Dove un tempo c’era Cariddi

Oggi c'è la sede della Fondazione di Comunità di Messina, che ha ridato valore al luogo del mostro marino dell’Odissea e sta realizzando sul territorio un welfare sostenibile

di Riccardo Congiu e Claudio Caprara

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Nel 1978 la cosiddetta “legge Basaglia” – dal nome dello psichiatra che la ispirò con le sue idee – abolì i manicomi in Italia, e con essi anche i manicomi criminali, cioè le strutture per persone con disturbi mentali che avevano ricevuto una condanna. Al posto dei manicomi criminali vennero istituiti gli Ospedali psichiatrici giudiziari (OPG), che però furono sempre giudicati troppo simili ai loro predecessori e ricevettero molte accuse di violazioni dei diritti umani: fino a che una legge del 2014 stabilì la loro chiusura e il passaggio a strutture più adeguate, le REMS (Residenze per le misure di sicurezza), che comunque restano oggi al centro di discussioni e hanno ancora molti problemi.

Tra i problemi principali degli OPG c’erano la mancanza di piani efficaci per il reinserimento in società delle persone internate e il rischio di arrivare a quelli che venivano chiamati “ergastoli bianchi”: cioè condizioni di detenzione prolungata, pur in presenza delle condizioni per dimettere i pazienti. Capitava molto spesso che, in assenza di strutture sanitarie sul territorio disponibili ad accogliere chi usciva dagli OPG, i giudici decidessero di prorogare le misure di sicurezza delle persone internate anche quando erano giudicate non più socialmente pericolose, dando origine di fatto a pene detentive permanenti e a ingiuste limitazioni della loro libertà personale.

Nel 2010 all’Ospedale psichiatrico giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto, in provincia di Messina, successe una cosa in totale controtendenza con questo fenomeno: 59 persone ospitate al suo interno, e che si trovavano in questa condizione di “proroga delle misure di sicurezza”, furono fatte uscire con la garanzia che ci fosse per loro un lavoro e un’abitazione controllata. L’operazione era stata progettata dalla Fondazione di Comunità di Messina, un ente non profit che era nato da poco su iniziativa di una rete di associazioni e consorzi attivi sul territorio.

Il parco della Fondazione di Comunità di Messina (Tommaso Merighi/Il Post)

Da una parte la Fondazione di Comunità si sostituì a quello che avrebbe dovuto fare la sanità pubblica con le cosiddette “comunità terapeutiche”, ossia luoghi in cui chi era stato in un OPG potesse fare un percorso di reinserimento sociale e lavorativo, fino a raggiungere il più alto grado possibile di indipendenza. Di fatto però questi posti erano raramente disponibili e la loro mancanza portava appunto agli “ergastoli bianchi”.

Dall’altro innovò quel paradigma: i promotori dell’iniziativa chiesero all’amministrazione pubblica a quanto ammontasse il budget annuale per mantenere una persona in una “comunità terapeutica”, e riuscirono a farsi affidare quei fondi per le 59 persone dell’OPG di Barcellona Pozzo di Gotto, che decisero volontariamente di partecipare al progetto.

La fondazione gestì quei soldi – aggiungendone altri suoi e altri ancora attraendo investimenti da istituzioni come Banca Etica – e finanziò tra l’altro la costruzione di un parco di pannelli fotovoltaici “diffuso” sui tetti di molte abitazioni della zona, facendo nascere così una delle prime comunità energetiche italiane. I partecipanti a questo progetto erano spesso famiglie in condizioni di disagio, a cui fu garantita la corrente elettrica gratuita derivante dai pannelli. Ai 59 usciti dall’OPG, un lavoro nell’installazione del parco e nella sua manutenzione, che richiedeva interventi periodici e durava 20 anni (e infatti è ancora in corso).

L’energia prodotta in eccesso rispetto a quella necessaria alle famiglie viene invece tuttora venduta dalla Fondazione di Comunità, che con i proventi crea piccoli fondi per sostenere l’inclusione socio-lavorativa di quelle 59 persone, come spiega il fondatore e segretario generale della Fondazione di Comunità, Gaetano Giunta: «Non tutti sono andati a lavorare nel parco fotovoltaico. Alcuni lavorano in un agriturismo, in attività culturali, o nella gestione di alcune delle nostre associazioni. Se a causa della loro malattia queste persone hanno dei deficit di produttività, quel gap lo copriamo noi attingendo al fondo che si è creato negli anni».

Fu un modo innovativo di concepire il reinserimento sociale di queste persone e la loro autonomia fuori dall’OPG: «Una persona in quelle condizioni non deve trovarsi di fronte alla scelta tra vivere da sola e vivere reclusa», dice Giunta, «ci sono diversi livelli di sostegno: a volte basta qualcuno che la faciliti nelle attività quotidiane».

Oggi la maggioranza del nucleo originario vive in autonomia; i pochi che non sono riusciti a mantenere un lavoro sono sostenuti dalla fondazione con un reddito minimo e vivono in situazioni di ospitalità protetta. «Ma nessuno più in istituzioni di internamento totale», dice Giunta.

Nuovi modelli di welfare
La storia dell’OPG di Barcellona Pozzo di Gotto – e di quella che Giunta chiama scherzosamente «l’evasione di massa che abbiamo organizzato» – è esemplare del modo di operare della Fondazione di Comunità fin dalla sua nascita: più che finanziare singole iniziative il suo obiettivo è creare nuovi modelli di sviluppo sostenibile a lungo termine, concentrati nell’area della città metropolitana di Messina.

«È una fondazione che non finanzia progetti, anzi: riteniamo che il lavoro per progetti sia un altro pezzo della precarizzazione della nostra società», spiega Giunta. «Noi vogliamo promuovere modelli di welfare di tipo comunitario, capaci di autosostenersi nel tempo, di redistribuire ricchezza e di aiutare le persone, soprattutto quelle più fragili». Oltre a strutturare e sostenere altri progetti simili per intenti a quello dell’OPG, oggi la Fondazione aiuta la ricerca e gestisce musei e altre attività culturali.

Giunta dice che la Fondazione, come attività primaria, «eroga delle policy», cioè un insieme di azioni in risposta a un problema collettivo. Lo fa mettendo a disposizione la propria competenza nella strutturazione di piani economici a lungo termine, la capacità di attrarre investimenti, e idee innovative derivanti dalla ricerca accademica e scientifica (che incentiva e sostiene).

L’eredità delle stragi
Gaetano Giunta stesso viene dal mondo della ricerca: è un fisico teorico che a un certo punto lasciò la sua attività di ricercatore e rifiutò diverse offerte in importanti centri di ricerca stranieri per dedicarsi al suo territorio. Ha militato per anni nel movimento siciliano non violento e di lotta contro la mafia che nacque dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio del 1992, quando furono assassinati i magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.

Negli anni successivi a quegli avvenimenti Giunta ebbe ruoli di responsabilità in movimenti civici a livello locale e regionale, poi nelle istituzioni locali, finché quella spinta verso il cambiamento perse progressivamente vigore fino alla dissoluzione dei movimenti.

«L’analisi che facemmo io e altri amici – racconta Giunta – fu che il progetto era fallito perché non esistevano in Sicilia dei modelli economici adeguati per cambiare la società». Si convinsero che avrebbero dovuto crearli loro.

«Esiste un’affinità distruttiva tra l’economia di mercato mainstream, che ha come unico obiettivo il profitto, e l’idea delle mafie: cioè il fatto che gli uomini siano delle macchine perfettamente egoiste. Non è necessariamente così», dice Giunta.

Lui e altri che si unirono al suo progetto cominciarono a sperimentare approcci economici che avessero alla base dei vincoli alla massimizzazione del profitto, e che si ponessero invece come obiettivi primari «la libertà delle persone più fragili, la coesione sociale, la sostenibilità ambientale, la ricostruzione di bellezza».

Nel 1998 Giunta fu tra i fondatori della cooperativa sociale Ecos-Med, un centro di ricerca che si occupava di sperimentare modelli evoluti di welfare di comunità. A quella se ne aggiunsero diverse altre, negli anni, tra cui nel 2001 la Fondazione Padre Pino Puglisi per la lotta all’usura e la Fondazione Horcynus Orca, che oggi è un importante museo di “arte contemporanea del Mediterraneo” (ironicamente chiamato MACHO) e un polo internazionale di ricerca tecnologico-ambientale. Dalla rete di questi e altri enti non profit della zona nacque nel 2012 la Fondazione di Comunità di Messina, di cui Giunta è segretario generale.

Uno dei più antichi fari fortificati del Mar Mediterraneo, dopo essere stato restaurato è diventato la sede del Museo d’Arte Contemporaneo Horcynus Orca (MACHO) (Tommaso Merighi/Il Post)

Alcuni punti di arrivo
Gli obiettivi che si prefiggono Giunta e la Fondazione di Comunità possono sembrare un po’ utopici e anche un po’ inafferrabili, finché non si confrontano con i risultati molto concreti raggiunti negli anni, a partire da quel primo progetto che permise a molte persone di uscire dall’Ospedale psichiatrico giudiziario.

Alcuni fondi istituiti dalla fondazione riguardano piccole cittadine, solitamente con la creazione di opportunità rivolte alla popolazione più fragile e l’istituzione di poli di ricerca in accordo con alcune grandi università a livello internazionale. Altri progetti hanno un impatto più sull’area nel suo complesso e sono conosciuti anche al di fuori dal contesto messinese.

Uno di questi è la storia del Birrificio Messina, in cui si produceva un marchio storico di birra siciliana. Nel 1988 il marchio venne acquistato da una nota multinazionale della birra, che per ragioni produttive decise, alla fine degli anni Novanta, di concentrare la produzione in Puglia, a Massafra, dove tuttora si produce quasi tutta la birra del marchio “Birra Messina”, ormai molto diffuso sugli scaffali dei supermercati in tutta Italia.

Nello stabilimento di Messina rimase poco più che l’imbottigliamento, finché nel 2008 venne riacquistato dalla famiglia dei proprietari storici, che tentò un fallimentare rilancio con un nuovo marchio ma lo portò sostanzialmente alla chiusura nel 2011 e al licenziamento dei 42 dipendenti. Così iniziarono grandi proteste da parte dei dipendenti, molti dei quali però alla lunga si arresero a cambiare vita: solo 15 di loro resistettero e per tre anni rivendicarono il loro posto di lavoro fino a decidere, a un certo punto, di rivolgersi alla Fondazione di Comunità.

«Noi li aiutammo a mettersi in cooperativa e costruimmo per loro un piano industriale credibile. Facemmo con loro un lavoro di attrazione di finanziamenti grazie ai nostri partner e lanciammo una grande campagna di comunicazione», racconta Giunta.

Nel 2015 lo stabilimento riaprì con un nuovo prodotto chiamato “Birra dello Stretto”, e oggi ha anche una parte minore di produzione della vecchia Birra Messina. «È diventato un simbolo della città che si ribella al declino», dice Giunta, «ma soprattutto la birra è in utile sin dal primo anno ed esporta in tutto il mondo».

Un recente progetto con un impatto molto tangibile della Fondazione di comunità è quello che sta portando al completamento di condomini tecnologicamente avanzati ed ecologici, in due aree in cui sorgevano alcune delle baraccopoli nate a Messina dopo il terremoto del 1908. In quelle stesse baraccopoli vivono ancora oggi 2mila famiglie: 200 di queste però, circa 650 persone, andranno a vivere nelle nuove case, metà delle quali saranno di loro proprietà.

Dove viveva Cariddi
Dal punto di vista artistico-culturale invece il progetto più visibile della Fondazione di Comunità di Messina è il parco Horcynus Orca, dove l’organizzazione ha la sua sede principale.

Il parco si trova in un’area geografica che ha creato miti e storie raccontate da millenni, affacciato sullo Stretto di Messina, sulla punta nord-occidentale della Sicilia: è lì che nell’Odissea veniva collocato il mostro marino chiamato Cariddi, il più temibile della coppia formata con Scilla, altro mostro marino che secondo il mito si trovava dal lato opposto dello Stretto, in Calabria. Nell’Odissea era stato proprio Cariddi a inghiottire diversi compagni di viaggio di Ulisse, che invece riuscì a salvarsi perché preferì affrontare Scilla, grazie alle preziose dritte della Maga Circe.

Lo stretto di Messina, con in primo piano il faro che sorge su un insediamento dell’età del bronzo (Tommaso Merighi/Il Post)

Il mito si basava sulla realtà naturale del luogo, dove si incontrano i mari Tirreno e Ionio e quindi correnti opposte, dando origine ai gorghi che distruggevano le imbarcazioni di passaggio e che il racconto mitologico trasfigurò nei mostri marini.

Oggi quel posto nella punta della Sicilia si chiama Capo Peloro e conserva un enorme valore artistico culturale anche per la storia non letteraria che lo ha riguardato: prima con la dominazione greca e poi soprattutto con quella romana, durante la quale venne valorizzato con un grande complesso monumentale di cui ancora oggi restano le tracce. Eppure, prima che arrivasse la Fondazione di Comunità quel sito storico era diventato «una discarica abusiva e il principale luogo di spaccio della città, sotto il controllo delle narcomafie», spiega Giunta.

Nel 2001 iniziò un progetto di bonifica e di restituzione del luogo al suo antico valore da parte della fondazione Horcynus Orca (una di quelle che crearono poi la Fondazione di Comunità, e dove lavorava lo stesso Giunta). Oggi ospita un museo d’arte contemporanea (il MACHO) con opere di molti importanti artisti, oltre a due poli di ricerca in collaborazione con le università del luogo e altre a livello internazionale: uno sulle economie sociali e solidali e uno tecnologico-ambientale. «È nostro per esempio il brevetto industriale del fotovoltaico di terza generazione, cioè la possibilità di generare energia da pigmenti colorati naturali, come il succo d’arancia rossa o le bucce di melanzana essiccate», racconta Giunta.

Si chiama in questo modo così particolare, Horcynus Orca, dal titolo di un romanzo dello scrittore Stefano D’Arrigo, che racconta una sorta di Odissea moderna vissuta da un militare di ritorno dalla Seconda guerra mondiale. È un viaggio da Napoli a Cariddi, che passa dal temibile mare dello Stretto come quello di Ulisse.

Oggi il museo d’arte contemporanea è gestito da Martina Corgnati, direttrice di un dipartimento dell’Accademia di Brera a Milano, e i poli di ricerca procedono autonomamente. È l’obiettivo di tutti i progetti della fondazione: strutturarli in modo che diventino autosufficienti. Per questo Giunta è abbastanza sicuro di quello che farà fra cinque anni: «Mi vedo in pensione. Ma mi aspetto che quello che abbiamo creato possa continuare a sostenere alcune aree del Sud e del Mediterraneo a trovare la loro strada per la democrazia».

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