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  • Mercoledì 11 novembre 2020

In un pezzo d’Italia, questa è la prima ondata

Abbiamo analizzato i dati che mostrano come in diverse regioni italiane, soprattutto al Sud, l'epidemia è già adesso molto peggiore rispetto alla scorsa primavera

(Michele Lapini/Getty Images)
(Michele Lapini/Getty Images)

In alcune regioni italiane del Centro e Sud Italia, la seconda ondata dell’epidemia da coronavirus si sta dimostrando peggiore della prima, che aveva investito soprattutto alcune regioni del Nord, in particolare la Lombardia. La situazione dei sistemi sanitari in Campania, Calabria, Sicilia, Sardegna e Umbria, tra gli altri, è peggiore oggi di quanto non fosse tra marzo e aprile, quando fu imposto un rigido lockdown in tutto il territorio nazionale. Questo significa che in alcune zone d’Italia si stanno affrontando ora per la prima volta i grandi problemi contro cui si scontrarono le medicine territoriali e gli ospedali del Nord la scorsa primavera, anche se con qualche vantaggio: avere avuto il tempo di prepararsi, per chi l’ha fatto, e sapere molte cose in più sul virus e su come trattare i pazienti malati di Covid-19.

Ci sono alcuni dati che più di altri mostrano l’andamento dell’epidemia in queste regioni, e aiutano a capire la gravità delle singole situazioni. Quelli da tempo considerati più stabili e “affidabili” per farsi un’idea sono due: i posti letto occupati nei reparti di terapia intensiva da pazienti malati di Covid-19 e l’eccesso di mortalità in un territorio, cioè il saldo delle morti in eccesso in un certo periodo rispetto alla media dei precedenti. Riguardo ai numeri, però, ci sono da fare due premesse.

La prima è che il dato che molti guardano più spesso, il numero giornaliero dei nuovi contagi, presenta moltissimi limiti, perché dipende in larga parte dal numero di tamponi effettuati e dalle categorie delle persone sottoposte al test: la scorsa primavera si facevano i tamponi quasi esclusivamente alle persone ricoverate in ospedale mentre oggi non è più così, anche se con il diffondersi dell’epidemia sta diventando sempre più difficile garantire test per gli asintomatici, per esempio, o per i contatti stretti. In questo senso è più utile guardare il tasso di positività dei tamponi (la percentuale di tamponi che risultano positivi sul totale di quelli fatti), ma anche in questo caso con molte cautele; così come è prezioso e importante valutare la situazione di emergenza in cui opera la medicina territoriale in una certa regione, situazione che però è difficilmente “misurabile” con dati e numeri.

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La seconda premessa è che il numero dei posti letto occupati in terapia intensiva, per quanto più affidabile del numero di nuovi contagi giornalieri, è comunque da prendere con le molle. Uno dei limiti più grandi è che non indica i nuovi ingressi in terapia intensiva nelle precedenti 24 ore, ma il saldo tra ingressi e uscite (la versione lunga della spiegazione è qui). Un altro limite è che ogni regione usa criteri diversi per contare i posti di terapia intensiva (in Calabria a un certo punto si è iniziato a considerare ricoverati in terapia intensiva solo i pazienti intubati, escludendo gli altri). È inoltre un dato che è utile accostare al numero dei ricoverati fuori dalle terapie intensive, in modo da avere un quadro più preciso della pressione a cui è sottoposto il sistema ospedaliero di una certa regione.

Finite le premesse.

Se si guardano i numeri assoluti dei posti letto occupati da pazienti Covid-19 nelle terapie intensive dall’inizio dell’epidemia a oggi, c’è un dato che salta agli occhi più degli altri: in alcune regioni il picco del numero dei ricoverati si è raggiunto ora, superando il massimo registrato durante la prima ondata, che non aveva avuto la forza osservata in Lombardia o in Veneto (per picco non si intende il numero massimo raggiungibile, ma il massimo raggiunto finora, che in molte regioni sta ancora aumentando).

Le regioni in cui la seconda ondata ha superato la prima, almeno stando ai dati sulle terapie intensive, sono in questo momento Calabria (con soli tre posti letto di differenza, ma appunto con un modo diverso di contare i pazienti di terapia intensiva), Campania, Lazio, Sardegna, Sicilia e Umbria. Al picco della prima ondata sono inoltre molto vicine la Basilicata e il Molise. La Puglia, anche lei vicina, sta facendo registrare da almeno una settimana numeri molto rilevanti, superiori a quelli della maggior parte dei giorni più critici della scorsa primavera.

Il numero assoluto dei posti letto occupati da pazienti Covid-19 nelle terapie intensive aiuta a capire se la seconda ondata si stia dimostrando più critica della prima, ma non è sufficiente per farsi un’idea della gravità della situazione degli ospedali. Alcuni sistemi regionali sono infatti molto più attrezzati di altri: lo stesso numero di ricoverati in due regioni diverse potrebbe significare una situazione quasi normale da una parte, e collasso dall’altra.

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Per questa ragione serve guardare la percentuale di pazienti malati di Covid-19 ricoverati nelle terapie intensive sul totale di tutti i ricoverati in rianimazione. Quando questa percentuale supera il 30 per cento, ha stabilito il ministro della Salute, Roberto Speranza, allora siamo in una situazione critica. Bisogna ricordare che nelle terapie intensive sono ricoverati anche pazienti non malati di Covid-19, che sono in condizioni così gravi da non poter essere trasferiti in altri reparti: ridurre sempre più i posti disponibili per queste persone significa creare enorme pressione sugli ospedali e non garantire più le cure ai pazienti più gravi.

Secondo i dati messi insieme dal governo, diverse regioni sono oggi in una situazione definita “critica” (i dati sempre molto accurati elaborati da Infodata, il datablog del Sole 24 Ore, mostrano percentuali anche più alte).

Come si vede dai dati, le regioni che stanno sotto la soglia del 30 per cento – e che quindi sembrano essere in una situazione meno grave – sono in questo momento Abruzzo, Basilicata, Calabria, Friuli-Venezia Giulia, Lazio, Molise, Sicilia e Veneto.

Anche questi, però, sono dati da maneggiare con cautela. In Calabria, per esempio, la “saturazione” dei posti letti con pazienti malati di Covid-19 è al 16 per cento: un dato significativamente più basso rispetto a molte altre regioni italiane che però, a differenza della Calabria, non sono state inserite dal governo tra le cosiddette “aree rosse“. Significa che quel dato non rispecchia in maniera chiara la situazione del sistema sanitario calabrese, e forse non è spiegabile solo con l’esclusione dai conteggi giornalieri dei pazienti che stanno ricevendo cure intensive ma non sono intubati. Anche la Sardegna, che è al 30 per cento, sembra mostrare una situazione reale molto più critica di quella dell’Emilia-Romagna, che ha una percentuale di saturazione del 38 per cento ma ospedali molto più attrezzati, sia per macchinari che per personale sanitario.

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Per avere un quadro più chiaro della situazione degli ospedali nelle varie regioni italiane, è utile guardare anche il numero delle persone malate di Covid-19 ricoverate nei reparti, cioè fuori dalle terapie intensive: spesso sono pazienti che richiedono comunque grandi attenzioni da parte del personale sanitario, e le cui condizioni possono essere piuttosto serie. Per esempio i pazienti con i caschi CPAP, cioè il sistema di ventilazione precedente per gravità all’intubazione, si trovano in molti casi nei reparti, dove negli ospedali più colpiti c’è una grande presenza di medici e infermieri che in “tempo di pace” si occupano d’altro e che hanno poca dimestichezza con pazienti così gravi (infermieri che lavorano negli ambulatori, chirurghi plastici, radiologi, eccetera).

Se si considerano questi dati – che come nei grafici sopra sono numeri assoluti – si vede che le regioni italiane che non hanno già raggiunto il proprio picco assoluto nella seconda ondata sono solo quattro: Emilia-Romagna, Lombardia, Marche e provincia autonoma di Trento. Tutte le altre – chi più chi meno – non hanno mai avuto così tanti malati di Covid-19 ricoverati nei reparti.

Sono dati interessanti perché aiutano a farsi un’idea più chiara della notevole pressione a cui sono sottoposti alcuni sistemi sanitari regionali, anche quelli che non comunicano numeri tra i più allarmanti sulle terapie intensive. In alcune regioni, per esempio, il numero dei ricoveri è più che raddoppiato: è il caso della Basilicata, della Campania, della Sicilia, della Sardegna e dell’Umbria. È possibile che in diverse regioni si registrino numeri più alti rispetto alla prima ondata per due ragioni: per una maggiore preparazione degli ospedali ad accogliere pazienti positivi al coronavirus, e perché la scorsa primavera si erano fatti numerosi appelli a non andare in pronto soccorso, a meno di insufficienze respiratorie serie.

C’è un altro elemento da considerare e che dipende proprio dal raggiungimento del picco nella prima o nella seconda ondata.

Diversi medici sentiti dal Post hanno spiegato come, di fronte a un aumento improvviso del numero di ricoverati per Covid-19, sia estremamente importante per un ospedale essere pronto: essere quindi in grado di riorganizzare gli spazi molto velocemente, espandendo per esempio le zone cosiddette “sporche” (quindi con persone positive al coronavirus), senza rinunciare per quanto possibile alle attività ordinarie; e allo stesso tempo essere in grado di riorganizzare il personale, garantendo l’assistenza e le cure necessarie ai pazienti con difficoltà respiratorie e organizzando corsi di formazione a infermieri e medici che solitamente non si occupano di malattie di quel tipo.

Fare tutto questo non è facile. Gli ospedali delle regioni già investite dalla prima ondata hanno guadagnato una sorta di vantaggio sugli altri, perché si sono già trovati nella situazione di reagire all’emergenza: possono contare su medici e infermieri già istruiti nei processi di vestizione (camice, mascherina, visiera, eccetera) e nell’uso dei vari dispositivi per la ventilazione, e su reti regionali efficienti di trasferimento di malati di Covid-19 sul territorio. Alla fine di ottobre Luca Lorini, capo delle terapie intensive di Bergamo, aveva raccontato che diversi colleghi anestesisti di altri ospedali italiani avevano continuato a chiamarlo anche dopo l’inizio della seconda ondata, perché erano impreparati sui protocolli da usare per trattare i pazienti malati di Covid-19.

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Oltre ai posti letto occupati da pazienti con il Covid-19 nelle terapie intensive, il secondo dato rilevante per capire l’impatto dell’epidemia da coronavirus su un territorio è quello relativo all’eccesso di mortalità. È importante perché è un dato che può includere sia i morti per Covid-19, sia i morti per altre patologie, incluso chi non ha potuto accedere ai trattamenti necessari per curare le proprie patologie proprio a causa del sovraccarico degli ospedali.

A fine ottobre l’ISTAT aveva pubblicato i risultati dell’ultima misurazione sulla mortalità in Italia nella prima parte del 2020, che aveva confermato che tra marzo e aprile al Nord c’era stato circa il doppio dei decessi rispetto alla media degli anni precedenti, mentre al Centro, e soprattutto al Sud, si erano registrate percentuali molto più contenute (un aumento rispettivamente di circa il 12 e il 5,5 percentuali). Non si hanno ancora a disposizione i dati completi sull’eccesso di mortalità durante la seconda ondata: per il momento c’è solo qualche grafico diffuso dal ministero della Salute (PDF), che mostra come l’eccesso di mortalità registrato al Centro-Sud nella seconda ondata abbia già superato quello della prima, contrariamente a quanto è successo nel Nord.

Tutti questi dati sono da prendere con le molle, sia per i loro limiti nel descrivere in maniera completa ed esauriente la situazione nelle varie regioni, sia perché sono parziali: l’Italia è ancora nel mezzo della seconda ondata, e in diverse regioni i numeri dei letti occupati dentro e fuori dalle terapie intensive sono in aumento. L’Italia è anche un paese con enormi differenze tra i vari sistemi sanitari regionali.

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Guardando questi numeri – quindi considerando solo la parte più “misurabile” dell’epidemia – si possono trarre diverse conclusioni, ma con molte prudenze: non ci sono dati ufficiali riguardo ai ricoveri di pazienti malati di Covid-19 negli ospedali delle singole province, e questo limita molto l’analisi delle varie situazioni regionali, che si basano in larga parte su testimonianze e racconti degli operatori sanitari.

Per alcune regioni italiane la seconda ondata, quella iniziata a settembre-ottobre e ancora in corso, si sta rivelando estremamente più intensa e critica della prima: i sistemi sanitari di Sardegna e Sicilia, per esempio, stanno sperimentando soltanto ora lo “tsunami” provocato dall’epidemia che aveva investito diverse regioni del Nord la scorsa primavera. Situazioni simili si stanno vedendo anche in altre zone d’Italia: in Calabria, una regione con un sistema sanitario fragilissimo che non era stato praticamente toccato dall’epidemia la scorsa primavera; in Umbria, dove si registra una percentuale di occupazione delle terapie intensive da parte di malati Covid pari al 57 per cento (una delle più alte del paese); e in diverse altre province del Sud, come quelle di Napoli, Bari e Barletta-Andria-Trani, che hanno un sistema ospedaliero vicino al collasso.

La seconda ondata sta colpendo in maniera molto forte anche diverse zone del Centro e Nord Italia: la capacità degli ospedali delle province lombarde di Milano, Monza e Brianza, Varese e Como (molto meno colpite di altre dalla prima ondata) è al limite, così come quella della provincia di Torino, e delle aree attorno ad Empoli e Pistoia, in Toscana. Anche le regioni già colpite dall’emergenza stanno attraversando un’altra crisi, ancora più grave: sta succedendo per esempio nel Lazio, che a novembre ha raggiunto il suo picco di ricoverati Covid sia dentro che fuori i reparti di terapia intensiva.

È difficile dire come si evolverà la situazione, e se altre regioni supereranno i propri picchi raggiunti la scorsa primavera. Per ora c’è molta attenzione, anche nelle zone di Italia già colpite, come Emilia-Romagna e Veneto, che il governo sta valutando se spostare nel cosiddetto “rischio alto”.