La Comunità Progetto Sud

Dal 1976 è attiva a Lamezia Terme con progetti per favorire l'autodeterminazione delle persone emarginate, oggi gestisce l'unico centro per l'autismo della Calabria

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Il 9 febbraio di quest’anno ha aperto a Lamezia Terme, in Calabria, un centro diagnostico per i Disturbi dello Spettro Autistico (DSA): è il primo nella Regione e uno dei pochissimi al Sud, dove spesso le famiglie che cercano visite specialistiche per questo genere di disturbi sono costrette a spostarsi molto, verso nord.

I DSA vengono spesso fatti rientrare nella definizione più generica e impropria di “autismo”, che però si riferisce a un ampio gruppo di disturbi comportamentali, emotivi e della comunicazione, e di vari gradi e intensità: negli ultimi anni si è quindi cominciato a parlare in modo più pertinente di “spettro autistico”, per tenere conto della variabilità delle situazioni e delle diverse gravità.

Proprio a causa di questa grande varietà, la diagnosi precoce – da effettuarsi quando un bambino o una bambina hanno tra i 12 e i 18 mesi di età – è fondamentale per individuare il tipo di disturbo e capire come affrontarlo. In Calabria invece se una famiglia ha un figlio con un disturbo dello spettro autistico non solo fa fatica a scoprirlo, ma una volta scoperto non ha quasi strutture a disposizione che lo assistano durante l’infanzia e l’adolescenza, o che spieghino ai genitori come comportarsi.

Solo a Lamezia Terme c’è un Centro Psico Educativo Autismo, attivo dal 2017 e all’interno del quale è nato anche il centro diagnostico. Li gestisce entrambi la sociologa Angela Regio, che è responsabile di tutti i servizi legati alle disabilità di Comunità Progetto Sud, un grande gruppo autogestito che dal 1976 è impegnato in progetti per aiutare l’autodeterminazione delle persone emarginate, a partire da quelle con disabilità.

La sede della Comunità Progetto Sud (Tommaso Merighi/Il Post)

Regio dice di non essere per niente soddisfatta di questo primato, cioè del fatto che il loro sia l’unico centro per l’autismo disponibile in Regione: «Dovrebbe essercene uno in ogni provincia, è un diritto dei cittadini», dice, e specifica che dovrebbero essere garantiti dall’amministrazione regionale, piuttosto che gestiti da gruppi indipendenti come il suo.

Il centro di Lamezia è la prova che queste esperienze funzionano e che potrebbero essere replicate: «I nostri risultati sono ottimi: ci sono bambini che entrano con un disturbo dello spettro autistico molto forte e che nel tempo riescono a ridurre molto i comportamenti problematici, che non li aiutano a socializzare. Perché è di questo che parliamo: un disturbo della socializzazione. Se si interviene presto si riescono ad ottenere risultati molto positivi».

Per questo, dice Angela Regio, la recente apertura del centro diagnostico per i DSA è stata anche un atto politico: «In Calabria serve un centro di neuropsichiatria infantile come si deve. Se ci fosse, non ci sarebbe quasi bisogno di centri come il nostro. Aprirne uno nuovo per noi è anche un modo per dire alle amministrazioni: “sbrigatevi!”».

I disturbi dello spettro autistico
Non esiste un dato su quanti bambini e adulti in Calabria soffrano di disturbi dello spettro autistico. È certo che negli ultimi due decenni i casi siano molto aumentati in tutto il mondo: la ragione principale è che abbiamo strumenti migliori per diagnosticarli e per riconoscere i molti sintomi associati a questi disturbi, che fino a non molto tempo fa a volte venivano catalogati in altro modo e che nei casi meno gravi finivano spesso per non ricevere un’attenzione adeguata.

Tra i sintomi più comuni l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) cita problemi nella comunicazione verbale e non verbale (una delle possibilità dello spettro autistico è che una persona non parli, pur potendolo fare), difficoltà nelle relazioni sociali e il fatto di avere un numero limitato e ripetitivo di interessi e di attività predilette. Le stime del ministero della Salute, aggiornate a gennaio 2022, dicono che in Italia 1 bambino su 77 di età compresa tra i 7 e i 9 anni ha un disturbo dello spettro autistico. In tutto il mondo si nota una netta prevalenza nei maschi (in Italia sono 4,4 volte di più rispetto alle femmine).

Attualmente l’origine di questi disturbi non si conosce precisamente: le prove scientifiche, scrive l’OMS, suggeriscono che diversi fattori genetici e ambientali possano avere un ruolo nello sviluppo cerebrale precoce e contribuire all’insorgenza dell’autismo. Si conoscono però diverse strategie terapeutiche che sono state perfezionate negli anni e che hanno dimostrato di poter dare ottimi risultati.

«Più si interviene con la diagnosi precoce, più un bambino può tornare al livello sociale, con meno costi per la sua vita nel futuro», spiega Regio. «Una persona con disturbi dello spettro autistico non deve vivere nei centri: deve vivere la sua vita, passando nei centri il tempo minimo che le serve per poi gestirsi da sola».

Il centro

Al Centro Psico Educativo Autismo di Lamezia lavorano psicologi, terapisti, supervisori e neuropsichiatri infantili. Il primo punto fermo da cui si parte è che non esiste una cura, anche perché i DSA non sono una malattia: «Bisogna diffidare di sedicenti specialisti che promettono una presunta guarigione, come se ci fosse da “aggiustare un giocattolo rotto”», dice Regio. «Non si aggiusta niente: quel che si fa è partire da una persona e cercare di farla vivere nel modo migliore possibile all’interno del suo contesto e del suo modo di essere. Ed è ovviamente molto più complesso».

Il principale metodo usato nel centro è il cosiddetto “ABA” (Applied Behaviour Analysis) – che è incentrato su una serie di obiettivi da raggiungere nel minor tempo possibile ed è l’unico riconosciuto a livello internazionale come basato su evidenze scientifiche – unito a un approccio sistemico (che semplificando molto è quello che prende in carico anche la famiglia in un percorso di educazione al disturbo) e a uno psicodinamico (anche qui semplificando: quello che tiene conto dei meccanismi mentali alla base delle difficoltà relazionali e comportamentali).

Il centro di Lamezia attualmente ha in carico 26 bambini e ragazzi, con una prevalenza di età fra i 3 e i 7 anni, ma in alcuni casi anche adolescenti. Le richieste sono molte e non è semplice gestirle tutte, perché lo spazio è ben definito e il numero degli operatori limitato: è necessario avere un terapeuta per ogni bambino o bambina e talvolta ce ne sono anche due che si alternano (in modo che i bambini non si abituino eccessivamente a una sola presenza).

Le stanze del centro sono organizzate a seconda dei bisogni e quasi sempre sono personalizzate per il programma che sta seguendo il bambino o la bambina. In quasi tutte si svolgono terapie individuali. Il materiale cambia in base alla loro personalità e alla loro situazione, spiega Regio: «Per ognuno bisogna inventarselo da zero: per noi anche farli andare in bagno o mangiare un panino può essere una terapia. E per arrivare a quell’obiettivo organizziamo le attività di conseguenza».

C’era un bambino, per esempio, che odiava il fatto di doversi tagliare i capelli, con i genitori che erano costretti a farlo di notte. «Allora abbiamo fatto un lavoro di desensibilizzazione», racconta Regio, «prima abbiamo cominciato a toccarglieli di tanto in tanto, poi a spettinarglieli, fino a che siamo andati insieme a lui col papà dal barbiere per prendere confidenza col luogo, almeno 5 volte prima di tagliarli effettivamente». Ora il bambino va senza problemi dal barbiere con regolarità: «È un tipo di apprendimento che dura, ma è molto faticoso».

Le stanze in cui si svolgono le attività per i ragazzi (Tommaso Merighi/Il Post)

In una stanza è appesa una mappa concettuale con scritta una sorta di lista delle cose da fare di uno dei bambini. Dice: «Preparo il pranzo con Martina in cucina/attività motoria al centro/passeggiata sul corso/vado al supermercato/vado a casa». Regio ci spiega: «Tantissimi bambini con DSA hanno bisogno di sapere quello che gli succederà, l’imprevedibilità li inibisce e noi cerchiamo di evitarla in tutto. È una delle cose più importanti».

È un elemento che accomuna diversi disturbi dello spettro autistico, ma anche le situazioni più simili non sono mai sovrapponibili, anche perché ogni disturbo viene poi influenzato dal contesto in cui il bambino è inserito, dalla famiglia, dai luoghi che vede e dalle persone che incontra. A volte ci sono situazioni di disagio familiare che rendono ancora più difficile trovare terapie efficaci, e il processo è molto più lento. Per questo i programmi del centro prevedono anche «un lavoro di cucitura nel contesto in cui abita il bambino o la bambina: la scuola, la famiglia, il quartiere», dice Regio.

Da poco sono iniziati i “sabati del villaggio”, cioè attività che prevedono un’uscita con le terapiste e i terapisti: andare a mangiare una pizza, un gelato, o andare al supermercato, in modo che i bambini si abituino ad affrontare questi contesti anche quando sono con la famiglia. «Una delle prime cose che dicono molti genitori di bambini con DSA è che è impossibile portarli al supermercato – dice Regio – è un luogo con troppi stimoli che li manda in confusione. Bisogna abituarli con pazienza e gradualità». È un’attività educativa per loro, ma anche per altre persone, secondo Regio: «Solo così possono capire come comportarsi quando incontrano un bambino con DSA, o cosa è sbagliato fare. Così si educa una comunità».

Le difficoltà del luogo

In Calabria il Centro Psico Educativo Autismo svolge, oltre al suo lavoro di assistenza che raggiunge tutta la Regione, un lavoro di divulgazione di informazioni utili che altrimenti non verrebbero diffuse, e di attivismo per i cittadini che non sanno come muoversi. Da poco Regio ha aiutato una quindicina di famiglie a ottenere il rimborso per le terapie ABA, che altrimenti avrebbero dovuto pagare di tasca propria.

In sostanza il centro e chi ci lavora stanno contribuendo a creare una cultura sanitaria in una Regione in cui la sanità pubblica è commissariata da 12 anni a causa delle infiltrazioni della criminalità organizzata, con i molti problemi che ne derivano.

Il centro è nato un anno prima che ci fosse una legge sui centri per l’autismo, ed è ancora in attesa di ricevere l’autorizzazione per diventare un centro accreditato.

«Il sistema sanitario regionale non ha ancora recepito i centri di questo genere», spiega Regio, «si muovono ancora con la logica dei vecchi centri senza considerare queste necessità specifiche: ecco perché noi abbiamo fatto questa scommessa di iniziare senza il riconoscimento. Siamo nati in modo indipendente, col sostegno di una fondazione svizzera».

Prima del 2 ottobre 2017, cioè quando è stato fondato il centro, non c’era un luogo di terapia per i bambini con DSA. Molti venivano portati nel centro di riabilitazione di Comunità Progetto Sud, dove lavoravano la stessa Angela Regio e alcune delle persone che oggi lavorano nel centro per l’autismo. Lì però i bambini potevano fare solo attività di psicomotricità, logopedia e poco altro. «A un certo punto erano sempre di più e ci siamo detti: dobbiamo inventarci un centro intensivo», racconta Regio. E così hanno fatto.

È una genesi molto simile a quella con cui è stato creato quest’anno il centro diagnostico: quella per cui si trova un modo per rispondere a un bisogno immediato e per colmare una mancanza del territorio, senza eccessiva progettualità.

È più o meno così che sono nate tutte le iniziative che fanno capo a Comunità Progetto Sud, che oggi sono decine e decine tra Lamezia Terme e dintorni, e comprendono reti a sé stanti con al loro interno altri progetti e diramazioni. Anche la prima iniziativa nacque per caso e per necessità, nel 1976, per merito di Don Giacomo Panizza.

La rete di cooperative e associazioni che fanno parte della Comunità Progetto Sud

Essere autosufficienti

Nel 1975 Don Giacomo Panizza era un giovane prete, nonché studente prossimo alla laurea in teologia. Era già 28enne perché prima di iniziare gli studi aveva lavorato per anni in fabbrica.

Gli proposero di andare a guidare per 5 anni una parrocchia a Lamezia Terme, dove nessuno voleva andare perché troppo lontano: lui accettò, pensando che lì avrebbe trovato nuovi spunti per concludere la sua tesi di laurea. Quasi 47 anni dopo è ancora lì, anche se i molti anni in Calabria non hanno intaccato il suo assai marcato accento bresciano (è nato in un paesino in provincia, Pontoglio).

«Nei primi 10-15 mesi cominciai a seguire un gruppo di ragazzi in sedia a rotelle – racconta Don Panizza – e scoprii che avevano il terrore di finire in manicomio».

La legge Basaglia, che abolì i manicomi, sarebbe arrivata nel 1978, e ancora all’epoca le persone con qualsiasi disabilità potevano facilmente finirci: era un modo per eliminare il problema dell’assistenza. In zona c’erano 4 strutture di questo tipo: 2 pubbliche a Girifalco e Reggio Calabria, e 2 della Chiesa a Serra D’Aiello e Catanzaro. «Bastava che non ci fosse più nessuno a curarti e finivi in manicomio, non c’era diagnosi», racconta Don Panizza, «erano luoghi di ammucchiamento e certo non di aiuto: Basaglia non c’era ancora, ma c’erano le mie idee».

Così questi ragazzi chiesero aiuto al nuovo arrivato, Don Panizza, per non finire in manicomio e avere una vita dignitosa. Gli raccontarono di essere emarginati e di stare sempre in casa, fatta eccezione per un solo viaggio ogni anno, a Lourdes, soltanto per dare una settimana di sollievo alle proprie famiglie. Don Panizza gli disse che avrebbe potuto aiutarli a fare a meno di lui. Si fece dare un’ala dal seminario minorile e la rese una casa per un “gruppo di convivenza”, in cui lui stesso avrebbe vissuto con loro: ancora oggi vive in quella casa con un gruppo di ragazzi in sedia a rotelle.

Poi spiegò loro che non aveva molte idee, se non quella di lavorare – lui e loro – per mantenersi e cercare di essere autosufficienti. Così nacque Comunità Progetto Sud, ufficialmente nel 1976.

La cosa incredibilmente funzionò: il gruppo cominciò a sbarcare il lunario producendo e vendendo oggetti di manifattura. Si lavorava dalle 9 alle 14, poi si pranzava e al pomeriggio Don Panizza faceva lezione di scrittura, di filosofia, di matematica.

«Già nell’agosto del 1977 con quei soldi – racconta Don Panizza – affittammo un appartamento in centro per i minori che uscivano dal carcere minorile di Catanzaro. È una cosa che oggi esiste ancora, il progetto si chiama “Minori 78”».

I ragazzi in sedia a rotelle si videro improvvisamente utili e centrali: «Si pensavano come persone da assistere, ora assistevano», dice Don Panizza. Gli appartamenti in cui vivevano cominciarono ad aumentare di anno in anno ospitando altre persone e iniziative, sempre legate alla disabilità o al sostegno di persone in difficoltà, ma con l’obiettivo di renderle indipendenti.

Oggi Comunità Progetto Sud è una rete enorme, «di cooperative, associazioni, gruppi spontanei, genitori, chiunque voglia», dice Don Panizza. Cita alcune iniziative tra le molte: «Una squadra di calcio di minori non accompagnati, una comunità terapeutica per le dipendenze, una casa per le donne che vengono picchiate da compagni violenti. Seguiamo la tratta delle donne che vengono dall’Africa, ma anche la tratta degli uomini che vengono sfruttati per il caporalato nelle tre pianure della Calabria». Ci sono circa 130 migranti che vivono in 23 case, «tutti in affitto e in città diverse eh! Abitano con altri, mica li mettiamo tutti intruppati, altrimenti come si integrano?», chiede retoricamente Don Panizza.

Negli anni il prete bresciano si è dovuto scontrare con la criminalità organizzata: cominciò rifiutandosi di pagare il pizzo con le prime attività di Comunità Progetto Sud, e nel tempo è diventato un testimone di giustizia ed è finito sotto sorveglianza per la sua sicurezza personale. Ma si è scontrato anche con i suoi stessi colleghi sacerdoti, molti dei quali non vedevano di buon occhio il fatto che portasse così alla leggera persone con disabilità nei luoghi sacri, e arrivò anche a subire un processo canonico per i suoi metodi non convenzionali.

Gli ultimi prodotti della rete che creò 46 anni fa sono il Centro Psico Educativo Autismo e il nuovo centro diagnostico per l’autismo, in perfetta continuità con la tradizione: anche qui l’obiettivo è rendere i pazienti autosufficienti e dar loro gli strumenti per cavarsela da soli.

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