

Diversi amici e conoscenti in questi anni gli hanno dato del matto, non tanto per il progetto in sé, che si è dimostrato di successo e molto apprezzato, quanto per il fatto che per anni si è sostenuto grazie agli investimenti dello stesso Andrea Bartoli e di sua moglie Florinda Saieva, senza che ci fosse un ritorno in termini economici. «Ogni tanto viviamo quel senso di frustrazione di non riuscire a far capire ai colleghi, o ad altri professionisti e imprenditori, quanto ti torna indietro quando sei disposto a dare», dice Bartoli.

«Nel tempo Farm è diventata sempre più sostenibile, anche se quando serve continuiamo a finanziarla con le nostre risorse: lo faremo finché ce lo potremo permettere, perché crediamo che sia giusto così».

Questo non significa che anche economicamente non ci siano state difficoltà, spiega Bartoli: «Abbiamo realizzato tutte queste cose con grande fatica, facendo debiti, soffrendo, inventando budget che non esistevano». Oggi, grazie a migliaia di visitatori paganti e a bandi vinti per diversi progetti, c’è un ritorno che a volte permette di reinvestire i proventi per ampliare l’offerta e le iniziative.

«Stiamo cercando di avere un ruolo nella trasformazione di questi luoghi – dice Bartoli –, non rinunciando all’idea che quello che facciamo a Favara possa servire a Detroit, a New York, a Marrakech».

Una visita guidata

Andrea Bartoli fa volentieri da guida tra gli spazi di Farm Cultural Park, e racconta con fierezza e nei dettagli ogni opera d’arte che si incontra lungo il percorso. Ci aspetta all’ingresso dei Sette cortili, la base principale del centro culturale diffuso: sono sette corti collegate tra di loro di matrice araba, come molte altre influenze culturali del luogo.

È arabo anche il nome della città, Favara, che più o meno significa “fonte d’acqua sorgiva”, o “getto d’acqua”.

I Sette cortili si sviluppano su più edifici e spazi all’aperto, con quasi tutte le pareti occupate da opere d’arte. La prima che ci si trova di fronte è un’opera dell’artista e designer italiano Alberonero, una parete con un’alternanza di quadrati colorati che danno l’impressione di andare verso l’alto e che si chiama “Soaring”, ascensione.

A sinistra c’è l’elefante di ROA, street artist belga famoso per i suoi murales di animali, che ha dipinto sui muri in tutti i continenti. Quello di Favara è uno dei muri più strani su cui ha lavorato, perché è una parete irregolare e sgretolata, le cui imperfezioni però sono state sfruttate da ROA per far risultare la ruvidità della pelle dell’elefante.

L’elefante di ROA (Claudio Caprara/Il Post)

Siamo arrivati a Favara a pochi giorni dalla chiusura di Countless Cities, un festival che si svolge a Farm dal 2019 e definito “la biennale delle città del mondo”. Si può ancora fare un giro tra le installazioni, perché è ancora tutto lì: Bartoli ci spiega che a Farm c’è l’abitudine di non togliere l’allestimento fino alla manifestazione successiva, così chi passa da Favara nei periodi tra una mostra e l’altra può vedere qualcosa.

Gli eventi come Countless Cities si svolgono dentro Farm XL, una galleria d’arte di 500 metri quadrati i cui spazi vengono di volta in volta adibiti per mostre temporanee, e che in questa occasione è stata organizzata in una serie di padiglioni dedicati ognuno a una diversa città, allestiti da artisti e fondazioni da tutto il mondo.

La mostra vuole stimolare riflessioni sullo sviluppo innovativo delle città nel mondo, ognuna bisognosa di approcci differenti e personalizzati sulla base della sua storia, delle sue caratteristiche geografiche, delle esigenze della sua comunità.

«Benvenuti a Santiago del Cile», ci dice Bartoli entrando in un padiglione in cui uno schermo manda in onda immagini della città, mentre dalle casse esce un suono molto fastidioso che dura quasi tre minuti: «È la durata del terremoto che c’è stato nel 2010 a Santiago, di magnitudo 8.8».

Residenza per artisti

Gli artisti che si fermano a Favara, come quelli che hanno lavorato ai padiglioni di Countless Cities, sono ospitati negli spazi di Farm.

Al momento si sta lavorando anche a un ampliamento della residenza, che durante l’anno ospita anche bambini e studenti universitari da tutto il mondo per corsi e laboratori. Nei Sette cortili intanto hanno aperto bed and breakfast e altri servizi per il turismo.

Una volta avviata Farm, attirare artisti non è stato difficile, dice Bartoli: «La Sicilia è un posto affascinante di per sé, quindi è molto facile portare chiunque. Poi tra passaparola e giornali gli artisti arrivano, vogliono tornare, creano comunità e diventano parte sostanziale di questa sfida». Molti di loro a Favara trovano una zona franca in cui poter sperimentare cose nuove.

Da qualche anno Farm si è allargata anche in altri palazzi distaccati dal nucleo centrale dei Sette cortili. Mentre passeggiamo verso Palazzo Miccichè, Bartoli si ferma davanti a un portone in ferro molto semplice, colorato in arancione, verde e rosa: «Questo per esempio l’ha dipinto Momo», cioè uno dei più importanti street artist contemporanei, originario di San Francisco. «Se qualcuno lo sapesse e se lo smontasse potrebbe venderlo a 15-20mila euro – dice scherzando Bartoli –, un’opera di Momo oggi ne vale anche 400mila».

A Palazzo Miccichè invece c’è un’installazione permanente chiamata “Human Forest”: in pratica tutto l’interno dell’edificio è diventato una foresta, con alberi e piante quasi in ogni spazio disponibile.

Il progetto Human Forest a Palazzo Miccichè (Claudio Caprara/Il Post)

L’obiettivo dell’installazione è mostrare che è possibile mettere alberi anche fuori, ovunque, se si può “forestare” un palazzo: per cinquant’anni quel palazzo era rimasto pieno di macerie e spazzatura. «Era in rovina – dice Bartoli – negli ultimi tre anni saranno passate 60mila persone paganti».

Una casa per tutti

Andrea Bartoli e Florinda Saieva hanno progetti ma sono anche molto pragmatici: il primo obiettivo di Farm per i prossimi anni è continuare a gestire tutte le cose che si fanno già ora, che sono tantissime.

Tra i progetti a cui tengono di più c’è SOU, la scuola di architettura per bambini, che si chiama così in onore di uno dei più noti progettisti di architettura contemporanea al mondo, Sou Fujimoto: «Nel 2018 i nostri bambini di Favara sono stati a Parigi a incontrarlo – racconta Bartoli –, è stato emozionante. Nel 2019 invece siamo andati a Londra, anche con i genitori: eravamo 83 e siamo stati ospiti dell’architetto Norman Foster. I bambini di Favara fanno cose che quelli di Milano, di New York, di Tokyo si sognano di fare».

Oggi la scuola ha 12 filiali in Italia e i corsi sono gratuiti, grazie al sostegno di vari enti e delle persone che hanno voluto aderire ai progetti nati dentro Farm.

Poi c’è Prime Minister, la scuola di politica per giovani donne, con 30 studentesse dai 13 ai 19 anni, che ha l’obiettivo di formarle su temi di democrazia, attivismo, giustizia sociale, leadership femminile.

C’è anche il progetto “Libera Tutti”, per donne della provincia di Agrigento tra i 18 e i 29 anni non occupate e che non studiano: è composto di molti workshop per fare un percorso psicologico, ma anche per scoprire le opportunità offerte dal territorio, o semplicemente culturali, con la realizzazione di progetti artistici in città.

Le iniziative sono molte e nascono di continuo nuove opportunità di incontro, e quindi nuove idee che i due fondatori sono sempre entusiasti di ascoltare.

Nell’ultimo anno Bartoli e Saieva hanno anche inaugurato una nuova sede a Mazzarino, in provincia di Caltanissetta: la chiamano “Embassy of Farm”, l’ambasciata di Farm. Ha sede in un antico palazzo che era residenza della famiglia Bartoli e che ora è diventato un museo e uno spazio per tutti, come Farm a Favara.

«Nei primi dieci anni è come se avessimo realizzato un’utopia: quella di trasformare un centro storico abbandonato in una grande attrazione turistica e culturale. Quello che era considerato un paese di mafia, abusivismo e abbandono è diventato una città dei giovani, una città dell’arte, una piccola capitale mondiale della rigenerazione urbana», dice Bartoli.

Negli ultimi tre anni Charles Landry, il suo ispiratore, è stato a Favara quattro volte.

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